-di ANTONIO MAGLIE-
Il 1° ottobre 1906 a Milano al termine di un congresso durato tre giorni (era cominciato il 29 settembre), settecento delegati in rappresentanza di ottanta camere del lavoro e duecentomila aderenti decretavano la nascita della Confederazione Generale del Lavoro, cioè del sindacato nella forma moderna che, attraverso varie e anche drammatiche vicende storiche, è giunto sino a noi. Lo statuto indicava all’articolo 1 il motivo che giustificava la nascita della nuova organizzazione: “Disciplinare le lotte della classe lavoratrice”. La spinta decisiva alla creazione della Confederazione e al superamento delle vecchie Leghe era nata proprio “sul campo”: il primo sciopero cittadino a Genova che confermava il consolidamento del ruolo delle camere del lavoro; quattro anni dopo il primo sciopero generale. Azioni che rappresentavano un salto di qualità e consigliavano forme di coordinamento.
Lo statuto all’articolo 3 indicava puntigliosamente i compiti della confederazione: la direzione del movimento operaio “al di sopra di qualsiasi distinzione politica”; “secondare, disciplinare e coordinare ogni iniziativa in materia legislativa e condurre le agitazioni intese a rafforzare l’azione dei delegati” sindacali; “prendere le necessarie e opportune intese con i partiti che nel campo politico accettarono la difesa dei lavoratori”. Gli iscritti avrebbero dovuto versare ogni anno 5 cent (i lavoratori della terra) e 10 cent (quelli dell’industria). Nasceva anche un organo ufficiale: “La Confederazione del Lavoro” con cadenza settimanale. Il parto milanese fu favorito dalla temporanea convivenza nell’organizzazione dei riformisti e dei sindacalisti rivoluzionari. Una convivenza destinata a terminare nel giro di pochi anni anche perché tra le due parti la distanza era abissale.
Per capirlo basterebbe rileggere il discorso pronunciato da Filippo Turati, il capo dei riformisti, al congresso del Psi di Roma appena otto giorni dopo la nascita della CgdL: “Non mi pare, ripeto, che ci sia bisogno di dimostrare di più che la corrente sindacalista è contro di noi, contro noi tutti, nella teoria, nella pratica, nel domani e nell’oggi… Neppure fra noi e i partiti borghesi più lontani dal nostro, neppure tra noi e i clericali, si vede mai tanta violenza di urto come fra noi e i sindacalisti, nella fraterna unità del partito”. Il solco col passare del tempo si farà incolmabile culminando nel temporaneo abbraccio tra sindacalismo rivoluzionario e fascismo. Non meno aspri furono i contrasti tra la componente riformista e quella comunista esplosi in occasione dell’occupazione delle fabbriche (e dell’epilogo di quella vertenza), che “anticiparono” la scissione di Livorno.
Significativo il durissimo attacco della commissione esecutiva della III Internazionale, firmato da Lenin, Zinoviev e Bucharin (L’Ordine Nuovo di Gramsci lo pubblicò il 30 ottobre 1920): “L’Italia presenta oggi tutte le condizioni garantenti la vittoria di una grande rivoluzione proletaria… Crediamo che da questo punto di vista il Partito socialista italiano abbia agito e agisca ancora con troppa esitanza… Se noi esaminiamo la causa di tale stato di cose ci accorgiamo che la principale consiste nel fatto che il Partito è contaminato da elementi riformisti o liberali borghesi, i quali nel momento della guerra civile si trasformano in agenti della controrivoluzione, nemici della classe proletaria… Turati, Modigliani, Prampolini e tutti gli altri possono essere personalmente onestissimi, ma, obiettivamente, essi sono i nemici della rivoluzione e come tali non devono punto trovar posto nel partito del proletariato comunista”. E a sua volta Antonio Gramsci in un articolo pubblicato su “L’Ordine Nuovo” del 23 giugno del 1921 intitolato “Mandarini” affermava: “Il mandarinato è un’istituzione burocratico-militare cinese, che su per giù corrisponde alle prefetture italiane… Esattamente come i Mandarini erano i funzionari sindacali riformisti” che “disprezzano le masse”.
