Francesco D’Amuri e Cristina Giorgiantonio sono due studiosi della Banca d’Italia. Hanno condotto uno studio approfondito sull’inefficienza della Pubblica Amministrazione in rapporto alla distribuzione del personale giungendo, peraltro, a conclusioni non inedite (le maggiori “sacche” le hanno individuato nel centro-sud). Si tratta di un contributo alla conoscenza, al dibattito e alla valutazione di chi (dipendenti pubblici, organizzazioni sindacali e associazioni di difesa dei consumatori) quotidianamente si confronta con questi argomenti. Di qui la decisione del Blog della Fondazione Nenni di riprodurlo.
-di FRANCESCO D’AMURI e CRISTINA GIORGIANTONIO-
La distribuzione dei dipendenti pubblici in Italia: un’analisi delle ore lavorate nei Comuni italiani.
Diverse analisi hanno mostrato come la distribuzione geografica dei dipendenti pubblici in Italia risenta di asimmetrie a livello geografico, caratterizzandosi – in rapporto alla popolazione e, in misura più significativa, al PIL – per una maggiore concentrazione di tali lavoratori nel Centro- Sud.
Al fine di indagare più approfonditamente questi aspetti, è stato condotto un esercizio econometrico sui Comuni, basato sull’analisi dei dati raccolti nella Relazione Allegata al Conto Annuale della Ragioneria Generale dello Stato per gli anni 2011 e 2012. Per la totalità dei Comuni italiani e per le diverse aree di intervento, la rilevazione raccoglie i dati relativi a: I) le ore lavorate dai dipendenti dell’ente locale; II) la percentuale del lavoro eventualmente esternalizzato; III) l’output prodotto.
Ciascuna area di intervento può raggruppare attività rilevate con unità di misurazione diverse. Ad esempio, nell’area di intervento “Lavori pubblici” sono rilevate sia il numero di strutture per le quali è stata effettuata l’ordinaria manutenzione nell’anno, sia gli ettari di verde pubblico gestiti. Un indicatore sintetico e comparabile tra aree di intervento è ottenuto attribuendo prima a ciascuna operazione elementare un percentile nella distribuzione relativa a tutti i Comuni; e poi facendo una media di tutte le operazioni elementari all’interno di ciascuna area di intervento. A questa misura di output si associa, infine, il percentile relativo alle ore lavorate (che sono rilevate solo per area di intervento e non per le singole operazioni elementari).
L’obiettivo dell’esercizio econometrico è quello di valutare l’esistenza di scostamenti significativi dalla relazione standard tra input e output nell’erogazione dei servizi.
L’analisi si concentra inizialmente sui servizi relativi a stato civile e anagrafe, ritenuta l’area di intervento più appropriata per questo tipo di indagine in quanto: I) è presente in tutti i Comuni; II) non è esternalizzata; III) ha caratteristiche omogenee; IV) prevede l’utilizzo di sistemi informatici standard e di uso comune. La stima della relazione input/output è ottenuta attraverso una regressione del percentile di distribuzione delle ore lavorate su una costante e un polinomio di terzo grado del percentile nella distribuzione dei servizi erogati per l’anno 2012. Tale esercizio individua, dunque, una relazione media tra input e output, con gli errori che assumono valori positivi nei Comuni meno efficienti e viceversa. La stima conferma la presenza di una relazione positiva tra input e output (che rimane sostanzialmente identica ripetendo l’esercizio per il 2011). Tuttavia, per lo stesso percentile di output i singoli Comuni possono utilizzare livelli di input significativamente diversi rispetto al livello stimato. La quota della varianza spiegata dalla regressione è pari al 68 per cento.
