-di VALENTINA BOMBARDIERI-
Un uomo e una donna uniti nella vita e nel lavoro. Gian Galeazzo Boschetti, modenese in Bangledesh da 25 anni e Claudia D’Antona, 56 anni, originaria di Torino, tra le vittime del terribile massacro di Dacca. Forse la storia umanamente più drammatica all’interno di una tragedia collettiva che coinvolge nove famiglie e un paese intero, l’Italia. Lui è uscito dal ristorante, aveva ricevuto una telefonata. Quei pochi secondi che ti cambiano la vita. Che la vita te la salvano. E contemporaneamente te la distruggono. Mentre lei è rimasta all’interno del ristorante. Ventitré anni di amore e di vita comune spezzati da una follia omicida.
«Per molte ore ho sperato in un miracolo, ma alla fine mi sono dovuto arrendere all’evidenza. Lei è morta, uccisa probabilmente da un unico colpo di pistola». Una cena tranquilla, così doveva essere. La stessa cena tranquilla a Parigi trasformata in massacro pochi mesi fa. «Al momento dell’attacco – ha raccontato Boschetti all’Ansa – mi ero allontanato per rispondere a una telefonata. Eravamo tre al mio tavolo, mentre altri sette italiani sedevano a poca distanza da noi. Resomi conto dell’irruzione nel locale del commando, ho trovato rifugio dietro un albero e poi – ha aggiunto – mi sono precipitato fuori».
Una coppia nella vita e nel lavoro. E anche nell’attività di volontariato come ha testimoniato Paolo Morselli “deus ex machina” dell’organizzazione di chirurgia plastica ricostruttiva, “Interethnos Interplast Italy”. Ha detto: “Tutto ciò che di buono abbiamo fatto in Bangladesh è stato possibile per merito di Gianni e Claudia”. Quella serata ha cancellato tutto: passato, presente, futuro e progetti. Gian Galeazzo, unico superstite, alla disperata ricerca di notizie. Ore di ansia, di paura. Gianni è stato allora portato a nord-ovest della capitale, nel Dhaka Cantonment, all’interno del quale si trova il Combined Military Hospital che ha accolto i resti delle venti persone uccise dal commando terrorista.
«Sono uscito da quel luogo sconvolto», ha confessato dopo aver effettuato il riconoscimento del cadavere della moglie, che era rinchiuso come tutti gli altri in un sacco di plastica adagiato su una barella all’aperto, sotto una pioggia monsonica battente. «Ho visto là dei cadaveri ridotti in condizioni pietose per i colpi ricevuti anche con armi da taglio. Ma quello di mia moglie no. Forse non ha sofferto. Forse è morta colpita da un unico proiettile che l’ha stroncata».
Sofferenza, sensi di colpa. Il terrorismo è anche questo. La vita di una persona può cambiare nel tempo necessario a varcare la soglia di una porta. Una maledizione sintetizzabile nel concetto delle “sliding doors”. Può esistere un senso di colpa per chi sopravvive? Mentre a Dacca quei sette “macellai” dispensavano dolore e morte, a Manhattan si spegnava Elie Wiesel, premio Nobel per la Pace, uno dei grandi testimoni sopravvissuti, insieme a Primo Levi, a quella sciagurata follia umana che fu l’olocausto. Ha scritto pagine memorabili sul senso di colpa che ha accompagnato la vita di chi da quei campi è uscito vivo e dato corpo ai dubbi sulla presenza di un Dio che non aveva impedito quella strage. Diceva: “L’opposto dell’amore non è l’odio, è l’ indifferenza. L’opposto dell’arte non è il brutto, è l’indifferenza. L’opposto della fede non è l’eresia, è l’indifferenza. E l’opposto della vita non è la morte, è l’indifferenza”.
Il terrorismo con la sua indifferenza verso l’amore, verso la fede, verso la morte, colpisce la nostra anima nel punto più profondo e sensibile, smuove i nostri sentimenti più forti. Il sangue continua a scorrere e le vite continuano a essere spezzate. Ci sono casi però dove la morte è anche per chi rimane. Lo fu per Wiesel, lo fu per Primo Levi, probabilmente lo sarà per Boschetti.