Domani presso la Biblioteca del Senato – Sala degli atti parlamentari – Piazza della Minerva n. 38, si svolgerà una giornata in onore di Pietro Nenni. Alle ore 11 verrà inaugurata la mostra “Pietro Nenni padre della Repubblica”. Interverranno Carmelo Barbagallo, Giorgio Benvenuto, Stefano Collina, Valeria Fedeli, Cesare Salvi e Maria Vittoria Tomassi. Una mostra storico-documentaria per ricordare l’importanza e la rilevanza del leader socialista come padre della Repubblica.
“A settant’anni dalla vittoria del referendum del 2 giugno 1946, vogliamo ravvivare il ricordo di uno dei protagonisti della rinascita democratica e repubblicana del Paese”. Le parole del Presidente della Fondazione Pietro Nenni, Giorgio Benvenuto.
Il Presidente interverrà anche nella seconda parte della giornata, quando la collezione integrale originale dei diari manoscritti di Pietro Nenni, verrà donata dalla famiglia all’Archivio Storico del Senato. Alle 17 sarà presentato il libro “Socialista libertario giacobino. Diari (1973-1979)” a cura di Paolo Franchi e Maria Vittoria Tomassi, nipote di Pietro Nenni. Quest’ultima spiega come con questa donazione si voglia “contribuire alla riscoperta e alla diffusione del pensiero di uno dei padri della Repubblica italiana, forse tra i meno ricordati”. Sarà presente il Presidente emerito della Repubblica Giorgio Napolitano, Rino Formica, Paolo Franchi, Miguel Gotor e Flavia Piccoli Nardelli; modera Marco Da Milano.
Di seguito troverete la prefazione del libro “Pietro Nenni. Socialista libertario e giacobino. Diari (1973-1979).” a cura di Paolo Franchi e Maria Vittoria Tomassi (edito dalla Marsilio Editori, 2016, 25 euro), che sarà oggetto del dibattito di domani pomeriggio.
-di PAOLO FRANCHI*-
Anche questi ultimi diari, dal 1973 al 1979, Pietro Nenni li ha scritti con grafia minuta su delle agende, di quelle rilegate in (finta?) pelle che una volta le banche regalavano per Natale, incollandovi lui stesso, quando la pagina del giorno non bastava a contenere i suoi appunti, dei foglietti aggiuntivi. La famiglia li ha donati, assieme a tutti quelli degli anni precedenti, alla Biblioteca del Senato, che li metterà a disposizione, secondo le modalità d’uso, di studiosi e ricercatori in versione integrale. Ma all’editore, agli eredi e, ovviamente, a me è parso giusto e importante proporli subito, in forma più agile, a un pubblico più vasto. Ci ho lavorato su a lungo, con il contributo prezioso, anzi, fondamentale,della nipote Maria Vittoria Tomassi, sfrondando tutto ciò che mi pareva sfrondabile, ma rispettandone rigorosamente l’impianto. Non posso certo dare io un giudizio obiettivo sui risultati dell’impresa. Mi sembra, però, che ne sia uscito (per merito di Nenni, si capisce) un libro di grande interesse. Non solo perché questi diari sono una miniera ricchissima di riflessioni; di giudizi storici e politici che tengono insieme in forme oggi letteralmente impensabili passato e presente; di ricordi di donne e di uomini della politica italiana e internazionale, della letteratura e dell’arte. E neppure solo perché testimoniano pagina dopo pagina di quella straordinaria umanità che rese Nenni (“un uomo buono”, secondo il giudizio di Alcide De Gasperi, certo non un buonista) così diverso dagli altri leader politici del tempo. É degli anni Settanta che il Patriarca ci parla, di un’Italia e di un mondo che forse sente non più suoi, ma sui quali continua a interrogarsi e darsi risposte per nulla scontate. Del suo inverno, dunque, che è anche l’inverno della “sua” Repubblica. E, in Italia e fuori d’Italia, è pure l’inverno del “suo” socialismo, l’inverno della “sua” Repubblica: E, in Italia e fuori d’Italia, è pure l’inverno del “suo” socialismo. Già nel 1973, mettendo a raffronto due realtà all’apparenza almeno incomparabili, il golpe cileno e una mezza sconfitta dei socialdemocratici svedesi, Nenni fa una riflessione anticipatrice, da politico di razza: “Tutti i problemi da risolvere in Cile, tutti problemi di vita e di sicurezza risolti in Svezia. Il più alto tenore di vita. La sicurezza in ogni campo. La certezza del diritto. Eppure un secolo, un secolo e mezzo fa la Svezia era per i contadini un paese disumano e di fame con zero industrie. Niente assistenza statale in Cile. Troppa in Svezia? In ogni caso, metà della popolazione violentemente o democraticamente inaccessibile alla soluzione socialista. Un rebus”. Ma, per quanto riguarda la sua fedeltà al socialismo, rebus non ce ne sono. Ne scrive per l’ultima volta in morte del suo vecchio compagno e avversario Lelio Basso, il 18 dicembre 1978: “Ci eravamo conosciuti nel 1926 ai funerali di Anna Kulisciov. Sulla tomba gridammo, “Viva il socialismo” e fummo per questo aggrediti da una squadraccia fascista che ci riempì di botte … Nella scissione del Psiup mi fece un attacco a fondo, senza ricavarne ciò che ricercava: la guida del partito. La sua perdita è comunque un fatto grave. Era ormai fuori da ogni partito anche se aveva ceduto alla debolezza di farsi eleggere dai comunisti al Senato. Ma anche in questo caso non fece ai comunisti o sovietici nessuna concessione ideologica. La verità è che con lui scompare un pezzo di storia del socialismo. E penso con soddisfazione a una sua lettera recente dove diceva che di socialisti in Italia ce n’erano due soltanto, lui ed io. Si riferiva a quel fondo umanistico del socialismo degli esordi al quale tanto lui quanto io siamo rimasti sempre fedeli, anche quando abbiamo concesso molto, forse troppo, al leninismo o addirittura allo stalinismo”. Un suggello sincero su una vita (anzi due) e una storia.
Il tribuno del popolo
Alcide De Gasperi. Palmiro Togliatti. Forse Ferruccio Parri o, più in generale il partito d’Azione e la cultura azionista. Poi basta. O quasi. Curiosamente, ma non troppo, nella vulgata democratica, o in quel che ne resta, il nome di Pietro Nenni quasi non figura più tra i padri fondatori dell’Italia repubblicana; o tutt’al più sta sullo sfondo, con un ruolo di comprimario (se non addirittura di caratterista: gli slogan di Nenni, i comizi di Nenni, il basco di Nenni …) che mal gli si attaglia. Come se sul leader politico che della battaglia per la Repubblica fu senza ombra di dubbio il principale protagonista (assai più di De Gasperi, ovviamente, ma pure più di Togliatti) fosse scesa una coltre di silenzio e di oblio. La riprovazione morale e la damnatio memoriae riservate, a partire dagli anni Novanta, al socialismo italiano, lo hanno risparmiato, anche se, nella fase più infuocata di Mani Pulite, non mancò chi propose di cambiar nome alla piazza principale della sua Faenza, che fortunatamente gli è tuttora dedicata. Ma il giudizio storico-politico su Nenni è spesso frettoloso, talvolta severo al limite della stroncatura, e centrato in sostanza sui suoi limiti e i suoi errori, che pure indiscutibilmente ci furono. Così secco, così definitivo, in certi casi così sprezzante, da sospingerlo quasi ai margini della storia che conta, come si conviene a chi sarà pur stato un grande tribuno del popolo, forse l’unico, di sicuro l’ultimo, nella nostra vicenda repubblicana, ma in politica, nei passaggi decisivi, le ha sbagliate tutte, dalla scelta frontista del 1948 al centro-sinistra degli anni Sessanta: se in Italia (caso unico in Europa) non c’è mai stato un grande partito socialista, la responsabilità principale, in fondo, è sua.