Poi arrivò il fascismo, le sedi sindacali assaltate e bruciate, le minacce. L’epitaffio di quella avventura nata a Milano poco più di vent’anni prima venne vergato il 4 gennaio 1927 quando quel che era rimasto del direttivo confederale dichiarò “esaurita” la funzione della Confederazione demandando “al comitato esecutivo di procedere alla liquidazione e sistemazione dei residui interessi della Confederazione Generale del Lavoro”. Quell’atto di “morte presunta” venne firmato dall’uomo che ventuno anni prima era stato eletto segretario della CGdL, Rinaldo Rigola che, in ogni caso profeticamente l’anno prima su “Critica Sociale” aveva scritto: “La Confederazione è morta ammazzata e – strano a dirsi – le Confederazioni sono nate a dozzine; l’Italia e tutta federata, confederata, superconfederata. I morti, si sa, non possono parlare, nemmeno per rivendicare i loro meriti. Ma via, un poco di rispetto per questa grande morta, operatrice di tanti miracoli, non sarebbe fuori luogo. Tanto più che rinascerà dalle sue ceneri”. In realtà, la “Grande morta” fu tenuta in vita a Parigi da Bruno Buozzi mentre in Italia Paolo Ravazzoli provò a organizzarla in clandestinità ma con risultati non esaltanti e pian piano le due entità confluirono per rinascere unitariamente con il Patto di Roma del 3 giugno 1944. Ma al contrario di quanto immaginava Rigola che non aveva messo nel conto la Guerra Fredda, la resurrezione determinò, nel tempo, una moltiplicazione delle sigle.
Quella data va, comunque, ricordata. Per le grandi battaglie e le grandi conquiste che seguirono, a cominciare dalla giornata lavorativa di otto ore, al lavoro femminile e minorile che cominciò ad essere disciplinato in maniera un po’ più civile. L’Italia che aveva conosciuto la seconda rivoluzione industriale saltando la prima scoprì sulla scena pubblica un nuovo protagonista. Si può discutere se diede alla sua azione una caratterizzazione eccessivamente politica o se spinse troppo sul pedale della istituzionalizzazione e del controllo del conflitto. Una cosa è certa: quella riproposizione “una e trina” ha consentito a partire dalla fine degli anni Sessanta di creare condizioni di lavoro più accettabili e la creazione di una rete protettiva di diritti che negli ultimi anni è stata ampiamente strappata.
Il sindacato ha un grande passato e può aspirare a un grande futuro. Ma deve ritrovare, in forme ovviamente diverse, l’innocenza e gli entusiasmi degli anni della sua nascita e della sua rinascita. Deve uscire dai suoi palazzi per tornare a incontrare la gente sviluppando quei nuovi alfabeti imposti anche dalla terza rivoluzione industriale. Deve abbattere gli steccati burocratici per tornare a legittimarsi nell’azione quotidiana, deve polverizzare il muro dell’autoreferenzialità per misurarsi apertamente con il consenso e il dissenso delle categorie che rappresenta. Deve individuare le classi di riferimento in un sistema che ha profondamente scomposto il quadro sociale. Deve riscoprire il gusto dell’internazionalizzazione dopo averlo consegnato passivamente nelle mani degli ideologi iperliberisti della globalizzazione. Deve tornare a pensare politiche economiche alternative per evitare di essere identificato con il sistema e con i partiti che di quel sistema fanno parte con la conseguenza paradossale di essere populisticamente e demagogicamente messo sotto accusa da quelle stesse forze politiche alle quali invece andrebbero sollecitate soluzioni, innovazioni, coraggio e, soprattutto, visione.
È d’altro canto curioso che oggi il Cnel venga liquidato nell’indifferenza generale dopo essere stato per i costituenti del dopoguerra, soprattutto per quelli di sinistra, una grande conquista, un elemento caratterizzante della prima Carta democratica. Il sindacato, le forze sociali in generale hanno pesanti responsabilità avendo annegato nell’ordinaria amministrazione e nel semplice tirare a campare un organismo che in questa fase di crisi avrebbe potuto partecipare costruttivamente alla progettazione di quel mondo produttivo del futuro (4.0) che adesso fiorisce in una sola mente ministeriale, quella del ministro Carlo Calenda, molto più sensibile agli imput confindustriali che a quelli sindacali. Ma il tempo non è scaduto perché a centodieci anni si può riscoprire una nuova giovinezza.