Hillary come Roosevelt: “dobbiamo aver paura solo della paura”

image

-di ANTONIO MAGLIE-

Per scaldare la platea si è aggrappata a un simbolo: Franklin Delano Roosevelt. E in questa America di oggi, in questo mondo di oggi, molte incertezze, molti timori sono simili: un pianeta fortemente destabilizzato dalle guerre e dal terrorismo, la rinascita di una destra aggressiva e non particolarmente sensibile alla democrazia scaldata da demagoghi alla Donald Trump, la difficoltà di miliardi di persone alle prese con redditi insufficienti, la carenza di lavoro. Le file davanti agli uffici di collocamento come cantava Woody Gautry in “questa terra è la mia terra” non ci sono perché con altri mezzi, semmai telematici, si cerca occupazione, ma non mancano quelle davanti alle mense dei poveri ingrossate ormai anche da esponenti di quel ceto medio che nei “trenta gloriosi” rappresentava la spina dorsale della società non a caso definita “middle class”. “L’unica cosa di cui dobbiamo avere paura è la paura”, ha urlato Hillary Clinton ricordando il discorso di Roosevelt del 1932 e segnando in questa maniera una netta differenza rispetto al suo avversario alle elezioni del prossimo 8 novembre che, al contrario, ha trasformato proprio la paura nel suo miglior investimento elettorale.

La Convention democratica di Filadelfia è terminata secondo previsioni. Concorrerà Hillary Clinton che proverà ad allungare l’arco temporale della permanenza alla Casa Bianca della famiglia Clinton nella speranza che questo allungamento produca risultati migliori rispetto a quelli che gli Usa e il Mondo hanno conosciuto attraverso la replica della “dinastia Bush”. Ha accettato la nomination con “umiltà, determinazione e fiducia”, qualità (soprattutto la seconda) che nella vita di quella che è sempre stata descritta come una “secchiona” algida e scostante, hanno rappresentato una costante.

Per lei non è stata una Convention semplice. Prima la contestazione dei sostenitori di Bernie Sanders e anche nel trionfo finale qualche cartello in platea inneggiante al candidato “verde” alla Casa Bianca, Jill Stein, e qualche altro dal sapore fine anni Sessanta (“No War”). Ma per spingerla verso la presidenza sono scesi in campo tutti. Da Michelle Obama (con la quale i rapporti non sono sempre stati rilassati), al marito Bill che sull’elettorato democratico nonostante le disavventure sessuali continua a esercitare un certo fascino magnetico, a Sanders che l’ha voluta far nominare per acclamazione per provare a ricucire le rotture del primo giorno ottenendo in cambio un programma elettorale che almeno nei titoli supera a “sinistra” tutti gli altri presentati nel passato (probabilmente fatta eccezione per quello di George Stanley McGovern che venne travolto nel 1972 da Richard Nixon). Infine, la figlia Chelsea che alla platea di Filadelfia l’ha presentata così: “A novembre voto per una donna che è il mio modello, una donna che ha passato tuta la sua vita a lavorare per i bambini e le famiglie. Una progressista che proteggerà il nostro Paese dal cambiamento climatico e le nostre comunità dalla violenza delle armi, una persone che ritiene che i diritti delle donne siano diritti umani e che ritiene i diritti della comunità Lgbt diritti umani”.

E di tutte quelle categorie evocate dalla figlia, l’8 novembre Hillary avrà estremo bisogno per battere Trump. Avrà bisogno delle minoranze, i neri e i “latinos” che con una certa fatica si iscrivono per partecipare al voto. Avrà bisogno delle donne che forse si identificano più nel calore di Michelle Obama che nella sua compunta e un po’ noiosa competenza. E avrà bisogno dei giovani che Sanders è riuscito a trascinare in massa alle primarie e che ora rumoreggiano delusi. Anche per questo lei rende omaggio all’avversario delle Primarie: “Voglio ringraziare Bernie Sanders: la sua campagna ha ispirato milioni di persone. E ai tuoi sostenitori dico: la vostra causa è la nostra causa”. Ricevendo l’immediato apprezzamento dell’avversario: “Mi congratulo con Hillary per questo storico risultato. Siamo più forti insieme”. E ha ringraziato ovviamente Obama dal cui impegno nella campagna elettorale dipende in buona parte il suo successo: “L’America è forte grazie alla presidenza Obama”. “Mi congratulo con Hillary per questo storico risultato. Siamo più forti insieme”, ha dichiarato di rimbalzo Sanders.