Si tratta di un giudizio sommario, largamente infondato; e, per molti aspetti, di un pregiudizio. Ma cercare di confutarlo con qualche successo non è facile, perché, per farlo, bisogna ricorrere a momenti, luoghi, e soprattutto categorie politiche oggi in larghissima misura desuete: alle categorie del Novecento. Di quel Novecento nei cui gorghi Nenni, il solo leader politico italiano rimasto sulla scena per settant’anni, si è tuffato e ha nuotato per una vita senza paura di annegare. Di quel Novecento la cui fine la morte di Nenni, la notte di Capodanno del 1980, in qualche modo preannuncia.
Libertario e giacobino
Pietro Nenni ha incarnato più di ogni altro il socialismo italiano, e più di ogni altro gli ha impresso il suo segno. Un segno profondamente anomalo, difficile e forse impossibile da mettere a fuoco in termini dottrinari, in ogni caso assai diverso da quello socialdemocratico e (persino negli anni del frontismo, persino quando a Mosca gli veniva conferito il premio Stalin per la pace) da quello comunista. Con un felice ossimoro, Gaetano Arfè lo definì libertario e giacobino. A me sembra tuttora una definizione assai calzante: il libertarismo come ispirazione di fondo, mai dismessa, il giacobinismo come primato dell’iniziativa politica. Non è il caso di rifare qui, nemmeno per sommi capi, la biografia di Nenni. Ma, per capire qualcosa di questa anomalia, alcuni passaggi chiave è bene richiamarli. La sua “scelta di vita” Nenni la fa a otto anni, di fronte a una feroce carica della cavalleria contro donne e uomini, se possibile più poveri ancora di lui, che chiedevano pane: non la tradirà mai, quella scena gli resterà impressa per sempre, e deve essergli tornata in mente pure il 16 maggio del 1975, quando non se la sente di andare al Senato per votare la legge Reale, che ripristina, tra l’altro, il fermo di polizia. Sì, annota, probabilmente è vero, di fronte alla violenza e al terrorismo che insanguinano le piazze, i socialisti non possono che votare a favore. Ma, quanto a lui, spiega così la sua scelta: “La biografia di parecchi di noi, la mia per esempio, si rifà, al di là dello stesso fascismo, al duro scontro della fine dell’Ottocento e degli inizi del Novecento contro le forze armate e la prassi degli eccidi proletari: e adesso ci tocca votare leggi di polizia …”.
Conta anche il fatto che, politicamente, non è nato socialista, il libertario e giacobino Pietro Nenni. É nato repubblicano, di quel repubblicanesimo sociale, radicale e anticlericale che nella sua Romagna è stato avversario fierissimo, più ancora che del socialismo in generale, del socialismo riformista: “Con Nenni entra nel Psi un filone di cultura repubblicana, riformistica, romantica e un po’ barricadiera, nutrita di miti e letture ottocentesche … Ma forse sarebbe più corretto dire che vi rientra, se è vero che tutti i primi leader del socialismo italiano venivano, con poche eccezioni, da quella matrice culturale e da quelle esperienze politiche, (ed) erano stati in gioventù mazziniani e garibaldini”, ha scritto, benissimo, Giovanni Sabbatucci 1). E le anomalie, se così vogliamo chiamarle, non finiscono certo qui. Il giovane Nenni è amico e compagno (anche di cella, nel 1911, per i fatti della settimana rossa) di Benito Mussolini, che invece all’epoca socialista lo è, e della specie più massimalistica. Come Mussolini, e tanti altri uomini della sinistra, è interventista e volontario di guerra, con il grado di sergente. Il Popolo d’Italia pubblica la sua foto in divisa, con una didascalia vergata molto probabilmente dal direttore: “Nenni fu uno dei più giovani rivoluzionari della Settimana Rossa. Ora nasconde la camicia del rivoluzionario sotto il pastrano grigioverde del volontario. A Pietro, nostro giovane amico, i più fraterni auguri”. Ma già nel 1918 comincia a dubitare della giustezza della scelta interventista, quanto basta perché Mussolini lo accusi di essersi messo a “dondolare”. Nel 1919 Nenni si fa promotore della fondazione del fascio dei combattenti di Bologna, esponendo un programma, si legge in un rapporto della Regia Questura, “riassunto in questa espressione: né coi bolscevichi, né coi monarchici, ma per la rivoluzione e la Costituzione”. Il rapporto umano con Mussolini proseguirà, seppure alla distanza incommensurabile che separa il persecutore dal perseguitato, e in fondo non si spezzerà mai del tutto: puvret, poveretto, si lascerà scappare Nenni dopo aver scritto per l’Avanti! il fondo (“Giustizia è fatta”) sulla fucilazione del Duce. E sino alla fine dei suoi giorni si chiederà con angoscia se, intercedendo in qualche modo presso Mussolini, non avrebbe potuto salvare la vita della figlia Vittoria, l’adorata Vivà, arrestata dalla Gestapo in Francia e morta ad Auschwitz. Il rapporto politico, invece, fa presto a diventare di aperta, durissima contrapposizione. La liason dangereuse tra il futuro capo del socialismo italiano e il futuro Duce termina definitivamente nel loro ultimo incontro, nel gennaio del 1922: una lunghissima passeggiata notturna sulla Croisette di Cannes, dove è in corso una conferenza delle potenze vincitrici che Mussolini segue per il Popolo d’Italia e Nenni per l’Avanti!.Sì, perché Nenni, a quel punto, è già approdato al socialismo e al quotidiano socialista, che per tutta la vita sarà per lui infinitamente di più dell’organo del Psi. E lo ha fatto a modo suo, sull’onda di un’emozione: la decisione la ha presa una volta per tutte il 23 marzo del 1921, partecipando alla difesa, armi in pugno, della sede dell’Avanti! assaltata dai fascisti subito dopo l’attentato al Diana. Pochi giorni dopo, il direttore del quotidiano socialista, Giacinto Menotti Serrati, come lui massimalista, ma a differenza di lui fautore della fusione con il neonato Partito comunista d’Italia, lo assume al giornale e lo manda a fare il corrispondente da Parigi. Due anni, e, nel novembre del 1922, a pochi giorni di distanza dalla marcia su Roma, Nenni ne diventerà di fatto il direttore. Da Mosca, dove è in missione, Serrati spedisce all’Avanti! l’ennesimo articolo inneggiante alla fusione immediata con i comunisti. Nenni, che ha preso in sua assenza le redini del giornale, lo pubblica facendolo seguire da un commento che suona come la più drastica delle rotture: “Io penso che se la nostra delegazione a Mosca e la Direzione del partito che ne ha convalidato l’operato avessero ricevuto l’incarico di procedere alla liquidazione sottocosto del Partito socialista, senza nessun beneficio né per l’Internazionale né per il proletariato, non si sarebbero comportate diversamente” 2). Il Comintern perentoriamente chiede. In un messaggio al Psi di smascherare questo Nenni e la sua opera “disorganizzatrice del movimento proletario” 3). Non basterà a impedire né la sconfitta dei fusionisti (i cosiddetti “terzini”) nel congresso socialista dell’aprile 1923 né l’ascesa di Nenni alla direzione dell’Avanti!. Ma basta a noi per mettere in rilievo che la prima battaglia nel Psi Nenni la dà e la vince in nome dell’autonomia socialista. “Una bandiera non si getta in un canto come cosa inutile. Si può anche ammainare, ma con onore, con dignità, per un processo spontaneo di sentimenti”, 4) scrive a conclusione dell’articolo che Mosca giudica una inammissibile provocazione. Quanto a lui, non ha allora, e non avrà mai per tutta la vita, alcuna voglia di ammainarla.