L’errore di previsione per ciascuno dei Comuni analizzati per un determinato livello di attività potrebbe essere, in linea di principio, dovuto a un errore di misurazione sia delle ore lavorate, sia della quantità di servizi offerti. Tali errori di misurazione dovrebbero essere casuali, quindi non persistenti nel tempo e non correlati ad altre caratteristiche del singolo Comune analizzato. Tuttavia, l’autocorrelazione a un ritardo degli errori di previsione è molto elevata (0,8), segnalando che gli scostamenti dalla relazione standard tra input e output sono persistenti nel tempo. Inoltre, aggiungendo alla regressione standard variabili relative alle caratteristiche oggettive del singolo ente locale, si stima che i Comuni con un eccesso di ore lavorate a parità di output si trovano con maggiore probabilità: I) dove il tasso di disoccupazione è maggiore; II) al Centro e al Sud; III) nei Comuni montani. In questo caso la quota della varianza spiegata dalla regressione sale al 70 per cento. Infine, si aggiungono alla regressione relativa all’anno 2012 i residui ottenuti dall’analoga regressione per l’anno 2011. La stima conferma la forte persistenza nel tempo nei livelli di efficienza per ciascun Comune. La varianza spiegata sfiora ora il 90 per cento, segno che l’errore di misurazione può avere un ruolo modesto nel determinare i forti scostamenti osservati. Questi sembrano essere, invece, persistenti e determinati da alcune caratteristiche oggettive dei Comuni che, tuttavia, non dovrebbero – in linea di principio – comportare una minore efficienza nell’erogazione dei servizi.
Può essere, infine, utile verificare se i Comuni che non risultano essere particolarmente efficienti nell’erogazione dei servizi anagrafici tendano a utilizzare un maggiore input di lavoro a parità di output anche nella gestione degli altri servizi censiti dalla rilevazione. L’analisi empirica sembra confermare tale ipotesi: vi è una correlazione positiva tra l’errore di previsione stimato per i servizi anagrafici e quello stimato, in maniera analoga, per 22 delle 28 tipologie di servizio considerate. Quest’ultimo risultato, sebbene puramente descrittivo, suggerisce che gli squilibri nella dotazione del personale potrebbero anche interessare congiuntamente più attività, oltre a essere persistenti nel tempo.
Considerate le croniche disfunzioni e le carenze di personale documentate in altri settori della pubblica amministrazione, sembrano sussistere ampi margini per il ricorso a procedure di mobilità per la riallocazione dei dipendenti pubblici secondo le esigenze di produzione dei vari servizi, a fini di aumento dell’efficienza complessiva del sistema.
La mobilità dei dipendenti pubblici in Italia
Nell’ambito del lavoro pubblico italiano il termine “mobilità”, pur descrivendo il trasferimento di lavoratori da un’amministrazione all’altra, evoca una pluralità di istituti diversamente regolati. In estrema sintesi, sono individuabili tre principali forme di mobilità: I) la mobilità volontaria, che si verifica quando il dipendente passa dal ruolo di un’amministrazione a quello di un’altra di sua iniziativa, benché – di regola – previo consenso dell’amministrazione di appartenenza; II) la mobilità obbligatoria, quando il dipendente passa dal ruolo di un’amministrazione a quello di un’altra in forza di esigenze organizzative dell’amministrazione stessa; III) la mobilità temporanea, quando il dipendente resta incardinato nel ruolo di un’amministrazione, ma presta servizio presso un’altra.
Le riforme che hanno interessato il pubblico impiego a partire dalla fine degli anni ‘90, hanno cercato di promuovere il ricorso allo strumento, specie con finalità di redistribuzione dei dipendenti. In particolare, dal 2003, le fattispecie in esame hanno condiviso il profilo, più propriamente funzionale, della subordinazione dell’espletamento di concorsi per la copertura di posti vacanti in organico al preventivo ricorso alle procedure volte ad attivare la mobilità volontaria e obbligatoria. Lo scopo dichiarato era quello di valorizzare gli istituti della mobilità – unitariamente considerati – al fine di evitare la dispersione di risorse e di realizzare un’efficiente distribuzione del personale tra le diverse amministrazioni.