Vestita di bianco e davanti alla folla osannante, ha descritto un’America diversa da quella di Trump: tanto divisa quella del repubblicano, tanto unita la sua; tanto rancorosa e chiusa in sé quella del repubblicano, tanto aperta e inclusiva (almeno nelle dichiarazioni di principio) la sua, tanto armata a livello privato quella del repubblicano, un po’ più disarmata la sua. Dice a proposito delle armi e di una battaglia che Obama non è riuscito a vincere: “Non voglio abolire il Secondo emendamento, ma non voglio che nessuno venga ucciso da qualcuno che non dovrebbe avere una pistola. Il Paese si deve unire sulle armi, ma anche sulla razza e sull’immigrazione. Difenderemo i diritti di tutti”. Pigia sul tasto dei pericoli legati all’elezione di un uomo avventato e incompetente alla Casa Bianca prendendo le difese delle forze armate di cui diventerà, se eletta, non senza contestazioni, il “comandante in capo”: “Le nostre forze militari sono un tesoro nazionale, non sono un disastro come dice Donald Trump”. E insiste sempre rivolta al suo avversario: “Una persona che si scalda con un tweet non può avere il codice nucleare. Dice di sapere più dell’Isis dei nostri generali. Ma no Donald, non ne sai di più”. E sul fatto che in tanti nel mondo attraverso twitter finiscono per scambiare la realtà virtuale con quella reale (forse perché con quest’ultima non sanno e non vogliono fare i conti) utilizzando le parole come una clava, non è che abbia tutti i torti. Anche se poi di quello strumento, come le ricorda Obama, in campagna elettorale dovrà fare uso. Esalta ancora la platea con una narrazione del Paese ovviamente contrapposta a quella fornita a Cleveland dall’avversario: “L’America è grande. Non lasciatevi dire da nessuno che siamo deboli. E non credete a Donald Trump che dice di essere l’unico a poter risolvere i problemi”.

Sottolinea la differenza di status della sua famiglia per proporre alla classe media non un ventaglio di promesse un esempio concreto, cioè la sua vita: “Nella mia famiglia nessuno ha il suo nome su un grattacielo. Siamo costruttori di un altro tipo”. Prova a sottolineare la differenza tra la sua capacità propositiva figlia della conoscenza dei problemi e la demagogia da “apprentice” del concorrente: “La scorsa settimana da Cleveland abbiamo sentito zero soluzioni da Trump, a lui queste cose non piacciono”. E prova a schivare le accuse che quasi in contemporanea le muove il “palazzinaro-intrattenitore Tv” che ovviamente insisterà sulla subalternità della Clinton ai forti poteri economici di Wall Street, come se lui non fosse uno che ha anche fatto i soldi con i soldi: “L’economia non è dove dovrebbe perché la democrazia non funziona. La mia missione come presidente sarà creare più opportunità e più posti di lavoro con buoni stipendi. Sarà la mia missione dal primo all’ultimo giorno”. E mentre i palloncini si preparano a invadere palco e platea, lancia il suo “manifesto” unitario: “Sarò il presidente di tutti, di tutta l’America, di chi mi ha votato e di chi non lo ha fatto”. Aggiungendo che l’elezione alla Casa Bianca della prima donna sarà una scelta epocale, “un passo verso un’Unione più perfetta”.

fondazione nenni

Via Alberto Caroncini 19, Roma www.fondazionenenni.it

Rispondi