Cerca, nell’ora del disastro, vie nuove. Con Carlo Rosselli, nel 1924, dà vita a Quarto Stato, nella convinzione che non ci possa essere resurrezione del socialismo sconfitto senza un profondo rinnovamento politico, culturale, ideale, e anche di uomini. Rinnovarsi o perire: titolerà così, cinquantacinque anni dopo, anche il suo ultimo articolo sull’ Avanti!. Dura poco, però, il sodalizio con Rosselli, i dissensi emergono quasi subito. Anche perché Nenni, ormai esule in Francia, si adopera soprattutto per mettere assieme i cocci di un socialismo italiano in rotta e dilaniato da aspre lotte di fazione. Per quasi dieci anni duella aspramente con i comunisti, che gli rovesciano addosso insulti sanguinosi e accuse ingiuste, destinate a lasciare in lui tracce incancellabili. Il Nenni ottuagenario di questi Diari deve sentire ancora bruciare la ferita, se il 30 dicembre 1974, in morte di Giuseppe Dozza, il leggendario sindaco comunista della Bologna del secondo dopoguerra, ricorda: “ Negli ultimi anni dell’esilio avevamo assiduamente collaborato firmando assieme il rinnovato patto di unità d’azione tra socialisti e comunisti dopo l’aggressione di Hitler contro l’Unione Sovietica. Era stato necessario da parte mia superare il disgusto e l’amarezza per i suoi ingiusti attacchi sull’ Humanité e sulla stampa clandestina dei comunisti italiani a proposito del fascio di Bologna: nessuno meglio di lui ne conosceva i termini, che potevano legittimare la critica, non certo l’aggressione morale. Ma era abito mentale dei comunisti degli anni Trenta (e ancora lo è) demolire l’avversario con la calunnia dove la ragione non bastava”.
Il Fronte vince. O forse no
Quasi un anno dopo l’ascesa al potere di Hitler, e mentre il fascismo sembra dilagare in Europa, però, i comunisti hanno iniziato a lasciarsi finalmente alle spalle la teoria infame e suicida del social fascismo. E Nenni, che, insisto, la sua bandiera non intende affatto ammainarla, diventa, e resterà (per un lungo periodo insieme a Giuseppe Saragat) il socialista italiano più determinato nella costruzione dell’unità tra i due partiti, destinata a durare, con una breve interruzione nel 1939, ventidue anni: il primo patto d’unità d’azione è siglato il 31 agosto del 1934, l’ultimo sarà dichiarato decaduto solo all’indomani della feroce repressione sovietica dell’insurrezione ungherese del 1956, quando la marcia autonomista di Nenni prende definitivamente il via. Lungo tutta questa stagione è convintamente e risolutamente frontista, Nenni. Anzitutto perché vive in primissima persona le tragedie provocate, negli anni Trenta, dalle furibonde contrapposizioni tra comunisti e socialisti: “Leggo sui giornali che si sta demolendo a Berlino una sala. Si tratta dello Sportpalast, stadio degli sport ma anche della eloquenza politica. Dal 1933 lo Sportpalast fu monopolizzato da Hitler e dai suoi maggiori collaboratori. Prima se ne erano sovente serviti i socialdemocratici e i comunisti. Io vi parlai il 2 marzo del 1931, quando nessuno credeva alla vittoria del nazismo … Ero lì per ammonire con la mia sola presenza sui rischi del fascismo. Ci fu un grande slancio di amicizia verso di me. Non credo che le mie parole convincessero, anche se commossero l’immenso auditorio. Ognuno purtroppo fa la propria storia senza curarsi della esperienza altrui. Il nazismo affilava le armi, i socialdemocratici non riuscirono a superare il passato del 1919. Quanto ai comunisti, essi trascurarono Hitler per sparare a zero sul social-fascismo di noi socialisti. Due anni dopo Hitler era cancelliere del terzo Reich”, scriverà ancora nel 1973. Ma il frontismo di Nenni, che matura lungo esperienze – la Francia del Fronte Popolare, la Spagna repubblicana – che lo segnano per sempre, non è, almeno nelle ambizioni, o nelle illusioni, subalterno nei confronti dei comunisti. É al contrario, o vorrebbe essere competitivo e in qualche misura concorrenziale, illuminato dalla speranza o, ancora una volta, dall’illusione di poter vedere realizzata nell’arco della sua vita l’unità dei lavoratori, il “gran partito” di cui parla l’Internazionale, e in cui spera possano essere “reintrodotti (a fianco della serietà organizzativa dei comunisti) i valori libertari dei socialisti”. 5) Non ragiona troppo diversamente, in realtà, nemmeno quando, per dare vita anche da noi, quando sull’Europa è già calata la cortina di ferro, al Fronte Popolare, paga il prezzo amaro della scissione socialdemocratica e della rottura con Giuseppe Saragat, nonché dell’esclusione dall’Internazionale socialista. Si getta nella campagna elettorale, forse crede più di Palmiro Togliatti che, anche grazie a lui, sia possibile vincere, la sconfitta lo lascia senza fiato. Non cambia campo, anzi, per almeno cinque anni resta fortissimamente ancorato a quella che allora si chiamava “l’unità di classe” sia in Italia sia nel movimento operaio internazionale. Ma anche in quegli anni, i più cupi della storia socialista italiana, non è mai fusionista. Dove sta il cuore del problema lo ha intuito, a modo suo, già all’indomani del disastro del 18 aprile. Molti ricordano quanto scrive a caldo nei suoi Diari: “Posso io rifiutare di prendere atto che sotto bandiera, direzione o ispirazione comunista (apparente o reale poco importa) non si vince in Occidente?”. 6) Fanno bene. Meno retorica, ma non meno significativa, è però anche la domanda che Nenni si pone subito dopo: “Possono Togliatti e gli altri dirigenti comunisti non prendere atto di questa situazione? Oppure tutto ciò è per essi senza importanza purché ci sia un forte Partito comunista, saldamente legato alle esperienze dell’Oriente e in grado di tenere finché si produca una situazione favorevole?” 7). A suggerirgliela è sicuramente anche la durissima penalizzazione inflitta dai comunisti ai candidati socialisti, una penalizzazione che colpisce persino lui (“In nessuno dei tre collegi i comunisti hanno votato per me. Ne sono lieto perché è la prova della mia indipendenza”). 