Ventiquattro anni fa “moriva” la scala mobile

sinistra

-di SANDRO ROAZZI-

Ventiquattro anni fa, il 31 luglio 1992 finiva definitivamente l’epoca della scala mobile. A Palazzo Chigi, di sera come nelle tradizioni degli accordi più complessi, il Governo Amato firmava con sindacati ed imprese un protocollo che superava quel meccanismo di rivalutazione al costo vita che aveva preso vita subito dopo la tragedia della seconda guerra mondiale, nel 1946 su tutto il territorio nazionale, con due caratteristiche precise: tutelare i lavoratori anche in assenza di contrattazione, garantire alle imprese meno conflitti e più pace sociale specie su una materia così esplosiva come quella economica in tempi di miseria e duro lavoro.

L’apice delle sue “fortune” lo toccò nel 1975 quando Gianni Agnelli per la Confindustria e i Segretari Generali di Cgil, Cisl e Uil, Luciano Lama, Bruno Storti e Raffaele Vanni, firmarono il famoso accordo che unificava per tutti i lavoratori il valore del punto di contingenza, che passerà (impropriamente) poi come l’intesa Lama-Agnelli sul punto unico. Anche in quel caso gli imprenditori guidati dal Presidente della Fiat preferirono la tregua sociale, mentre da parte sindacale si esaltava la linea dell’egualitarismo salariale che però di lì a poco si sarebbe scontrata con un poderoso cambiamento in atto nel mondo produttivo e con una inflazione galoppante che avrebbero presentato il conto: si riducevano i margini di contrattazione, si appiattivano i salari danneggiando la professionalità, si era prigionieri di una spirale salari-inflazione che bruciava risorse e gettava benzina sul fuoco di un periodo politico e sociale tremendo e scosso dal terrorismo.

Dal 1980, quando si apre la tormentata stagione della riflessione nel mondo sindacale, il destino della scala mobile si rovescia. Non garantisce più pace sociale, le imprese premono per ridurla, mentre il suo ridimensionamento passa attraverso un mutamento di strategia sindacale importante quale quello che porta prima allo politica dello scambio (meno indicizzazione, inizio politica dei redditi) e poi negli anni Novanta alla concertazione. Passando per il referendum del 1985 voluto dal Pci dell’epoca per ribadire la sua egemonia nelle scelte che riguardavano i lavoratori e che era stata sconsacrata con l’accordo di San Valentino sancito dal Governo Craxi e dall’assenso… per lettera di Cisl, Uil e componente socialista della Cgil.

Quei mesi rischiarono di schiantare un pezzo di storia sindacale. E fin all’interno del Governo ci si domandava per quale ragione non si dovesse venire incontro al Pci, sacrificando il destino di quei settori sindacali che pure con coraggio avevano tenuto una condotta riformista. In fin dei conti il primato della politica, oggi fa sorridere a ricordarlo, veniva prima del sociale. Eppure allora non si gettarono allo sbaraglio Cisl, Uil e socialisti Cgil, affrontando la durissima campagna referendaria che si concluse con la vittoria dei no (per il mantenimento dell’intesa) con il 54,3% contro i sì al 45,7%. Più tardi si comprese che non erano andati perduti 4 punti di contingenza, ma si era conclusa una epoca di lotte sociali e sindacali. La nuova non poteva che liberarsi di uno strumento che era divenuto di ingombro.

La vera fine della scala mobile, preceduta nel 1990 dalla seconda disdetta unilaterale di essa da parte della Confindustria che non vedeva più nella indicizzazione un antidoto allo scontro sindacale, pero’ avviene in sordina. Si consuma alla fine del 1991 nel corso di uno dei tanti accordi fra Governo e parti sociali, non ancora consapevoli dello avvicinarsi della bufera politica con Tangentopoli e di quella economica con la crisi internazionale che portò alla svalutazione della lira e in un secondo momento alla super-manovra del Governo Amato di 93 mila miliardi di lire.Il suggello venne ancora una volta da Gianni Agnelli con una frase lapidaria: la festa è finita. Da allora non è mai più ricominciata. Luglio del 1992 è ormai un simulacro e le ansie non vengono dalla inflazione ma dalla recessione, dalla deflazione e dallo scoppio delle bolle finanziarie. Eppure un pilastro della difesa salariale non poteva uscire senza un ultimo dramma.

Chi scrive oggi, c’era. L’accordo fu annunciato in sala stampa e poi scesero le delegazioni di Confindustria, Cisl, Uil, infine il Governo. Per la Cgil non Bruno Trentin, segretario generale, ma il suo portavoce. Un evento mai successo che diede adito alle congetture più diverse, compresa quella di un “ni” della Cgil. Solo il giorno dopo fu chiaro che Trentin dopo aver firmato aveva ufficializzato le sue dimissioni. Prima però aveva siglato per non acuire le tante tensioni in circolazione. Nell’autunno di quell’anno la Cgil lo rimise in sella. Questa volta però la difficoltà a firmare del maggiore sindacato era stata neutralizzata dall’abile ma responsabile condotta del suo Segretario. A Lama non fu possibile a San Valentino, ma quei partiti e con quella forza non c’erano più.

C’è da chiedersi se quel periodo sfibrante, percorso da scontri e reazioni nelle piazze, avvelenato da divisioni abbia minato in qualche modo la robusta costituzione sindacale. Di certo le rotture non furono definitive, mai, le divergenze non annullarono le solidarietà interne alle tre confederazioni. Ma quella lezione fu compresa a metà dai Governi, dalle imprese, dai sindacati. In seguito si è cercato di eludere l’impatto con i cambiamenti epocali. Si è usata la scorciatoia del fomentare le divisioni nel movimento sindacale, si è tentato di confonderlo con il vecchio mondo della prima Repubblica per metterlo fuori gioco senza chiedersi se fosse ancora utile. E nel sindacato talvolta è prevalso uno spirito di autoconservazione se non il rifugiarsi dietro un fragile muro di no. Nel frattempo si frantumavano le classi sociali cambiando faccia al mondo del lavoro ed all’opinione pubblica. In quegli anni furono comunque sia l’ennesima tenuta dei gruppi dirigenti che il rispetto dei ruoli ad evitare guai peggiori. Un messaggio che sopravvive ancor oggi: nessuno può rimanere chiuso nelle proprie insicure sicurezze. E fidarsi, con cautela, si deve.

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