Nonostante ciò, i flussi di mobilità non sembrano rispondere appropriatamente alle esigenze di una più efficiente distribuzione della compagine, che pure emergono nel settore. In primo luogo essi, come emerge dall’analisi dei dati riportati nel Conto Annuale della Ragioneria Generale dello Stato, appaiono contenuti.
Le informazioni contenute in tale data set consentono di effettuare un’analisi sui flussi di mobilità all’interno dello stesso comparto (mobilità intracompartimentale) e tra comparti (mobilità intercompartimentale), distinguendo anche i casi di passaggi permanenti da quelli temporanei. La classificazione non consente, invece, di distinguere tra i casi di mobilità volontaria e quelli di mobilità obbligatoria…
…La mobilità tra comparti ha un andamento stabile nel tempo, con i casi di comando che riguardano circa lo 0,4 per cento degli occupati, mentre i fuori ruolo e i trasferimenti interessano una percentuale molto ridotta della compagine. In parte, la bassa incidenza della mobilità intercompartimentale sembra, in qualche misura, “fisiologica” e può essere spiegata dalla presenza di professionalità specifiche, il cui impiego è prevalentemente legato al comparto di appartenenza (come per i medici e gli infermieri in Sanità, o per i docenti nella Scuola). Tuttavia, la sostanziale impermeabilità dei comparti rimane confermata anche limitandosi alle figure trasversali dei ruoli amministrativi. Tali dinamiche trovano conferma nell’analisi dell’incidenza per comparto dei vari flussi in entrata per il solo 2013. È opportuno, inoltre, sottolineare la presenza estremamente rilevante di personale in comando o distacco nella Presidenza del Consiglio dei Ministri (circa i due terzi del totale).
Per quanto riguarda invece la mobilità intracompartimentale, questa è definita come il passaggio da un ente all’altro nell’ambito di uno stesso comparto. Anche a parità di dimensioni, diversi comparti possono avere un numero completamente diverso di enti, in virtù del proprio assetto organizzativo. Di conseguenza, le possibilità di trasferimento tra enti possono essere diverse e, dunque, la comparazione tra comparti dei tassi di mobilità al proprio interno può essere fuorviante. Dai dati del Conto annuale emerge un picco nella mobilità intracompartimentale nel 2009 (3 per cento dei dipendenti coinvolti). Analizzando gli andamenti settoriali, si può osservare che il Servizio sanitario nazionale è il comparto più interessato dalla mobilità interna. Ciò è legato sia al fatto che tale settore si caratterizza per una forte articolazione territoriale e per la presenza di un unico contratto che copre un numero cospicuo di occupati e che non prevede il vincolo del nulla osta preventivo dell’amministrazione di appartenenza per i trasferimenti di personale; sia al continuo processo di riorganizzazione interna avvenuto sulla base di iniziative condotte dalle singole Regioni (Leonardi, 2014). Sebbene, come anticipato, non sia possibile una comparazione rigorosa tra comparti diversi, si riscontra negli altri settori un’incidenza molto minore della mobilità intracompartimentale, al netto di singoli episodi riconducibili a interventi legislativi ad hoc di riordino, relativi a singole realtà (come gli Enti di ricerca e le Agenzie fiscali).
Al di là della loro dimensione quantitativa, i trasferimenti sembrano – inoltre – spesso non seguire logiche di efficientamento organizzativo. Vi è, infatti, evidenza che essi rispondano prevalentemente agli interessi dei singoli, più che a una corretta pianificazione dei fabbisogni di personale da parte delle amministrazioni, sia nella Scuola (Barbieri, Rossetti e Sestito, 2011 e Barbieri, Cipollone e Sestito, 2007, per la mobilità degli insegnanti), sia nel Servizio sanitario nazionale (Leonardi, 2014). Nel caso della Scuola, vi sono anzi riscontri di una fuga dalle sedi che presentano le situazioni più difficili (quelle ove si concentrano alunni con un background familiare più problematico dal punto di vista educativo), che si trovano così a dover operare con un continuo ricambio dei docenti e con una elevata quota di personale poco motivato perché in attesa di potersi trasferire altrove.
