-di ANTONIO MAGLIE-
“Le nostre origini sono contadine. In natura arare è come un terremoto per la terra: si spacca, è ferita, ne esce frantumata in zolle. L’aratro ferisce ma è lo strumento-primo per la nuova seminagione: si ara per preparare la terra a un nuovo raccolto”. Il giorno del lutto e della speranza; del ricordo che impegna il futuro. Come disse Sandro Pertini, trentasei anni fa: “Il modo migliore di ricordare i morti è quello di pensare ai vivi”. In una città, Ascoli, che si è fermata per i funerali delle vittime del terremoto, il vescovo, Giovanni D’Ercole, spiega con una metafora agricola come anche traumi insopportabili possano consentire di guardare oltre la distruzione e la desolazione, alimentare l’insopprimibile bisogno dell’uomo di misurarsi con le sfide più ardue e dolorose, di rialzarsi dopo essere caduto. Il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, lo ha promesso agli sfollati di Accumoli: “Non vi lasceremo soli”.
E a lui, rappresentante di uno Stato che troppe volte nei momenti più difficili ha tradito le aspettative dei suoi cittadini, si sono aggrappati i sopravvissuti a quel terribile boato che ha raso al suolo case e sentimenti . “Il presidente ha detto che ci pensa lui, che cercherà di far sistemare tutto, anche ad Amatrice. E io mi fido di lui”. Racconta uno di loro, Roberto Marocchi. Mentre altri, condividendo quel messaggio di speranza, gli fanno eco: “Ora, però, servono i fatti”. “Non abbiate paura di gridare la vostra sofferenza, ma non perdete coraggio. Insieme ricostruiremo le nostre case e le nostre chiese; insieme soprattutto ridaremo vita alle nostre comunità, a partire proprio dalle nostre tradizioni e dalle macerie della morte. Insieme”, spiega nella sua omelia il vescovo mentre la funesta contabilità conferma le previsioni che parlavano di un numero di vittime pari se non superiore a quelle dell’Aquila: ora sono quasi trecento.
I presidenti della Repubblica contano ma restano in carica solo sette anni: troppo pochi per poter dare concretezza alle promesse. In questi casi conta lo Stato, cioè quel complesso organismo istituzionale e sociale che in questo Paese finisce troppo spesso per rispondere a logiche e interessi che poco o nulla hanno a che vedere con le necessità delle persone. E troppe volte, nei disastri, è accaduto esattamente quello che denunciava Pertini (anche dopo di lui): “Perché infamia maggiore per me è quella di speculare sulle disgrazie altrui”. Potrà apparire cinico, eppure è proprio adesso, nel momento in cui le emozioni sono più calde, che bisogna cominciare a ragionare in maniera più fredda. Perché troppe sono le tracce della dissennatezza organizzativa, della faciloneria progettuale e della debolezza morale rinvenibili in un ideale viaggio nelle tragedie nazionali: una sorta di “racconto” della nostra malsana creatività che va dall’Irpina al Belice, sino ad alcune “archeologiche testimonianze” nella Messina distrutta agli inizi del secolo scorso (1908).
L’Aquila è lontana appena sette anni. Della rassicurante narrazione berlusconiana è rimasto ben poco. La ricostruzione nel 2015 ha cambiato passo grazie ai sei miliardi di finanziamenti messi a disposizione dal governo Renzi; nel centro storico sono aperti 253 cantieri e ottantotto persone hanno deciso di riavviare in quella zona una attività. Ma la conclusione è ancora lontana e il futuro della città incerto, stretta come è nella morsa di una disoccupazione che si muove a un ritmo superiore rispetto a quello nazionale a cominciare da quella giovanile (intorno al 50 per cento).
L’Aquila è una ferita ancora aperta in un Paese dove gli interessi di parte finiscono per avere la meglio su quelli collettivi, il “particolare” prevale sul “generale” alla fine di una sorda e perpetua guerra sotterranea combattuta in nome di vessilli politici che nulla hanno a che vedere con il buon senso e con una saggia arte di governo. Eppure quando l’eccezione ha avuto la meglio sulla regola, il risultato è stato straordinario. Non è dato sapere se la cosa infastidisca il parlamentare pentastellato, Roberto Fico, presidente della Commissione di vigilanza sulla Rai, ma la vicenda del Friuli racconta proprio la storia di un popolo che pianse i morti, li seppellì (anche sotto la calce viva per evitare che il disastro fosse seguito da altro disastro, cioè le epidemie) e poi si dedicò a ricostruire non solo un assetto urbanistico, ma un modello socio-economico definendo un ordine di priorità nella ricostruzione (prima le fabbriche, poi le case, infine le chiese) che mutò il volto di quella regione: da zona rurale sottosviluppata a centro pulsante della piccola e media imprenditoria; una università nata solo qualche anno dopo come la conferma di un destino che non è immutabile. Dal grande dramma prodotto da una scossa di oltre il sesto grado della scala Richter (990 vittime, 2607 feriti, 75 mila edifici danneggiati, diciottomila rasi totalmente al suolo), a una straordinaria resurrezione. I lutti sono rimasti, il ricordo di chi quel 6 maggio di quarant’anni fa morì sotto le macerie è ancora vivo ma la loro memoria è stata onorata nell’unico modo possibile (a parere di Pertini): preoccupandosi dei vivi e delle generazioni future.