8). Ma c’è anche, credo, qualcosa di più: il fastidio e la preoccupazione, che aveva provato già di fronte al Togliatti della svolta di Salerno e al voto sull’articolo sette della Costituzione, per il tatticismo e l’attendismo di un Pci che gli sembra ormai votato soprattutto a mettere nella società italiana radici sufficientemente salde da consentirgli una lunga guerra di posizione in attesa che nel mondo e in Italia si apra qualche varco, inimmaginabile in tempi di contrapposizione frontale, per riprendere l’iniziativa. Ma è uomo da guerra di movimento, negli acquartieramenti della guerra di posizione gli manca letteralmente l’aria e dà il peggio di sé. Anche perché, a differenza delle socialdemocrazie, dispone solo in minima parte delle forze organizzate (un partito solido, il sindacato, le cooperative) necessarie per combatterla. La stessa ripartizione degli eletti del Fronte, così sfavorevole per il Psi, che solo due anni prima, nelle elezioni per la Costituente, si era piazzato clamorosamente secondo, dopo la Dc e prima del Pci, è in qualche modo l’ennesima dimostrazione (in taluni casi, come l’Emilia-Romagna, impressionante) che queste forze gliele hanno sottratte sapientemente i comunisti. Ma forse nemmeno lui, Nenni, ci aveva mai fatto troppo affidamento. “Sta per suonare l’ora delle masse” era stato, già all’indomani della Liberazione, uno dei suoi slogan di maggior successo, al pari, per citare solo qualcuno dei più celebri, del “Vento del Nord” e di “O la Costituente o il caos”. E le masse (socialiste, comuniste, sì, ma anche semplicemente popolari, e comunque non necessariamente organizzate) cui fa riferimento sono in primo luogo quelle appassionate delle grandi manifestazioni e dei grandi comizi che accorrono a sentirlo, anche perché è uno straordinario oratore, e gli manifestano un’istintiva fiducia e un affetto che vanno oltre ogni aspettativa, e talvolta persino lo preoccupano: “C’è un fondo di idolatria in questo popolo che rischia di sfociare in nuove avventure cesaree”. 8) Il colpo terribile del 18 aprile lo farà in parte ricredere: piazze piene, urne vuote. Ma ancora nei suoi ultimi anni continua in fondo a vedere nelle grandi manifestazioni di popolo il luogo in cui si misurano la forza e il radicamento di una leadership politica democratica: e ogni volta che gli vengono tributati stima e affetto, un poco se ne sorprende, molto se ne commuove. Populismo, seppure in versione democratica? In qualche misura sì, sempre che questa parola passepartout sia utile, nella sua declinazione contemporanea, a darci qualche ragione dell’Italia del dopoguerra e del modo di intendere la politica di un tribuno del popolo convinto fino all’ ultimo di essere stato, in quell’Italia, l’unico leader che avrebbe potuto non solo sbloccare sul nascere l’incipiente democrazia bloccata, ma anche rappresentare un’alternativa vivente a quella che, più tardi, si sarebbe chiamata partitocrazia. Lo conferma la nota (peraltro assai fredda, e priva di particolari accenti di umana simpatia) che Nenni scrive il 21 agosto 1974, decimo anniversario, a Yalta, della morte di Togliatti: “Dopo il 25 aprile e la liberazione del Nord, Togliatti sostenne solo proforma la mia candidatura a presidente del Consiglio. Egli pensava a De Gasperi, che si illudeva di poter rapidamente liquidare. Alla vittoria della Repubblica Togliatti concorse con le forze considerevoli del suo partito, ma senza un impegno di fondo. Lo irritò che nelle elezioni per la Costituente il mio partito fosse secondo, dopo la Dc e prima del Pci. Insomma, la sua e la mia fu una collaborazione attraversata da molti dissensi, finché inciampammo assieme nella sconfitta del Fronte popolare nelle elezioni del 18 aprile 1948. La conquista democristiana della maggioranza assoluta ci confinò alla opposizione finché, a partire dalle elezioni del 1953 in cui De Gasperi fu sconfitto sulla legge truffa, si aprì la cosiddetta “operazione Nenni” che doveva portare, 10 anni dopo, i socialisti al governo con la Dc. L’unità di azione non poteva reggere al nuovo corso ed entrò in crisi nel contesto degli eventi internazionali del ventesimo congresso di Mosca, con la denuncia dello stalinismo e dei carri armati sovietici a Budapest contro l’insurrezione studentesca e operaia ungherese”. C’è un’intuizione storico – politica a illuminarlo. Quella che si è aperta non è una crisi nel sistema, è una crisi del sistema. I comunisti italiani non vogliono e non possono prenderne atto. Lui, Nenni, lo stesso Nenni che tre anni prima a Mosca, ai funerali di Stalin, aveva chiesto disperato a Giorgio Amendola: “E adesso, cosa faremo?”, sì. Si illude che questa crisi possa maturare ed esplodere in fretta, al redondo fracaso dell’Unione Sovietica e del cosiddetto “socialismo reale” mancano in realtà ancora 33 anni. Ma, sulla scorta di quel giudizio lucido e definitivo, la strada è segnata. Anche, e soprattutto, in Italia.
Il boulot del militante
“Sono stato un militante della classe operaia e del movimento socialista, e come tale voglio essere giudicato. Ognuno ha il suo piccolo boulot da fare, e io ho fatto il mio con coraggio morale pari al dispregio del rischio”. É il tentativo di mettere a fuoco il senso della propria vita, non uno sfoggio di vecchia retorica di partito. Quando scrive questa nota di diario, il 13 marzo del 1973, Pietro Nenni ha 82 anni. Ha appena visto, a Ginevra, il documentario che gli ha dedicato una tv svizzera. Se l’è presa anche un po’ perché di lui sono stati chiamati a parlare, con l’eccezione di Bettino Craxi, socialisti e comunisti (Lelio Basso, Luigi Longo, Emilio Sereni) molto critici nei suoi confronti. Ma il modo in cui è stato ritratto gli è piaciuto molto. Soprattutto, è soddisfatto di essere riuscito a dire con chiarezza, nell’intervista che gli hanno fatto, che questo della sua lunga biografia anzitutto rivendica, e che con questo metro chiede di essere valutato. Come un militante di lunghissimo corso che è stato certo leader del suo partito, esponente prestigioso del movimento socialista internazionale, vicepresidente del Consiglio, ministro degli Esteri, e se è per questo, negli anni della guerra fredda e del frontismo, anche premio Stalin per la pace, ma considera tutti questi come dei passaggi, contestabili finché si vuole, ma tutti ugualmente vissuti con impegno e passione come parte del boulot per svolgere il quale ha conosciuto la fame, la galera, l’esilio, il dolore. Rivendica quindi, Nenni, il suo essere uomo di parte, che alle ragioni della propria parte, prima tra tutte l’idea di un socialismo che in ultima analisi, dirà, consiste nel portare avanti quelli che sono nati indietro, nel mutare dei tempi, delle strategie e delle tattiche, è rimasto sempre fedele, pagando i pesanti prezzi politici e personali del caso. Attenzione. “Parte” è qualcosa di più vasto, complesso, e anche contraddittorio, se vogliamo, che “partito”. È il campo grande della lotta per la libertà, la democrazia, il socialismo, la Repubblica: un campo in cui Nenni si è mosso in Italia e nel mondo da protagonista, anticipando talvolta, nei suoi momenti più alti e più contrastati, i tempi. Sta qui, con tutte le sue responsabilità e i suoi errori, la sua grandezza, che a tratti assume la dimensione (misconosciuta) del tragico, come spesso capita a chi ha ragione quando i tempi non sono ancora maturi per dargliela. Nenni, cui non difetta l’autostima, lo sa o l’intuisce. E, quando a sinistra qualche spirito libero glielo riconosce, ne va fiero e quasi si commuove: “Sul Manifesto Luigi Pintor comincia su di me un discorso serio che meriterebbe di essere ripreso e sviluppato. In particolare mi attribuisce la virtù del pioniere, del battistrada, della vedetta, del capofila che vede oltre l’orizzonte e anticipa i tempi. Ed è trattato da visionario dagli amici prima ancora che dai nemici per essere più tardi invitato ma senza gratitudine. Quanto è vero!”, scrive nel 1973.