In sintesi, l’analisi mostra come:
I) il livello di mobilità dei dipendenti pubblici sia generalmente ridotto sia all’interno dei singoli comparti, sia in particolare tra amministrazioni appartenenti a comparti diversi e, quindi, non soggette al medesimo contratto collettivo nazionale (in quest’ultimo caso, nel 2013, i trasferimenti hanno interessato lo 0,1 per cento della compagine);
II) la parte più significativa dei flussi di mobilità all’interno dei singoli comparti risponda prevalentemente a finalità di riorganizzazione interna delle strutture, previste e gestite sulla base di interventi legislativi ad hoc (non solo a livello nazionale, ma anche regionale come nel caso della Sanità), denotando una scarsa efficacia delle procedure previste in via ordinaria;
III) laddove i trasferimenti avvengano su iniziativa dei dipendenti, vi siano evidenze che essi rispondano prevalentemente agli interessi dei singoli, più che a una corretta pianificazione dei fabbisogni di personale da parte delle amministrazioni
Alcune indicazioni di policy
L’analisi della normativa che regola le procedure di mobilità nell’ambito del pubblico impiego indica come tali esiti potrebbero essere, almeno in parte, riconducibili ad alcune criticità sul piano regolamentare, che limitano le possibilità di ricorrere alla mobilità come strumento di efficiente riallocazione del personale pubblico. Una più efficiente redistribuzione dei dipendenti pubblici sembra essere, infatti, compromessa: I) dalla presenza di alcuni fattori di contesto istituzionale e di carattere regolamentare che ostacolano i flussi di mobilità; II) dalla scarsa effettività degli strumenti per la gestione dei processi di riorganizzazione delle strutture (specie sul fronte delle procedure di mobilità obbligatoria).
I fattori di ostacolo ai processi di riallocazione del personale
Le pur numerose riforme che hanno cercato di valorizzare il ricorso alla mobilità non sono riuscite effettivamente a rimuovere alcuni fattori di carattere istituzionale e regolamentare che possono ostacolare e/o distorcere i flussi di mobilità, limitando a monte le possibilità di ricorrere allo strumento. Essi si ripercuotono negativamente sul funzionamento di tutte e tre le forme di mobilità (volontaria, temporanea e obbligatoria) previste nel nostro ordinamento. Criticità sono, in particolare, presenti sul terreno della determinazione dei fabbisogni effettivi di personale delle amministrazioni, della confrontabilità dei sistemi di inquadramento professionale e della flessibilità mansionistica, dell’articolazione delle procedure e della pubblicità dei posti disponibili, della segmentazione del numero di comparti.
I) Determinazione dei fabbisogni effettivi di personale. Il metodo attuale di determinazione dei fabbisogni di personale si basa sul sistema delle dotazioni organiche, le cui consistenze sono spesso datate e non più rispondenti alle effettive esigenze funzionali e organizzative degli enti. Ciò rappresenta un ostacolo per i processi di mobilità: l’assenza di criteri oggettivi e condivisi non consente di determinare in maniera obiettiva eventuali soprannumeri o vacanze, sulla base dei quali realizzare i trasferimenti di personale tra amministrazioni attraverso procedure di mobilità volontaria o obbligatoria, con ripercussioni negative sull’efficienza allocativa del sistema.
L’adozione di un approccio di tipo “standard” nella determinazione dei fabbisogni di personale consentirebbe di individuare criteri oggettivi per parametrare la “domanda” di lavoro da parte delle amministrazioni alle effettive esigenze organizzative. Tale approccio è stato di recente valorizzato dal legislatore come parametro per la gestione dei flussi di mobilità, ma non è ancora puntualmente definito.
