Tra passato e presente: quando 87 anni fa l’economia crollò

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-di ANTONIO MAGLIE-

Era un martedì pieno di preoccupazioni e inquietudini. I segnali erano arrivati chiari e forti nella settimana precedente, giovedì, per la precisione (venerdì in Italia). Ma quel martedì 29 ottobre 1929 le cose a Wall Street andarono ancora peggio. Era il detonatore che faceva esplodere definitivamente la Grande Depressione diffondendo i suoi effetti un po’ in tutto il mondo, esattamente come quella che ha colpito nuovamente il nostro pianeta a partire dal 2008 (data ufficiale: il fallimento di Lehman Brothers; data reale: l’anno prima, 2007, quando il mercato immobiliare negli Stati Uniti cominciò a cedere annunciando la rottura della “bolla speculativa” che aveva arricchito molti facendo schizzare verso vette altissime i prezzi delle abitazioni). Comincia sempre così, con un bel crollo della borsa. Poi, però, ci si rende conto che le felici giornate dei mesi e degli anni precedenti, l’euforia nascondevano realtà spiacevoli: una pessima distribuzione del reddito, una cattiva gestione delle imprese, difficoltà sapientemente occultate del sistema bancario (accompagnate da nascoste pratiche non proprio commendevoli), una eccessiva distribuzione di prestiti (o nel caso a noi vicino e incombente, di mutui) decisamente poco garantiti ma utili ad attivare speculazioni.

C’è stato tutto questo oggi e ci fu tutto questo anche allora. Paul Krugman, premio Nobel per l’economia, ha spiegato nei suoi libri come l’America uscì dalla Grande Depressione molto forte economicamente (persino la seconda guerra mondiale che venne combattuta in altri continenti si trasformò in una occasione di crescita, economica e persino demografica) ma anche profondamente cambiata. La ricchezza che prima del venerdì (o giovedì) e del martedì nero era distribuita in maniera molto diseguale garantendo altissimi tenori di vita solo a una ristretta élite, con le ricette economiche e sociali messe a punto da Franklin Delano Roosevelt (e che non vennero smentite successivamente alla sua morte nemmeno da presidenti repubblicani come Dwight Eisenhower) venne distribuita più equamente creando così la società Middle Class, la società della classe media disposta a spendere perché per la prima volta nella vita disponeva delle risorse per acquistare la casa, un frigorifero, la televisione, l’auto. La Grande Depressione si trasformò nella Grande Occasione. Come d’altro canto, aveva promesso Roosevelt varcando la soglia della Casa Bianca il 4 marzo del 1933.

A guardare le cose a ottantasette anni di distanza si potrebbe anche dire che certo i tempi sono cambiati, molte situazioni mutate con la terza rivoluzione industriale che ha confuso le carte sul tavolo della storia, ma che tutto sommato i punti di contatto tra le due vicende sono forse più numerosi di quelli che segnano una chiara e irrimediabile discontinuità. D’altro canto, Thomas Piketty ha spiegato come la globalizzazione non sia un frutto originale di questi tempi perché anche la seconda rivoluzione industriale ne produsse una che raggiunte il suo punto più alto alla vigilia dell’esplosione della prima guerra mondiale. E anche la ricchezza concentrata in poche mani era il tratto caratterizzante di quella prima forma di globalizzazione. La Grande Depressione fece crollare negli Stati Uniti l’indice della produzione industriale del 45 per cento in quattro anni; in Germania il ridimensionamento fu inferiore: 41 per cento recuperato quasi per intero nei tre anni successivi (in particolare nel ’34 e nel ’35) con le massicce spese per il riarmo volute da Adolf Hitler. Benito Mussolini in Italia provò a nascondere gli effetti della Grande Depressione che, però, vennero avvertiti dai lavoratori sotto forma di tagli al salario (uno dei motivi che impedì al sindacato corporativo di “sfondare” nelle fabbriche).

Per ricordare questa vicenda ci è parso utile pubblicare il discorso che pronunciò Roosevelt al momento del suo insediamento alla Casa Bianca. Leggendolo molti giungeranno alla conclusione che una delle diversità tra le due crisi è rappresentata dalle leadership: quella del presidente americano era animata da una visione, quella degli attuali capi di governo appare al contrario segnata da una miopia che nemmeno un buon oculista sembra essere in grado di attenuare in qualche modo.