A questa storia Nenni appartiene, a questa storia va riconsegnato. Ma non è un caso se Partito, in questi diari, Nenni lo scrive ancora molto spesso con la maiuscola. Persino adesso che frequenta sempre meno via del Corso. Persino quando rileva – ora con angoscia, ora con ironia – le miserie del suo Psi, e riconosce che sì, è stato lui, con il centro-sinistra, ad accendere la “fiammella del ministerialismo” tra i socialisti, ma solo per aggiungere di non aver mai pensato che questa dovesse restare accesa sempre e comunque. Persino quando un po’ si dispiace, molto si compiace, se un osservatore che stima e che lo stima, l’ex comunista jugoslavo Milovan Gilas, scrive che nel socialismo italiano, purtroppo, non ha avuto eredi. E nemmeno nei suoi ultimi giorni il combattente politico e l’uomo di partito lasciano totalmente il posto al padre nobile e al testimone del tempo. Per quanto le forze glielo consentono, Nenni è ancora sulla breccia, a fare il suo boulot, sul finire del 1979, quando una crisi gravissima attanaglia il Psi: ha più di un dubbio sulle scelte e sullo stile di governo del partito di Bettino Craxi, però per quanto può lo sostiene, perché continua a considerarlo il migliore. Ma il suo stato d’animo di uomo di parte e di partito è cupo. “La crisi socialista non è che un aspetto della più vasta e grave crisi del paese”, rileva il 20 dicembre. Il giorno successivo, nell’ultima nota di questi taccuini, prende atto che tutti i dirigenti socialisti con cui ha parlato in quelle ore concitate (Riccardo Lombardi, Giacomo Mancini, Gaetano Arfè, Mario Zagari) gli sono sembrati interessati più alle beghe di partito che allo stato in cui versa l’Italia. E il combattente che ha traversato il secolo non può non riandare alle lezioni della storia: “Purtroppo così fu nel biennio rosso 1919 – 1921, e in modo ancor più accentuato nel biennio nero 1921 – 1922”. Muore, Nenni, il 31 dicembre del 1979. Due giorni prima di morire, nell’ultimo suo scritto di cui si abbia conoscenza, lo conferma non in una nota di diario ma in un biglietto di auguri di Capodanno che invia a un giovane socialista ischitano, Franco Iacono, con il quale intrattiene da anni un singolare e interessante carteggio in cui si intrecciano pubblico e privato, politico e personale, passato e presente: “Il paese va a rotoli, il partito egualmente, e forse più. Ne sono desolato. Sono cose del resto che avevo previsto nel ’69 quando non io solo fui battuto, ma la prospettiva di un partito fattore di ordine e di progresso. Aggiungi che non sto bene e il quadro è perfetto”. 9)
Lo sconfitto che non si arrende
Nei suoi ultimi anni Nenni si considera, e non ne fa mistero, uno sconfitto. Nel partito e nel paese. L’ultima, amara delusione la ha provata nel dicembre del 1971, nelle elezioni presidenziali che portano al Quirinale Giovanni Leone. È andata peggio che nel 1964. la sua candidatura non è neppure decollata, il suo stesso partito la ha sostenuta tutto sommato tiepidamente. Nei Diari degli anni successivi, Nenni ci torna su più volte. Sempre con amarezza. E una volta almeno, il 15 maggio 1978, quando commenta le dimissioni di Leone, con grande lucidità: “A decidere l’elezione”, scrive, “furono Saragat e La Malfa che portarono a Leone i loro voti. Si giustificarono con l’argomento fasullo che io finivo per essere il candidato dei comunisti. Ma in nessun caso io potevo essere eletto. Un’assemblea moderata come il Parlamento non poteva fare di me, uomo della settimana rossa, il capo dello Stato. Questo per me era stato sempre pacifico. Perciò sette anni prima avevo fatto eleggere Saragat”. È proprio lungo questi sette anni, però, che è maturata per l’uomo della settimana rossa divenuto uomo di Stato la sconfitta strategica di cui le elezioni presidenziali del 1971 sono solo l’ultimo, doloroso corollario. Una sconfitta, doppia, segnalata con grande evidenza dal voto popolare del 19 maggio 1968 – uno spartiacque nella storia repubblicana – che decreta contemporaneamente il fallimento del centro-sinistra, anche simbolicamente incardinato sulle figure di Aldo Moro e Pietro Nenni, e quello dell’unificazione socialista, preannunciata nell’estate dell’ “indimenticabile 1956” dall’incontro di Pralognan tra Nenni e Saragat, nata tardi e male nel 1966, vissuta tristemente nel triennio successivo, e destinata a finire nel peggiore dei modi, una nuova scissione, nel 1969. Quando, come, abbiamo visto, dice Nenni, “non solo io fui battuto, ma la prospettiva di un partito di ordine e di progresso”.
Nei quattro anni in cui governa con Moro, di cui pure rivendica i meriti, Nenni non si nasconde i limiti di un’alleanza per realizzare la quale ha impiegato un decennio, e che, con tutto il suo realismo, aveva sperato più avanzata e più coraggiosa. “Il lavoro mi incatena e mi schiaccia, quello di partito e quello di governo. E quest’ultimo è il più ingrato per chi come me sa che non siamo al potere; condizioniamo appena il potere degli altri con una preclusione alla destra”, scrive, ancora a Iacono, il 12 ottobre 1966. 10) La destra politica, economica, militare c’è, eccome, ha contato, conta, e Nenni la sentirà incombere lungo tutti gli anni Settanta. Nel luglio del 1964, annoterà, il “tintinnar di sciabole” dei carabinieri del generale De Lorenzo non ha segnalato il pericolo di un golpe “alla greca”, ma «un’azione militare di appoggio alla svolta a destra, che era certamente nei propositi del presidente della Repubblica Segni» : non era la prima volta, e non sarebbe stata nemmeno l’ultima, in un paese in cui militari non hanno mai tentato «colpi di Stato, ma hanno sempre fatto politica di destra, in forma clamorosa nell’epoca umbertina, fino al 1898, in forma più discreta poi, appoggiando il fascismo nel 1922 e, in senso antitetico, assumendo pieni poteri il 25 luglio 1943 e deponendo Mussolini, ma sempre con la copertura della monarchia». Quando, su suo decisivo impulso, il Psi si è risolto a tornare al governo, in nome della difesa della democrazia, Nenni ha preso atto che le grandi ambizioni riformatrici devono attendere, ha messo in conto l’opposizione durissima di un Pci fin lì non certo tenero ma neppure fieramente avverso al centro-sinistra, la polemica rinuncia di Antonio Giolitti al ministero del Bilancio e della Programmazione, le dimissioni di Riccardo Lombardi dalla direzione dell’Avanti! ; anzi, almeno secondo Francesco De Martino 11), ha persino pensato che una seconda scissione (la prima, quella del Psiup, è dell’anno precedente), promossa stavolta da Lombardi, fosse nell’ordine delle cose possibili. Se va avanti, nonostante tutto, per la sua strada è perchè pensa che un’altra strada semplicemente non ci sia. Aldo Moro, di cui apprezza una lealtà che va oltre i dissensi politici, gli sembra l’unico tra i democristiani a inquadrare la collaborazione con il Psi «in una vasta prospettiva di politica generale» : gliene darà atto sino all’ultimo. E, nel tempo dei governi di unità nazionale, si chiederà pure, con qualcosa più di una punta di amarezza, quale corso avrebbero potuto avere non solo i rapporti tra socialisti e comunisti, ma più in generale la storia italiana, se il Pci avesse riservato al governo Moro – Nenni (tra l’altro l’unico, annoterà negli anni di piombo, durante il quale «non è stata versata una goccia di sangue ») almeno un po’ del credito che adesso riserva a Giulio Andreotti.
Dunque: anche il realismo, la consapevolezza che i rapporti reali di forza e di potere non possono essere nè ignorati nè aggirati, fanno parte del boulot che «il militante della classe operaia e del movimento socialista » si è sobbarcato. Certo, non sono, non possono essere tutto. C’è, ci deve essere, anche la speranza di cambiarli. C’è, ci deve essere, una prospettiva di avvenire a dare un senso alla fatica quotidiana per «condizionare il potere degli altri, con una preclusione alla destra». E per Pietro Nenni questa prospettiva si chiama a lungo unificazione socialista. La rincorre dal fatidico 1956, l’anno della rottura con i comunisti e dell’incontro a Pralognan con Giuseppe Saragat, che a molti osservatori pare, anche simbolicamente, il primo passo di un processo dall’esito obbligato. Per arrivarci occorrono dieci anni, un po’ per le resistenze di tanti socialisti restii a metter su una casa comune con i “piselli”, molto per gli andirivieni di Saragat: decisamente troppi. Ma la sera del 30 ottobre1966, quando il nuovo partito dei socialisti e dei socialdemocratici prende finalmente forma a Roma, in un Palazzo dello Sport affollato da oltre quindicimila persone tra cui spicca il fior fiore dell’intellettualità della sinistra non comunista, Nenni commenta: «L’unificazione socialista è un fatto compiuto. Forse ho vissuto oggi la giornata più bella e più emozionante della mia vita dopo quella dell’avvento della Repubblica … So che da domani cominceranno le difficoltà. Ma la giornata di oggi non poteva essere più grandiosa, più entusiastica, più romantica. Un ritorno all’umanesimo socialista in una cornice impareggiabile di fiducia e di fede». 12) Lui, Nenni, il centro – sinistra e l’unificazione li difenderà anche nel tempo delle illusioni perdute. Un po’ perchè spera che sia nonostante tutto possibile ritrovarne le ispirazioni originarie, molto perchè, per quanto guardi con attenzione a tutti i sommovimenti che stanno cambiando in profondità la scena sociale e politica, non vede strategie alternative. Ma nelle elezioni del 1968 la sconfitta è stata davvero bruciante. Nel partito, non ci sono più solo Lombardi e Giolitti a chiedere di cambiare rotta: attorno a Francesco De Martino e a Giacomo Mancini, due esponenti storici dell’autonomismo socialista, si è costruita una maggioranza, favorevole alla scissione dai socialdemocratici, e in cerca di nuovi rapporti e nuovi equilibri a sinistra, che in un drammatico comitato centrale, nel luglio del 1969, lo mette in minoranza. Per Nenni, che rifiuta la conferma alla presidenza del partito offertagli da De Martino («Non posso essere stato il presidente dell’unificazione ed essere quello della scissione»), la ferita è dolorosissima. : di più, quel voto gli sembra la sua tomba politica. Ma il boulot del militante non prevede pensione nè, tanto meno, cambi di casacca. Nenni rimane nella vieille maison socialista, e continua a far sentire la sua voce, anche se un po’ si isola e molto viene isolato. A lungo sarà quasi solo Bettino Craxi, che ha combattuto e perso con lui la battaglia, e gli è rimasto fedele, a tenerlo informato e a chiedergli consiglio.