L’adozione di un approccio di tipo “standard”, se inteso come insieme di valori che definiscono un’area di adeguatezza dell’organico sulla base di variabili oggettive scelte in relazione alle attività svolte dall’amministrazione, permetterebbe di ragionare in termini di posizionamento relativo dell’organico di un’amministrazione nell’intervallo dei valori di riferimento, responsabilizzando le amministrazioni stesse al rispetto degli standard. Si potrebbe partire, affinandole a seconda del contesto specifico di riferimento, da alcune metodologie già in corso di sperimentazione, che mettono in relazione la spesa sostenuta da ciascuna amministrazione con variabili sintomatiche delle esigenze dei diversi territori, rappresentabili – ad esempio – da grandezze economiche quali il reddito pro-capite locale, la popolazione, la densità di imprese, la demografia, e così via. Le variabili di contesto osservabili dalle singole amministrazioni potrebbero essere, invece, utilizzate dalle stesse per calcolare valori specifici dell’organico.
Il passaggio a un approccio di tipo standard nella determinazione dei fabbisogni di personale potrebbe consentire una rimodulazione dell’odierno vincolo che, seppure con alcune eccezioni, impedisce di passare da un’amministrazione a un’altra, senza il preventivo consenso dell’amministrazione di appartenenza. Ad esempio, la necessità di tale consenso preventivo potrebbe essere eliminato nel caso di trasferimento da un ente il cui numero di dipendenti superi di una determinata percentuale il valore massimo dell’intervallo entro il quale il suo organico può ragionevolmente collocarsi. Ciò consentirebbe, tra l’altro, di arginare i rischi che, nei passaggi così “liberalizzati”, prevalgano prevalentemente gli interessi dei singoli (al riavvicinamento familiare piuttosto che al ritorno al proprio paese di origine), senza effettiva attenzione ai problemi di efficienza allocativa del sistema. Specifica attenzione dovrebbe, poi, essere dedicata ai presidi per limitare i rischi di scoperture di organico in presenza di sedi c.d. disagiate o di ruoli di specifico rilievo, a garanzia del buon andamento della PA.
II) Migliore confrontabilità e maggiore flessibilità ai fini del reinquadramento professionale. L’accertamento del requisito della corrispondenza tra il profilo da ricoprire e quello di appartenenza del dipendente da trasferire può risultare foriero di numerose incertezze, soprattutto quando si tratti di amministrazioni appartenenti a differenti comparti, per i quali la contrattazione collettiva prevede di regola sistemi contrattuali di classificazione del personale non uniformi.
Allo scopo di ovviare a tali difficoltà, il Governo di recente (con d.P.C.M. 26 giugno 2015, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 17 settembre 2015) ha approvato delle tabelle di equiparazione fra i livelli di inquadramento previsti dai contratti collettivi relativi ai diversi comparti di contrattazione, dando così attuazione alla previsione di cui all’art. 29-bis TUPI, introdotta fin dal 2009. Esse rappresentano uno strumento estremamente rilevante per migliorare la confrontabilità dei sistemi di inquadramento del personale, facilitando così il ricorso alla mobilità. Tuttavia, residuano ancora alcuni elementi di incertezza. Ad esempio, il fatto che il d.P.C.M. indichi espressamente che le tabelle di equiparazione sono definite “astrattamente” potrebbe alimentare dubbi interpretativi, inducendo al limite a presumere che ogni amministrazione possa successivamente adottare una propria tabella di equiparazione in concreto. Un chiarimento normativo che limiti la discrezionalità dei singoli enti, ad esempio stabilendo quali sono i profili specifici eventualmente rimessi alla singola amministrazione, potrebbe arginare tali rischi.