“Abbiate paura solo della paura”

-di Franklin Delano Roosevelt*-

Questo è un giorno di consacrazione della Nazione. Sono certo che i miei concittadini americani si aspettano che nel giorno del mio insediamento alla Presidenza mi rivolga loro con la trasparenza e la determinazione richieste dalle attuali condizioni del Paese. In questo momento bisogna davvero dire la verità, tutta la verità, con sincerità e coraggio. Non ci si può esimere dall’affrontare con onestà la situazione del Paese. Questa grande Nazione resisterà come ha sempre fatto, si riprenderà e tornerà a essere fiorente. Lasciatemi quindi affermare innanzitutto che credo fermamente che l’unica cosa di cui dobbiamo aver paura è la paura stessa: il terrore senza nome, irrazionale e ingiustificato che paralizza tutti gli sforzi necessari per passare dalla ritirata all’attacco. In ogni momento buio della nostra storia nazionale una leadership onesta ed energica ha potuto contare sulla comprensione e il supporto del popolo, che sono indispensabili per la ripresa. Sono certo che anche in questi giorni difficili voi le garantirete il vostro sostegno.

È con questo spirito che noi tutti – io e voi – affrontiamo le nostre comuni difficoltà. Grazie a Dio riguardano solo beni materiali: le quotazioni sono precipitate a livelli impressionanti; le tasse sono cresciute; sono crollate le nostre possibilità di pagamento; l’amministrazione federale e quelle locali sono alle prese con una forte diminuzione delle entrate; c’è stato un congelamento delle possibilità di scambi commerciali internazionali; le iniziative imprenditoriali giacciono ovunque a terra come foglie secche; gli agricoltori non trovano mercato per i loro prodotti, mentre sono ormai esauriti i risparmi accumulati in molti anni da migliaia di famiglie.

Ancor più gravi sono le condizioni di una moltitudine di cittadini disoccupati alle prese con il problema spaventoso della sopravvivenza, mentre altrettante persone lavorano duramente per pochi spiccioli. Solo un folle ottimista può negare la cupa realtà del momento.

Eppure le nostre sciagure non derivano da alcun fallimento sostanziale. Né siamo colpiti da alcun flagello di locuste. Dovremmo anzi aver seri motivi di riconoscenza, ponendo mente ai pericoli vinti dai nostri avi grazie alla loro fede e alla loro audacia. La natura ci offre ancora le sue incalcolabili ricchezze, e gli sforzi dell’uomo sono giunti a moltiplicarle. L’abbondanza è alle soglie delle nostre case, ma la possibilità di valercene viene meno benche questi tesori ci siano a portata di mano.

Questo accade perché quanti dominano nel campo dello scambio dei beni materiali, venuti meno dapprima al loro compito per ostinazione ed incompetenza, ammettono poi il loro fallimento ed abdicano alle loro responsabilità. Davanti al tribunale dell’opinione pubblica, condannati dal cuore e dalla mente degli uomini, stanno i sistemi di speculatori poco scrupolosi.

A loro difesa si potrebbe ammettere che essi hanno pur tentato di agire; ma d’altra parte si deve dire che hanno agito seguendo schemi di tradizioni ormai superate. Di fronte al fallimento del credito, essi hanno saputo soltanto proporre di ricorrere a nuove concessioni di credito. Quando è stato loro impossibile di continuare a prospettare il miraggio del profitto per indurre il nostro popolo a seguire le loro false teorie di governo, essi hanno creduto di poter correre ai ripari con pietose esortazioni invitanti a concedere ancora la perduta fiducia. Essi non conoscono altre norme, che quelle di una generazione di difensori dei propri interessi. Non hanno alcuna larghezza di visione, e quando manca tale elemento i popoli decadono.

Questi barattatori del denaro altrui sono fuggiti dai loro alti seggi nel tempio della nostra civiltà. Sarà ora possibile restituire questo tempio al culto delle verità antiche. E la misura più o meno vasta di questa restaurazione dipenderà dalla proporzione nella quale verranno applicati valori sociali più nobili di quelli del puro e semplice profitto monetario.

La felicità non consiste esclusivamente nel possesso del denaro; essa si concreta nella gioia del raggiungimento d’uno scopo, nell’emozione data da ogni sforzo di creazione. Nella folle rincorsa dietro profitti evanescenti non si deve più dimenticare la gioia e lo stimolo morale prodotti dal lavoro. Questi giorni difficili saranno valsi il prezzo di qualsiasi sacrificio sofferto, se ci avranno insegnato che il nostro vero destino non è di sottostare rassegnatamente a tante difficoltà, ma di reagire ad esse per noi stessi e per i nostri simili.

