-di ANTONIO MAGLIE-
L’occidente democratico ha salutato con soddisfazione il successo della controffensiva con la quale Recep Tayyp Erdogan ha sventato il golpe in Turchia. Resta qualche piccola sacca di resistenza come 150 militari golpisti che per trattare la resa si sono barricati in una caserma. Ma sono dettagli. Perché Erdogan sembra ormai decisamente impegnato a fare piazza pulita dei “congiurati” tanto è vero che ha disposto la chiusura delle frontiere e controlli severi per evitare che gli adepti dell’Iman Gulep, accusato apertamente dal presidente di essere stato il manovratore dell’operazione, possano fuggire prima di aver ricevuto la presentazione del “conto” che sarà inevitabilmente severo.
Con Erdogan si sono schierati tutti, a cominciare dalla Russia che pure aveva mosso pesantissime accuse contro il presidente nei mesi scorsi dopo l’abbattimento di un velivolo militare di Mosca. La Cina che certo non è un esempio dal punto di vista dei diritti civili. Gli Stati Uniti, la Nato che ha nella Turchia un alleato strategico (e anche militarmente possente) nella regione; la Germania che ha lavorato alacremente con Erdogan per giungere a un accordo sui profughi che non è ingiusto definire “commerciale”; l’Italia che ha raccolto telefonicamente attraverso il ministro Paolo Gentiloni la rivelazione dell’omologo di Ankara che ha definito i golpisti dei veri e propri terroristi; Israele, l’Europa nel suo complesso. In questi apprezzamenti si sovrappongono elementari principi democratici (Erdogan è, comunque, un leader che ha riscosso nelle urne un ampio consenso popolare) e tanta realpolitik.
Ma emergono anche dei paradossi. Tanto per cominciare, gli eserciti, i militari che per giustificare i loro “interventi” promettono il ripristino della democrazia. E’ andata così in Egitto con Al Sisi (e l’Occidente se non ha applaudito, non ha certo manifestato riprovazione per una pratica, quella del golpe, che è contraria a qualsiasi regola seguita nei Paesi in cui il potere deriva dalla sovranità popolare). Rischiava di andare così anche in Turchia dove i “congiurati” hanno sostanzialmente detto le stesse cose che dissero i generali egiziani. Osservati da questa prospettiva, i militari, soprattutto quando hanno pulsioni golpiste, appaiono simili in ogni angolo del globo. Un motivo in più per diffidare di loro (non di tutti, ovviamente) quando parlano di democrazia.
Ma poi c’è un paradosso ancora più clamoroso. Erdogan è a quel posto per una scelta del popolo o, meglio, di una parte maggioritaria dell’elettorato. Dunque è formalmente un presidente democratico. Ma nel frattempo sta piegando le regole della democrazia a una logica decisamente autoritaria. Gli oppositori dal presidente turco non sono certi trattati con i guanti bianchi. I diritti civili (a cominciare da quelli dei gay) non è che vengano propriamente rispettati. Etnie come quella curda non è che non siano sottoposte a interventi repressivi. Risultato: l’Occidente democratico esprime soddisfazione per la vittoria di un presidente che sta modificando i connotati della democrazia così come noi la intendiamo dalle nostre parti perché gli altri, i golpisti, sono peggiori di lui in quanto non rispettano nemmeno la regola formale dell’investitura popolare attraverso il voto. Ovviamente non solo. Il resto, infatti, lo garantisce la realpolitik, il fatto che con Erdogan si intrattengono rapporti politici, commerciali, trattiamo, raggiungiamo accordi e, allora, meglio tenerselo stretto perché non si sa mai. Ma diciamolo francamente: a colpi di paradossi la democrazia può anche morire.
Il golpe vero è in pieno svolgimento, adesso. Epurazioni in corso nella magistratura a tutti i livelli; colpiti anche amministratori regionali. Direi che la situazione sia chiarissima.
In breve tempo in Turchia non avremo più alcuna separazione dei poteri; si materializza il sultanato tanto agognato?