Un ulteriore ostacolo al reinquadramento professionale dei dipendenti trasferiti, nei casi di riorganizzazione delle strutture, è rappresentato dalla limitata flessibilità mansionistica. L’attuale disciplina della mobilità obbligatoria per eccedenza di personale nel settore pubblico prevede che l’assegnazione a mansioni appartenenti a un livello di inquadramento inferiore possa avvenire solo su istanza del dipendente, trascorsi sei mesi dal collocamento in disponibilità. Invece, nel settore privato il d.lgs. 15 giugno 2015, n. 81, che ha dato per questi aspetti attuazione alla legge delega di riforma del mercato del lavoro (l. 10 dicembre 2014, n. 183 – c.d. Jobs Act), ha stabilito che – in caso di modifica degli assetti organizzativi che incidono sulla posizione del lavoratore – ciò possa avvenire a iniziativa del datore di lavoro. Anche ai fini di una maggiore uniformità di regolamentazione nell’impiego pubblico e in quello privato e per prevenire possibili rischi di contenzioso, andrebbe considerato un intervento di raccordo, che chiarisca i rapporti tra le due discipline in materia di mutamento delle mansioni, allineandole maggiormente, pur nel rispetto delle specificità dei due diversi settori.
III) Maggiore e più adeguata pubblicità delle procedure. Carenze sono presenti anche nelle forme di pubblicità relative ai posti disponibili. Allo stato attuale è prevista la preventiva pubblicazione da parte delle amministrazioni sul proprio sito istituzionale, per un periodo pari almeno a trenta giorni, di un bando in cui sono indicati i posti che si intendono ricoprire attraverso passaggio diretto di personale di altre amministrazioni, con indicazione dei requisiti che i candidati devono possedere (art. 30, comma 1, TUPI).
È stato, altresì, stabilito l’avvio – da parte del Dipartimento della Funzione Pubblica – di un monitoraggio dei posti vacanti presso le amministrazioni pubbliche e la redazione di un elenco, da pubblicare sul relativo sito web30. Da ultimo, lo stesso Dipartimento – allo scopo specificamente indicato di agevolare le procedure di mobilità – è stato incaricato di istituire un “portale finalizzato all’incontro tra la domanda e l’offerta di mobilità”.
La concreta attuazione di tali ultime misure, allo stato non ancora completamente operative, potrebbe favorire il ricorso alla mobilità volontaria, specie laddove accompagnata da un rafforzamento dei compiti di monitoraggio, pubblicità e coordinamento del Dipartimento della Funzione Pubblica in tal senso e delle strutture a essi dedicate, eventualmente anche coinvolgendo nell’attività di raccordo e diffusione l’Aran e i soggetti sindacali.
IV) Passaggio a ruoli unici. L’assetto attuale del pubblico impiego prevede che ogni singola amministrazione abbia propri ruoli organici, diversificati – ad esempio – in base alla sede (centrali, periferici, promiscui) e al titolo di accesso (amministrativi, tecnici, ecc.). Tale sistema, fortemente legato al concetto di dotazione organica (come si è detto, in via di superamento), contribuisce a ostacolare le possibilità di trasferimento tra amministrazioni.
In un’ottica di discontinuità rispetto all’assetto attuale, la l. 7 agosto 2015, n. 124, recante Deleghe al Governo in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche, prevede – seppure limitatamente alla dirigenza – l’istituzione di un sistema articolato principalmente in tre ruoli, tra loro “unificati e coordinati”, che dovrebbe caratterizzarsi per la piena mobilità dei dirigenti tra i ruoli. L’estensione di un tale approccio anche ad altre categorie, con il passaggio graduale a ruoli unici distinti per figure professionali potrebbe contribuire a fluidificare i trasferimenti tra amministrazioni. Tali ruoli potrebbero essere limitati a singoli comparti, laddove la figura professionale sia a essi strettamente deputata.