Il riconoscere la falsità della ricchezza puramente materialistica come indice di successo procede di pari passo con l’abbandonare la falsa convinzione che i posti di alta responsabilità pubblica e politica si identificano con i fini dell’ambizione e del profitto personale. Bisogna porre fine a quella linea di condotta bancaria e commercialistica, che troppo spesso ha permesso di confondere la concessione di sacri diritti con la possibilità di perpetuare impunemente il male secondo criteri spietatamente egoistici. C’è poco da meravigliarsi di fronte alla diminuita fiducia, perché la confidenza prospera solo se alimentata dall’onestà, dal senso dell’onore,
dal mantenimento delle obbligazioni assunte, da un costante spirito di protezione e da una linea di
condotta invariabilmente altruistica. In mancanza di tali elementi la fiducia è destinata a morire.

Ma la ricostruzione non esige solo modificazioni di indole morale. La nostra nazione domanda di poter agire, e immediatamente. Il nostro primo grande compito è di dare lavoro al popolo. Non è un problema insolubile, se affrontato con saggezza e coraggio. Può essere parzialmente risolto per mezzo di ingaggi diretti da parte del governo, affrontando la questione come si affronterebbe in caso di bisogno la mobilitazione per una guerra; ma nello stesso tempo non dimenticando che tale impiego di uomini va diretto al compimento di opere di grande utilità pubblica, realizzando progetti adatti a provocare e riorganizzare l’uso delle nostre grandi risorse nazionali.

Al tempo stesso, però, bisogna ammettere francamente che nei nostri centri industriali esiste un eccesso di popolazione, ed in conseguenza, impegnandoci in una ridistribuzione di uomini in tutta la nazione, occorrerà tentar di provocare un migliore sfruttamento delle possibilità agricole del
suolo americano, a beneficio di chi è più adatto alla coltivazione della terra. Affermo che questo compito può essere facilitato da sforzi ben precisati per giungere ad un rialzo del valore dei pro-
dotti agricoli e quindi ad una aumentata capacità d’acquisto della produzione dei centri urbani. Può essere facilitato impedendo con mezzi pratici l’aumento delle perdite, che deriva alle nostre piccole
aziende agricole da affrettate e premature sospensioni della loro attività. Può essere facilitato insistendo sull’opportunità da parte del Governo Federale, di quelli dei vari Stati e delle amministrazioni locali di fare il possibile per ridurre i gravami delle imposte. Può essere facilitato unificando
attività che oggi sono inadeguate, antieconomiche e mal distribuite. Può essere facilitato per mezzo di un progetto nazionale per l’organizzazione e la sorveglianza sui trasporti, le comunicazioni e altri servizi, che hanno un carattere spiccatamente pubblico. Insomma, molti sono i mezzi per risolvere il problema, che non verrà tuttavia mai risolto soltanto col continuare a parlarne. Occorre agire: e dobbiamo agire rapidamente.

Infine, nel nostro progresso verso una ripresa del lavoro occorre tenere presenti due salvaguardie contro i mali del vecchio ordine di cose: bisogna esercitare una stretta sorveglianza su tutto il sistema bancario, creditizio e di investimento del denaro; bisogna finirla con le speculazioni basate sul denaro altrui; ed è necessario prendere disposizioni per raggiungere una correntezza adeguata, ma solida.

Tale è il programma d’azione attraverso il quale ci proponiamo di ridare l’ordine alla nostra nazione e di riportare al pareggio il suo bilancio. Le nostre relazioni commerciali con l’estero, benché di somma importanza, dal punto di vista dell’urgenza e quindi del tempo vengono necessariamente in seconda linea, e non possono essere affrontate che dopo la riorganizzazione di una salda economia nazionale. Io considero sana politica l’affrontare in precedenza quello che è per noi di primaria im portanza. Farò di tutto per favorire il commercio attraverso un riassestamento dell’economia internazionale, ma le immediate necessità interne della nazione non possono attendere che questo si compia in precedenza.

L’idea fondamentale, che coordina i mezzi specifici per giungere al risanamento nazionale, non è strettamente nazionalistica. In primo luogo essa consiste nel tener conto dell’innegabile interdipendenza di tutti i vari elementi che formano gli Stati Uniti d’America; è una specie di riconoscimento dell’antico e perennemente essenziale spirito del pioniere americano. In essa è la via della salvezza. Anzi, essa è l’immediata salvezza. Ed è la certezza che la rinascita sarà duratura.