Quasi dieci anni dopo il grande meeting per l’unificazione socialista, Nenni sarà di nuovo, il 14 dicembre 1975, al Palazzo dello Sport di Roma (oggi Palalottomatica), stavolta per una grande manifestazione organizzata dal Pci per festeggiare gli ottant’anni di Dolores Ibarruri, la Pasionaria, che sta per tornare in Spagna dopo un lungo esilio a Mosca. Il vecchio combattente antifascista la Spagna repubblicana la ha sempre nel cuore: “Ho l’abitudine dei congressi. Ho l’abitudine delle acclamazioni. Eppure quasi mai sono stato emozionato quanto “a las cinquo de la tarde”.Come nei versi del poeta, sono salito alla tribuna del congresso del Partito socialista obrero spagnolo … L’applauso mi ha stordito. Tutto il congresso in piedi, il mio nome scandito per lunghi minuti, il canto, per la prima volta, dell’Internazionale …”, scriverà poco più di un mese dopo, quando tornerà a Madrid, ospite d’onore al congresso che i socialisti spagnoli possono finalmente fare di nuovo in patria. Al Palasport, commosso, abbraccia la Pasionaria, il segretario dei comunisti spagnoli Santiago Carrillo, il leader socialista portoghese Mario Soares. Ma, tornato al suo diario nella casa di Piazza Adriana, ricorda pure : «Nella stessa sala avevo visto una eguale folla, un eguale sventolio di bandiere rosse, un eguale entusiasmo, nell’ottobre del 1966, alla costituente dell’unificazione socialista. Meno di tre anni sono bastati per far fallire allora l’unità dei socialisti che era la necessaria premessa per porre verso la Dc l’alternativa socialista e per rompere l’egemonia comunista sul movimento operaio. La scissione del luglio 1969 ha fatto di noi gli ausiliari della Dc al governo e dei comunisti nel movimento popolare. Né è operazione da ripetere a freddo, anche se il problema dell’alternativa esiste e si impone. Ma per altre vie, forse attraverso un riavvicinamento tra socialisti e comunisti, non solo sul terreno del compromesso storico ma dell’unione a sinistra. Ma di ciò mancano ancora le condizioni e non so se si creeranno”.
Politique d’abord
Il vecchio Patriarca vede bene la drammatica impasse politica che segna tutto il decennio : indietro non si torna, ma avanti non si va. È ormai così incline al pessimismo da tracciare un parallelo tra il destino di Felice Cavallotti, il “bardo della democrazia” ucciso in duello nel marzo del 1898, e il suo: “Spiò tutte le possibilità offerte dalla situazione per un deciso spostarsi della maggioranza a sinistra che desse più ampio spazio alle iniziative dei radicali … È stato ed è, in una situazione che presenta molte analogie, il mio impegno. Avrà un’identica sorte?”. Ma non si rassegna. L’iniziativa politica non è più nelle mani dei socialisti, ma in quelle del Pci di Enrico Berlinguer, che sull’onda della tragedia del golpr cileno avanza, per l’Italia, la proposta di un “nuovo, grande compromesso storico”. A siglarlo dovrebbero essere, con i comunisti, i democristiani e i socialisti, ma non ci vuole molto a capire che il Psi, in questa prospettiva, potrebbe scegliere solo tra il ruolo dell’alleato subalterno e quello del terzo incomodo. Eppure Nenni non formula, sul compromesso storico, un giudizio liquidatorio. Sì, per come lo ha formulato un Berlinguer ortodossamente togliattiano somiglia da vicino a una riedizione del voto comunista, alla Costituente, sull’articolo 7. E soprattutto ha torto, Berlinguer, quando sostiene che con il 51 per cento la sinistra non può governare: altrove governa anche con meno, se non può farlo in Italia è perché da noi i comunisti ne rappresentano la componente di gran lunga più forte. Però quella del compromesso storico è anche “una posizione coraggiosa che rompe con l’esperienza francese dell’unità delle sinistre e con la drammatica esperienza cilena di unità popolare”, e punta, su scala ovviamente ben più vasta, a quell’ allargamento delle basi sociali e politiche dello Stato sul quale dieci anni prima aveva puntato lui, Nenni, con quel centro – sinistra al quale i comunisti, dopo qualche iniziale incertezza, non vollero concedere nulla. In questo senso, ai suoi occhi, l’ “operazione Berlinguer” degli anni Settanta ricorda da vicino l‘ “operazione Nenni” degli anni Sessanta. Anche se, osserverà quando il Pci sarà davvero vicino al governo, “allora ci fu fiducia e addirittura entusiasmo, il paese respirò un’aria nuova di libertà, (e) adesso c’è dubbio e rassegnazione”.
In ogni caso non ha senso che i socialisti almanacchino su prospettive politiche che non sono all’ordine del giorno: non lo è, e non solo per il no della Dc, il compromesso storico, non lo è un’alternativa di sinistra che in futuro potrebbe anche prendere corpo, ma che intanto i comunisti sono i primi a non volere. Bisognerebbe avere il coraggio e la forza necessari per parlare a un’Italia che ormai sta sfuggendo di mano, e che a Nenni pare sempre più lontana da quella sognata all’indomani della Liberazione. Per storia personale, stile di vita e cultura profondamente ostile al consumismo, pensa (proprio lui, che ha sempre identificato il socialismo con la battaglia per portare avanti chi è nato indietro) che gli italiani abbiano vissuto troppo a lungo e continuino a vivere al di sopra delle proprie possibilità, e che difficilmente si convinceranno (sono gli anni dello shock petrolifero, delle prime misure di austerità, delle domeniche a piedi) a cambiare, come pure reputa necessario e giusto fare, i loro consumi e il loro modo di vivere. Le responsabilità più gravi le ha indubbiamente la Dc, sulla quale il giudizio di Nenni si fa con gli anni, sempre più duro, ma pure i sindacati e la sinistra di governo e di opposizione (“trattiamo i miliardi come fossero bruscolini”, scrive all’indomani di un voto parlamentare che per l’ennesima volta sfora allegramente i vincoli di bilancio) si sono sin troppo adeguati all’andazzo, senza trovare né la forza né la voglia di indicare una prospettiva diversa. E il quadro è inauditamente complicato dall’irrompere sulla scena del terrorismo di sinistra (le Br e non solo) e di un inedito estremismo giovanile di massa, su cui il vecchio sovversivo svolge, in questi diari, riflessioni per nulla banali; da uno stragismo di destra che continua ad avvalersi di importanti connivenze in settori nevralgici degli apparati statali; dal dilagare di scandali (dai petroli alla Lockheed) che investono ormai i piani più alti delle istituzioni, della politica e dei partiti, e di cui Nenni segnala con crescente angoscia la pericolosità per il futuro democratico del Paese.