V) Riduzione del numero dei comparti. Nel settore pubblico sono attualmente previsti 10 comparti di contrattazione in senso stretto35, nonostante circa la metà dei dipendenti pubblici sia concentrata in soli due comparti e non appaia di immediata evidenza l’esigenza di parcellizzare il restante contingente. La riforma Brunetta (d.lgs. 27 ottobre 2009, n. 150, adottato in attuazione della legge delega 4 marzo 2009, n. 15) aveva stabilito una drastica rivisitazione del numero dei comparti (che avrebbero dovuto ridursi a quattro: art. 40 TUPI). Tuttavia, tale previsione non è mai stata attuata. L’elevata segmentazione dei comparti, oltre a non essere coerente con finalità di razionalizzazione e di semplificazione degli assetti amministrativi, aumenta in misura significativa gli ostacoli ai processi di mobilità, come si è visto particolarmente rilevanti nei casi di mobilità intercompartimentale. Andrebbe, pertanto, considerata l’opportunità di avviare un’analisi circa la perdurante esigenza dell’attuale segmentazione tra comparti, specie per quelli caratterizzati da una minore densità di personale, rimuovendo eventuali disparità non (più) giustificate da esigenze funzionali a elevato contenuto specialistico, e procedendo ai conseguenti accorpamenti contrattuali.
Gli strumenti per la gestione dei processi di riorganizzazione delle strutture
Le procedure di mobilità obbligatoria previste dal TUPI con carattere generale, seppure oggetto di numerose e importanti modifiche, sono state di fatto raramente applicate. Nel nostro Paese, i processi di mobilità obbligatoria sono stati – infatti – di regola gestiti sulla base di interventi legislativi ad hoc.
L’adozione di un approccio di tipo “standard”, quindi maggiormente verificabile, nella determinazione dei fabbisogni effettivi di personale può senz’altro facilitare l’individuazione di possibili deficienze o soprannumeri, responsabilizzando maggiormente le strutture e, quindi, aumentando gli incentivi a dichiarare eventuali esuberi; così come una migliore confrontabilità e maggiore flessibilità ai fini del reinquadramento professionale può consentire di ricollocare più facilmente il personale. Tuttavia, miglioramenti sono possibili anche sul terreno procedurale.
L’efficacia delle procedure di mobilità obbligatoria previste dal TUPI sembra, infatti, essere limitata, I) con riferimento alla mobilità per eccedenza di personale, dagli scarsi poteri decisionali e di impulso attribuiti al Dipartimento della Funzione Pubblica e dalla mancanza di criteri sulla base dei quali selezionare i dipendenti da collocare in disponibilità; II) per quanto riguarda la “mobilità nel raggio dei 50 chilometri” introdotta dal decreto PA, dall’assenza di criteri per realizzare i trasferimenti, laddove non si raggiunga il preventivo accordo tra le amministrazioni.
Criticità si sono, inoltre, registrate nel ricorso a forme di mobilità in uscita, utilizzate – in alternativa alle procedure di mobilità obbligatoria – per i lavoratori appartenenti a fasce di età medio-alte, specie per quel che concerne la compatibilità con i vincoli alla spesa pensionistica.
I) Mobilità obbligatoria per eccedenza di personale. Nonostante le numerose modifiche che hanno interessato la disciplina della “mobilità per eccedenza di personale” (artt. 33, 34 e 34-bis TUPI), lo strumento – di fatto subordinato all’iniziativa delle singole amministrazioni interessate – non ha praticamente trovato applicazione.
Ciò sembra in parte imputabile anche agli scarsi poteri decisionali e di impulso attribuiti al Dipartimento della Funzione Pubblica, che – pur in presenza di personale in disponibilità – non può provvedere al suo collocamento d’ufficio presso le amministrazioni che presentino vacanze in organico. Inoltre, non sono stati mai esplicitati i criteri (che dovrebbero essere oggettivi e verificabili) in base ai quali selezionare i dipendenti da collocare in disponibilità.