Un “modello” che, però, non funzionò quattro anni dopo in Irpinia (2.914 morti e 8.848 feriti). Perché anche lì si provò a far rinascere un mondo nuovo dalle macerie, si provò a riscattare una terra segnata dalla povertà con un modello di sviluppo industriale, anche lì si crearono aree per ospitare le fabbriche. Che però divennero “Cattedrali nel deserto” e causa di sprechi di pubblico denaro. Lo ha spiegato qualche tempo fa quello che all’epoca ricoprì la carica di commissario straordinario per la ricostruzione, Giuseppe Zamberletti, in una intervista al “Fatto Quotidiano”: “La volontà di chi ha gestito la ricostruzione e quindi dei governi che si sono succeduti alla mia gestione, era quella di risollevare un territorio che viveva gravi difficoltà economiche già prima del sisma e quindi per evitare di ricostruire presepi spopolati dall’emigrazione, si è pensato alla realizzazioni di aree industriali nel cratere, che purtroppo ad oggi sono simbolo di cattedrali nel deserto e dello spreco”. Uno spreco che ammonta a oltre cinquantaduemila miliardi di vecchie lire. Un fiume di quattrini che solo in minima parte arrivò alle vittime perché se in Friuli i 18,54 miliardi di euro impiegati in una ricostruzione ufficialmente conclusa nel 2006, garantirono un contributo di 390 mila euro per ogni sfollato, quelli spesi in Irpinia portarono un beneficio alle persone colpite dal sisma pari alla metà e quelli spesi nel Belice (1968) per una ricostruzione che terminerà nel 2028 (almeno stando ai provvedimenti approvati) il beneficio si riduce addirittura a un terzo (130 mila).
Il Friuli è stato il trionfo del modello della ricostruzione dal basso, cioè gestita dalle amministrazioni locali. Ma dal basso è stata gestita anche quella dell’Irpinia con la conseguenza di una singolare moltiplicazione dei pani e dei pesci: all’inizio, subito dopo le scosse del 23 novembre 1980, i paesi colpiti erano trentasei; nemmeno un anno dopo, a maggio, grazie a un decreto del governo Forlani, erano già saliti a 280 per toccare la cifra-record e finale di 687. La ricostruzione più che case, ha garantito voti. E fornito alla camorra l’opportunità per ottimi affari. Non dappertutto perché nemmeno in questa vicenda bisogna fare di tutta l’erba un fascio: in Basilicata, a Potenza, le cose sono andate molto diversamente e, come ha avuto modo di sottolineare Zamberletti, “non vi sono state intromissioni mafiose, cosa che è invece avvenuta nelle zone calde della Campania”. Lo spreco economico è figlio di uno spreco legislativo che nasconde un solo obiettivo: favorire interessi variegati e inconfessabili. Per ricostruire il Friuli sono stati sufficienti nove decreti; per risanare ancora parzialmente la piaga del Belice ne sono stati varati ventisette.
Le macerie di Amatrice, Accumoli e Arquata offrono ora a una classe dirigente che in misura (e posizioni) diversa si definisce “nuova” la possibilità di raccontare una storia in controtendenza rispetto a quelle che nel passato hanno prodotto soprattutto rimpianti (neli danneggiati e in tutti gli italiani onesti, ma mai rimorsi in chi ha lavorato per piegare a proprio vantaggio l’interesse generale trasformandolo in arricchimento personale fatto anche di casa costruite di sabbia e sulla sabbia). Perché il “modello” conta ma contano molto di più le persone che dovranno dare sostanza a quel “modello”. E, semmai, i controlli perché, come diceva Sandro Pertini, chi specula sulle disgrazie della gente arricchendosi deve essere ospitato in un solo albergo: la galera.