Basterebbe molto meno per fargli fiutare il pericolo di una svolta autoritaria, forte di un crescente consenso interno e di importanti appoggi internazionali. Ma Nenni non crede che, per fargli fronte, basti chiamare a raccolta gli antifascisti e i democratici in difesa della Repubblica: manifesta, anzi, un marcato fastidio per la retorica delle celebrazioni, si tratti del 25 aprile, del Primo Maggio o del 2 giugno. Ancora una volta, politique d’abord: bisogna trovare un varco per riprendere l’iniziativa, spezzare l’assedio, scompaginare le carte. Ad aprirlo, in realtà, sono il Vaticano e la Dc di Amintore Fanfani con il referendum abrogativo della legge sul divorzio: la grande occasione per la rivincita, in primo luogo sul piano dei valori, nell’Italia del dopo Sessantotto. La Chiesa vuole lo scontro, la Dc si adegua a costo di ritrovarsi sola a fianco dei neofascisti: e scontro sia. A difesa della laicità dello Stato. Ma anche, e forse soprattutto, per tornare, finalmente, alla guerra di movimento: un’occasione irripetibile per i socialisti, tanto più che i comunisti (è a suo modo memorabile il resoconto, affidato da Nenni a questi diari, di un suo colloquio riservato con Paolo Bufalini nel dicembre del 1973) fanno di tutto per evitare una battaglia frontale che temono seriamente di perdere e che rischierebbe di far morire sul nascere la politica del compromesso storico. Per l’ultima volta nella sua vita, Nenni si getta con tutte le sue forze in una campagna elettorale, sente suo questo referendum al pari di quello che, il 2 giugno 1946, assicurò la vittoria alla Repubblica. Il No all’abrogazione del divorzio trionfa, rivelando un’Italia assai più moderna ed europea di quanto i suoi stessi fautori immaginassero. Nenni esulta: obiettivo raggiunto, il voto è “un fatto di civiltà e di cultura più di un mero fatto politico, una larga breccia aperta nella Dc e nella muraglia del Vaticano”. Ma si interroga: “Sapremo avvalercene? Ho dei dubbi, avvalorati dalle prime prese di posizione che tendono a minimizzare. Lasciar rifluire le acque nell’antico letto sarebbe una tremenda responsabilità”. Ha ragione a dubitare, il vecchio combattente. Meno di un mese dopo la vittoria, consegna ai suoi diari questo appunto: “Ricevuto l’ambasciatore rumeno. Era latore di un caloroso messaggio del presidente Ceausescu per l’esito del referendum del 12 maggio. Wilson … mi scrive che l’Inghilterra può apprendere dall’esempio del nostro referendum. A sua volta Mitterrand ha incaricato Giolitti, che ha incontrato a Parigi, delle sue felicitazioni per l’esito del referendum. In Italia? In Italia c’è una grande voglia di non parlarne più … Il referendum? Due o tre giorni di entusiasmo. Poi tutto finisce in scetticismo e scoraggiamento”. Anche se la collaborazione con la Dc rimane l’ipotesi più probabile, essa si consegue solo attraverso un duro scontro. “Rompere per ricominciare” fu il mio motto nel 1962 e dovrebbe tornare ad esserlo. Se non riusciamo ad appassionare il corpo elettorale, allora non rimarranno di fronte che democristiani e comunisti col compromesso storico risolto nelle impreviste (ma non tanto) divisioni delle parti, ai primi l’egemonia del potere ai secondi quella delle opposizioni. E in mezzo delle ombre”.
Un anno dopo, il voto per le regionali gli dà in buona misura ragione. Il Psi avanza di un punto e mezzo in percentuale, ma non è certo questo modesto successo a far parlare di un terremoto politico. Il protagonista indiscusso è il Pci, che sfiora addirittura il sorpasso su una Dc in forte calo e può porre all’ordine del giorno in prima persona il problema del suo ingresso nell’area di governo. “Noi abbiamo scosso l’albero, loro hanno raccolto i frutti” commenta amaro Nenni. È ancora una volta, una felice formula giornalistica. Ma pure un giudizio desolato sull’ennesima occasione perduta dal Psi. Ormai Nenni se ne è convinto, e non cambierà idea: l’Italia è sull’orlo del precipizio, l’unica via d’uscita democratica, se si vuole evitare che il terrorismo di sinistra combinato a una crisi economica sempre più grave porti a una svolta autoritaria di proporzioni inaudite, è un governo di emergenza, a base parlamentare più che partitica, che associ nelle forme possibili i comunisti. Ma a questa soluzione, cui i socialisti potrebbero concorrere in misura determinante senza smarrire la propria autonomia, la Dc resta irriducibilmente avversa anche ora che Fanfani è stato costretto a levare le tende e alla guida del partito, sotto l’alto patronato di Moro, c’è un uomo che Nenni stima, Benigno Zaccagnini. Ancora una volta, si tratta di riuscire a forzare il blocco. Ma come riuscire a farlo, è un altro discorso. Nenni non apprezza la tempistica della scelta di De Martino di abbandonare, alla fine del 1976, la maggioranza che sorregge il governo Moro – La Malfa: “Tre mesi o sei mesi or sono, l’uscita nostra dalla maggioranza di governo avrebbe dato slancio alla sinistra. Oggi è un motivo di mortificazione. E non per caso i più critici sono i comunisti”. Reputa sbagliata anche la decisione di andare in marzo, con le elezioni di fatto alle porte, a un congresso del partito che si concluderà una volta tanto unitariamente con un rifiuto generalizzato della ripresa del centro-sinistra e della collaborazione con la Dc, e con la riscoperta di un’alternativa che però qualcuno (soprattutto Lombardi) intende esplicitamente come alternativa di sinistra, altri (De Martino) come il rifiuto di partecipare a qualsiasi governo che non comprenda anche i comunisti, altri ancora come il recupero della piena libertà d’azione dei socialisti. E Nenni? “Decideranno le cose”, commenta realisticamente, ma anche con qualche accento profetico: “Certo si è che il partito esce dal congresso rafforzato. La nostra è una posizione di forza se stiamo al livello del testo votato. Può diventare, se lo si vuole, anche una posizione di ricatto alla Dc e forse anche al Pci. Ma nel ricatto naufragheremo moralmente”.
Le elezioni anticipate del 20 giugno 1976 sembrano mettere in forse la stessa ragione sociale di esistenza del Psi. Nenni avverte scricchiolii sinistri già al momento della formazione delle liste: “Per tre giorni è stato tutta una battaglia per Tizio o Caio non in rapporto al merito ma alla fazione di appartenenza … Il tipo del dibattito mi è dispiaciuto più della sostanza stessa delle decisioni prese. Contento dopo tutto di avere ormai soltanto un ruolo di testimone”, scrive al termine di una riunione fiume della direzione socialista. Lamenta il disinteresse per ogni possibilità di intesa elettorale con i radicali. E, quando il Pci candida nelle sue file il padre del federalismo europeo, Altiero Spinelli, lo stesso Spinelli che aveva cacciato nel 1937, vede in questa scelta “un sintomo notevole del rapido modificarsi dei rapporti tra l’intellighenzia liberale e democratica e i comunisti”, e chiosa: “Non credo che il gesto di Spinelli sia quello di chi tutto sacrifica alla vanità di un posto al Parlamento. Poteva del resto essere eletto nelle liste socialiste, per tirchio che il partito sia stato con gli indipendenti. Il caso è più complesso. Il comunismo italiano ha, per il momento, vinto la battaglia culturale e gli uomini di cultura vanno verso di lui”. La campagna elettorale del Psi – la prima alla quale, vecchio e malato, non partecipa, gli sembra “debole e asfittica”. E, a campagna ormai chiusa, prende atto: “Alla fine il quesito che conta è se i comunisti sorpasseranno la Dc”. Il sorpasso non ci sarà, le elezioni avranno due vincitori, i democristiani oltre al 38 per cento e i comunisti oltre il 34. Per il Psi il 9,64 per cento è molto peggiore delle peggiori previsioni. Il giudizio di Nenni è drastico e all’apparenza almeno senza appello: “Il trentennio dal 2 giugno 1946 si chiude per noi con un insuccesso che mette in forse la nostra stessa esistenza. Le due tappe principali dell’insuccesso (dopo la vittoria del 2 giugno) sono state la scissione del 1947 e la fallita unificazione del 1969. Ciò ha dato causa vinta ai comunisti che da oggi sono il solo partito guida della classe operaia e dei lavoratori. Essi ci hanno surrogato financo nel compromesso storico. I passi avanti fatti verso una relativa autonomia da Mosca sono i chiodi con cui hanno inchiodato il coperchio sulla nostra base”.
