Oltre la crisi del socialismo

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-di MAURIZIO BALLISTRERI-

All’indomani del crollo del Muro di Berlino il sociologo liberaldemocratico anglo-tedesco Ralf Dahrendorf preconizzò che la fine del comunismo avrebbe provocato anche la crisi del socialismo democratico; a sua volta, nel 2006, sul versante della sinistra antagonista un intellettuale “irregolare” come Antonio Negri, sostenne in un libro dal titolo “Goodbye Mr. Socialism”, la tesi del superamento del “vecchio modello redistributivo” e l’esigenza di “nuovi paradigmi che possano ridisegnare la via della trasformazione sociale”.

Il socialismo democratico, e, quindi, la sinistra maggioritaria dalla fine della 2° guerra mondiale, in Europa evidenzia una divisione tra due prospettive: l’accettazione delle politiche neoliberiste, il dialogo con i centri di potere finanziario, la collaborazione con i partiti popolari, a loro volta regrediti su posizioni conservatrici; la contestazione, di converso, della globalizzazione economica e l’alleanza con i nuovi movimenti di sinistra, segnati dalla teoria e dalla pratica dell’”autorganizzazione sociale”.

La prima prospettiva, inaugurata da Tony Blair alla fine del ‘900, vede i socialisti tedeschi e quelli spagnoli sostenere nei rispettivi Paesi governi con o dei popolari; la seconda con i socialisti che in Vallonia bloccano l’accordo di liberoscambio tra Europa e Canada, in Portogallo governano con i due partiti della nuova sinistra nel crinale stretto tra gli obblighi imposti dalla Troika e la tradizione sociale.

Casi a sé i laburisti inglesi, divisi tra una base entusiasta delle posizioni radicali di James Corbyn e un gruppo parlamentare nostalgico della “Terza via”, la Francia, in cui il presidente socialista Hollande fu eletto con un programma di riforme economiche e sociali “di struttura”, ampiamente disatteso da politiche di stabilizzazione e di accettazione dell’austerity imposta dalla Merkel e l’Italia, il cui premier è anche leader di un partito, il Pd, che nominalmente aderisce al socialismo europeo, rappresentandone però, per storia e per azione politica, un corpo estraneo.

Insomma, da una parte sembra verificarsi una “fuoriuscita” dal socialismo nella sua declinazione riformista, fondata su Welfare State, redistribuzione fiscale, intervento pubblico in economia, partecipazione dei lavoratori in azienda, con la sostituzione dei diritti sociali con quelli della persona, per coniugare libertà civili e mercatismo; dall’altra, la riproposizione e l’aggiornamento del compromesso tra capitale e lavoro, con al centro della politica il tema della giustizia sociale. Già, un crinale stretto, poiché nel primo caso il rischio è il ripudio da parte dei ceti popolari, com’è avvenuto al Pasok in Grecia e, nell’altro, il velleitarismo, per la perdita di ruolo dello strumento fondamentale per le politiche sociali: lo Stato nazionale, la cui sovranità è stata fortemente vulnerata dalla finanza globale e in Europa dalle politiche monetariste di Bruxelles.

Forse, la nuova prospettiva potrebbe essere per il socialismo democratico, quella di contaminarsi con altre culture e identità politiche, di dialogare anche sui temi del comunitarismo e della sovranità nazionale, oltre il “secolo breve”.

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