Nel campo della politica estera vorrei indirizzare la nazione sulla via del buon vicinato, seguendo i principii di chi rispetta risolutamente sé stesso e, proprio per questo, rispetta anche i diritti degli altri. Bisogna essere come l’uomo che riconosce la santità delle proprie obbligazioni in mezzo al mondo di tutti i suoi vicini.

Spero di interpretare fedelmente il pensiero del nostro popolo dicendo che mai prima di ora abbiamo così chiaramente realizzato la nostra interdipendenza, l’uno con l’altro; abbiamo imparato
che non è lecito prendere soltanto, ma che bisogna anche saper dare; che, se vogliamo progredire, occorre marciare come un esercito fedele e ben addestrato, pronto a sacrificarsi per il trionfo della comune disciplina, perché senza tale disciplina non può esistere progresso, ne alcuna guida può dare buoni risultati. So bene che siamo pronti e disposti a sottoporre la nostra vita e le nostre ricchezze a tale disciplina perché essa consente il consolidarsi d’una linea di governo che tende a un più diffuso benessere. Questo io mi propongo d’offrire, promettendo che i più vasti obiettivi da raggiungere peseranno su noi, su tutti noi, con un’unità di doveri, che sino ad oggi è stata invocata solo in tempi di guerra. Fatta questa promessa, assumo senza esitazioni il comando di quel grande esercito che è il nostro popolo, per muovere un disciplinato attacco contro i comuni problemi.

Sotto la forma di governo ereditata dai nostri avi è possibile agire in questa forma e per tale fine. La nostra Costituzione è così semplice e pratica che è sempre possibile affrontare esigenze straordinarie con adattamenti insignificanti delle sue disposizioni e senza derogare dai suoi principii essenziali. Ecco perché il nostro sistema costituzionale si è costantemente dimostrato il meccanismo più superbamente duraturo che esista nel mondo moderno. Ha resistito a ogni frangente di espansione territoriale, di guerra intestina, di relazioni col resto del mondo.

È quindi lecito sperare che il normale equilibrio tra il potere esecutivo e legislativo si dimostri in tutto adeguato a fronteggiare l’eccezionale compito che ci attende. Ma può anche darsi che situazioni mai presentatesi in precedenza e richiedenti azione immediata possano costringere a momentanee deroghe dal normale equilibrio della pubblica procedura.

Osservando i miei doveri verso la costituzione, sono pronto a richiedere l’adozione di quelle eccezionali misure che una nazione gravemente colpita potrebbe esigere in questo mondo gravemente colpito. Tali misure, o quelle che il Congresso dovesse ricavare dalla sua esperienza e dalla sua saggezza, io cercherò, entro i limiti della mia autorità costituzionale, di portare alla più sollecita adozione.

Ma se il Congresso non volesse adottare una di queste due alternative, e se la situazione della nazione fosse ancora critica, io non mi sottrarrò alla chiara responsabilità che eventualmente mi si presentasse. Domanderei al Congresso l’ultimo mezzo che resterebbe per fronteggiare la crisi: ampi poteri esecutivi per combattere contro i pericoli del momento, poteri altrettanto ampi come quelli che mi si potrebbero dare se il nostro territorio fosse invaso da un nemico.

In cambio della fiducia avuta in me saprò dare il coraggio e la devozione che convengono al momento presente. È il meno che io possa fare. Noi affrontiamo i difficili giorni che ci attendono, col vivo coraggio derivante dalla nostra unità nazionale, con la chiara coscienza di voler perseguire e ritrovare gli antichi e preziosi valori morali, con la netta soddisfazione proveniente dal compimento del proprio dovere da parte dei giovani e dei vecchi. Nostro scopo è il raggiungimento di una vita nazionale stabilmente riordinata.

Non guardiamo con sfiducia verso l’avvenire della vera democrazia. Il popolo degli Stati Uniti non ha tradito sé stesso. Nel momento del bisogno ha sottoscritto la richiesta di volere che si agisca sol-lecitamente e decisamente. Ha chiesto la disciplina e ha voluto essere guidato con sicurezza. Ha fatto di me l’attuale strumento del suo volere. Secondo lo spirito col quale il dono m’è stato fatto, io lo accetto.

In questo giorno di consacrazione alla nazione domandiamo umilmente la benedizione di Dio. Che Egli protegga ciascuno e tutti noi. Che Egli mi guidi nei giorni venturi.

*Discorso di investitura pronunciato il 4 marzo 1933

antoniomaglie

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