L’ ultimo Nenni, il primo Craxi
Resta da chiedersi, naturalmente, se e quanto Pietro Nenni, nei suoi tre ultimi anni di vita, abbia sperato che Bettino Craxi riuscisse non solo a mantenere in vita il Psi (Primum vivere è l’obiettivo indicato dal nuovo segretario socialista al momento della sua elezione), ma pure a restituirgli un ruolo chiave nella lotta politica, sottraendolo, per cominciare, alla doppia subalternità nei confronti dei democristiani e dei comunisti. Nel luglio del 1976, Nenni guarda con relativo distacco all’ascesa di Craxi alla guida del partito. “È il candidato in primo luogo di Mancini, dei giovani della sinistra, di una parte dei demartiniani. I giornali lo dicono mio delfino. Lo è stato nel 1969, quando io fui battuto in un Cc più drammatico di quello attuale, sulla questione della unificazione. In questi ultimi tempi faceva parte a se stesso”, si limita a rilevare quando le quotazioni di Bettino iniziano a salire. E nemmeno quando, pochi giorni dopo, Craxi viene eletto, il vecchio Patriarca mostra particolari entusiasmi: “Arriva dove voleva senza imbrogli, anche se non per la sola via che conta, quella di un confronto politico di fondo. Infatti al Cc non ha neppure parlato …”. Negli anni successivi, ai numerosi apprezzamenti corrispondono quasi altrettanti rilievi critici, spesso riferiti, i primi come i secondi, allo stile di comando dell’uomo, il cui carattere pare a Nenni in certi casi “eccezionale”, in altri eccessivamente ruvido, se non autoritario. In generale, però, Nenni sostiene, seppure con il distacco dettato dalla sua età e dal suo ruolo, il nuovo segretario, assai più di quanto avesse fatto con i predecessori; anche quando Bettino si chiama vistosamente fuori, nei 55 terribili giorni del rapimento Moro, capisce bene che il segretario socialista non ha in mano carte utili per salvare la vita del presidente democristiano, ma apprezza la scelta di principio di sottrarsi all’ “isteria della ragion di Stato” Non farà in tempo a vedere Craxi presidente del Consiglio, nel 1983. Considera però anche una sua vittoria (“quella per cui lavoro dal 1946”) l’incarico che Sandro Pertini gli conferisce nel luglio 1979, e spera davvero, per qualche giorno, che ci riesca: “Della generazione che ci ha sostituito è per certo il meglio preparato ed è stato anche astuto, fa e supera Andreotti. Impossibile per me dargli l’appoggio che vorrei. Indirettamente gli serve un motto che circola per tutto il paese, Nenni ha seminato, Craxi vendemmia. Così fosse”. E dai diari non risulta in alcun modo che nei suoi ultimi giorni il vecchio Nenni abbia fatto venir meno il sostegno al giovane segretario nenniano, che pure gli sembra aver perso, in pochi mesi, molto smalto. Al contrario, cerca di fare quel che può, e non è moltissimo, per impedire che l’operazione per liquidarlo abbia successo, “Se la Dc sta male noi socialisti stiamo di male in peggio. Ho visto a lungo Mancini e Lombardi senza convogliarli su una onesta via del compromesso. Li ha tuttavia impressionati il mio giudizio sul fatto che i nostri dissensi servono alla Dc, servono ai comunisti e condannano noi in un ruolo subalterno, anzi, servile”.
Ma le beghe di partito, e tra i partiti, non spiegano tutto. Il Craxi del triennio 1976 – 1979, l’unico Craxi leader che Nenni abbia potuto vedere all’opera, è ancora quello della spregiudicata “guerra corsara” contro democristiani e comunisti. Anno dopo anno, mese dopo mese, il suo disegno si è però fatto più chiaro, almeno agli occhi di chi vuole vedere. L’ispirazione è quella di Nenni o, per meglio dire, del Nenni autonomista fautore, fin dal 1956, di una politica di collaborazione – competizione con la Dc e insieme di sfida ai comunisti per l’egemonia e la leadership della sinistra, nella prospettiva non secolare di una ricomposizione unitaria (questo vorrà dire, ma ormai fuori tempo massimo, la parola d’ordine craxiana dell’“unità socialista”) sotto bandiera socialista. Riproporre una simile strategia dopo le elezioni del 1976 che ne testimoniano drammaticamente il fallimento, sarebbe una follia, e Nenni come Craxi, si guarda bene dal farlo. Ma il vecchio capo del socialismo italiano ha ancora il fiuto dell’animale politico di razza, e come Craxi, e forse addirittura prima di Craxi, coglie in quel risultato terribile per i socialisti anche un elemento paradossale che potrebbe giocare a loro favore: “Una delle incongruenze delle elezioni del 20 giugno è … che esse, mentre sul piano dell’aritmetica elettorale ci hanno indeboliti, sul piano politico – parlamentare hanno fatto di noi gli arbitri di ogni possibile soluzione: dell’asse privilegiato con la Dc, che ci varrebbe un largo accesso alle poltrone ministeriali, ma anche del ‘compromesso storico’. 13) Il Psi deve quindi predisporsi a cogliere tutti i vantaggi di una situazione inedita, in cui i suoi voti non si contano, ma si pesano? Nenni coglie lucidamente questa possibilità, ma altrettanto lucidamente intuisce il pericolo mortale che racchiude, anche perché, nonostante lo frequenti ormai così poco, conosce sin troppo bene il suo partito: se il ruolo dei socialisti si condensasse nell’esercizio di un potere di ricatto nei confronti dei due partiti maggiori, aveva detto profeticamente, come abbiamo visto, prima ancora dell’avvento di Craxi, il rischio sarebbe di “naufragare moralmente”. Craxi è cresciuto alla sua scuola, la pensa come lui, ma è fatto diversamente da lui, ed è di un’altra generazione. Sta iniziando una partita politica per la vita o per la morte, la sua carta principale, se non proprio l’unica, è rappresentata dalle debolezze altrui. Del pericolo che angoscia Nenni, sempre che lo avverta, non si dà gran cura. È stato fatto segretario, in una situazione disperata, soprattutto perché era considerato il più debole, e quindi il più facilmente rimpiazzabile, di tutti i possibili concorrenti. Da quel momento ha pensato in primo luogo a rafforzare il controllo del partito, e nel dicembre del 1979, quando rischia di perderlo, antepone a qualsiasi altra esigenza quella di mantenerlo, sottoponendosi, e non può fare altro, alla prova di un pericoloso show down con larga parte dell’eterogenea maggioranza che lo ha eletto, con i leader storici del partito, con il fior fiore dell’intellettualità socialista. Lo muove, e non c’è da stupirsene, una fortissima e spregiudicata volontà di potere; ma anche, e non contraddittoriamente, la consapevolezza piena che, esaurita per iniziativa del Pci, dopo l’assassinio di Moro, la stagione dei governi di unità nazionale, lo scenario è nuovamente cambiato, stavolta a vantaggio suo e del Psi; e può cambiare ancora, a condizione, però, di convincere o costringere il partito, con le buone o con le cattive, a non essere di intralcio. Dopo aver lasciato sul campo, nelle elezioni del 3 giugno 1979, quattro punti in percentuale, i comunisti si sono arroccati su una posizione puramente propagandistica (“o al governo o all’opposizione”) che abbandoneranno appena un anno dopo, attestandosi sulla strategia, non meno propagandistica, dell’alternativa democratica e del governo “diverso”: adesso che non c’è più Moro, rischiano di annegare (e alla fine, a dire il vero, annegheranno) nel fiume che negli anni dell’unità nazionale non sono riusciti a guadare. A Craxi, l’occasione di riaprire un fronte verso una Dc e un Pci senza politica sembra letteralmente irripetibile. Da quando sono andati al governo con la Dc nel 1963, i socialisti hanno ininterrottamente perso voti. Forse si sta avvicinando il tempo in cui, governando in prima persona, li guadagneranno a sinistra, al centro e pure a destra. In ogni caso la scommessa è questa, il resto, se c’è, verrà dopo. Lo schema è di impronta nenniana. L’uomo è molto diverso da Nenni.
*Pietro Nenni, Socialista libertario giacobino. Diari (1973-1979), pp. 512, prima edizione 2016, Marsilio Nodi, 25 euro.