II) Mobilità obbligatoria nell’ambito dello stesso Comune o comunque nel raggio di 50 chilometri dalla sede di precedente assegnazione. La nuova ipotesi di mobilità obbligatoria di recente introdotta dal decreto PA prevede la possibilità che il Ministro per la semplificazione e la pubblica amministrazione, previa consultazione con le associazioni sindacali rappresentative e intesa – ove necessario – con la conferenza unificata, possa fissare criteri per realizzare trasferimenti, anche senza il preventivo accordo tra le amministrazioni, quando ciò sia funzionale a garantire l’esercizio delle funzioni istituzionali da parte delle amministrazioni che presentano carenze di organico. Tali criteri sono stati fissati per la prima volta con il d.M. 14 settembre 2015, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 30 settembre 2015), che ha però essenzialmente riguardo alle sole procedure di mobilità relative al personale delle province a seguito del riordino delle relative funzioni36.
Inoltre, il fondo previsto dal decreto PA per favorire e incentivare i percorsi di mobilità37 è divenuto operativo solo a partire da aprile 2015, a seguito dell’adozione del d.P.C.M. di attuazione. In ogni caso, l’ammontare delle risorse a esso destinate (15 milioni di euro per l’anno 2014 e di 30 milioni di euro a decorrere dall’anno 2015) potrebbe non essere sufficiente a incentivare i passaggi tra amministrazioni: non è, infatti, possibile valutare la congruità del fondo in assenza di valutazioni quantitative circa il personale eventualmente coinvolto da processi di mobilità.
III) Ricorso a forme di mobilità in uscita. I dipendenti pubblici italiani si caratterizzano per un’elevata età media, dovuta all’alta concentrazione nelle classi di età medio alte (40-59 anni), mentre i dipendenti prossimi alla pensione (60-64 anni) rappresentano il 4,9 per cento della compagine, meno che in Germania, Spagna e Regno Unito. La più bassa propensione del personale meno giovane alla mobilità geografica e all’adattamento a nuovi ambiti mansionistici potrebbe costituire un elemento critico da tenere in considerazione in fase di programmazione e attuazione di un programma di riallocazione del personale.
Anche sulla scorta di tali considerazioni, nel nostro Paese – già da qualche tempo – si sono introdotte misure volte a favorire la mobilità in uscita, in particolare ricorrendo ai pensionamenti sulla base dei requisiti pre riforma Fornero in presenza di esuberi di personale. Tuttavia, il ricorso ai pensionamenti sulla base delle regole pre-Fornero, oltre a ingenerare disparità di trattamento con i lavoratori del settore privato, comporta un aumento della spesa pensionistica (pur se a fronte di una diminuzione complessiva del totale della spesa pubblica, vista la loro applicabilità solo in caso di posizioni soprannumerarie), che potrebbe essere difficile da giustificare. Inoltre, tali iniziative non sono state inquadrate in un processo organico di quantificazione dei soprannumeri, essendo – invece – rimesse alla sola iniziativa dei singoli enti.
Per ovviare a tali criticità e in alternativa alle forme di mobilità in uscita già adottate, potrebbe essere considerata l’introduzione di un sistema premiale, finanziato con il fondo di cui al punto precedente, che introduca degli incentivi alla mobilità o all’ampliamento mansionistico parametrati all’anzianità di servizio prestata presso l’amministrazione. Per i lavoratori impiegati presso amministrazioni con personale in eccedenza e che non aderiscono ai piani di mobilità, potrebbe prevedersi – nei limiti della compatibilità finanziaria ed eventualmente su base sperimentale per il prossimo triennio – un sistema di accompagnamento alla pensione attraverso il passaggio al lavoro a tempo parziale (per le fasce di età medio-alte) oppure il prepensionamento con un assegno riparametrato sull’aspettativa di vita al momento della pensione (per gli over 60). Andrebbe, in ogni caso, chiarito che il ricorso a tali strumenti comporterebbe la soppressione della relativa posizione in organico.