Lombardi: Il liberismo non dà piena occupazione

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Sapiamo bene che i temi di questo discorso sull’Europa pronunciato da Riccardo Lombardi cinquantanove anni fa sono piuttosto lontani da quelli al centro dell’attuale dibattito politico soprattutto dopo il referendum che ha sancito il “divorzio” della Gran Bretagna. D’altro canto i tempi e le occasioni erano diverse. Adesso temiamo la dissoluzione, a quei tempi si immaginavano processi di costruzione. Il 25 marzo del 1957 a Roma, in Campidoglio vennero firmati i trattati istitutivi della Comunità Economica Europea (Cee) della Comunità Europea dell’Energia Atomica (Euratom). I socialisti ebbero una posizione differenziata: votarono a favore del secondo e si astennero sul primo ma questa astensione fece perdere vigore all’opposizione dei comunisti. In questo intervento pronunciato da Lombardi in occasione del dibattito sull’approvazione dei due documenti, emergono, però, alcune questioni che riguardano la politica economica in qualche misura di estrema attualità Tanto per cominciare, una critica molto serrata a una impostazione liberista del mercato comune; l’esigenza di riconoscere agli Stati un ruolo nel governo dell’economia per attuare politiche di piano che puntino alla piena occupazione; una straordinaria fiducia attribuita alle forze sindacali che avrebbero dovuto portare le proprie lotte nel più vasto territorio costituito dalla somma dei sei stati fondatori. Al liberismo Lombardi attribuiva le colpe della crisi del 1929; oggi il liberismo spinto dalla finanza rapace ha prodotto lo stesso fallimento di allora, se non peggio; gli alti tassi di disoccupazione sono un atto di accusa contro governi che evidentemente hanno deciso di rinunciare a inseguire l’obiettivo della piena occupazione; i sindacati, a loro volta, hanno perso di vista il versante europeo pur essendo vasta l’area di un disagio che non trovando un canale razionale per esprimere le proprie rivendicazioni finisce per trasformarsi nel vento che gonfia le vele del ribellismo populista e xenofobo di destra.

-di RICCARDO LOMBARDI-*

…È stato giustamente detto che il trattato del mercato comune è una automobile col motore debole e con i freni potenti. Non è sui freni che noi contiamo. Noi non pensiamo di dissimulare una considerazione in parte favorevole e in parte sfavorevole, dietro la presunzione o la speranza che il trattato, attraverso il gioco delle clausole di garanzia, non entri mai nella sua fase di applicazione.

Questo, come è noto, rappresenta il pensiero e l’intenzione di molte forze sociali e politiche che hanno approvato, sì il trattato per considerazioni atlantiche o per vaghe considerazioni europeistiche, ma che non si rassegnano facilmente a quel tanto di possibile – non certa – lesione di interessi conservatori e parassitari, che il trattato potrà rappresentare.

Ripeto che non è nostra intenzione, né nostra speranza, quella di vedere il trattato non applicato. Noi non pensiamo che sia vantaggioso premere il piede sul freno. Semmai il problema che poniamo è un altro: che alla guida di questa macchina vi siano determinate forze, poiché quelle che oggi sono al volante non ci ispirano, né possono ispirarci, fiducia…

…L’onorevole Malagodi nel suo discorso di sabato, ha parlato come il pontefice massimo della chiesa liberale che si rivolgeva alle chiese dissidenti. In realtà l’onorevole Malagodi ha visto, giudicato e descritto il mercato comune e la situazione che esso determinerà come un puro e semplice e trionfale ritorno alla libera iniziativa, come una eliminazione, sia pur graduale, di ogni interventismo pubblico nell’economia: cioè, come il ritorno al laisser faire (perché ha parlato di liberismo moderno e non già di quello del 1800), certamente ad una pratica di cui egli omise però di dirci il punto di arresto, tanto meno di segnalarci il punto massimo di sviluppo cui seguì il punto di arresto.

L’onorevole Malagodi ha dimenticato che questo paradiso perduto che egli vorrebbe ritrovare mediante il trattato del mercato comune, è quel paradiso naufragato ad una certa data, precisamente nel 1930 sotto i colpi della grande crisi. Proprio la crisi del 1930 dimostrò, nel modo più umiliante per alcuni, nel modo comunque più tragico per molta gente che ne pagò il costo con infinite sofferenze, la incapacità del sistema della libera concorrenza, del puro sistema delle forze automatiche del mercato a garantire, non dico lo sviluppo, delle economie moderne, ma neppure la stabilità di queste economie. Il terremoto del 1930 è stato troppo facilmente dimenticato dall’onorevole Malagodi. Ma esso è un punto che storicamente rappresenta un limite ed è impossibile pensare di ritornare a criteri che possono essere sostenuti quanto si voglia in sede teorica e dottrinale, ma che hanno subito un giudizio storico inoppugnabile con il risultato della grande crisi, quando i popoli sotto impulsi vari e molte volte purtroppo tardivi, hanno dovuto mettere le manette alla libera concorrenza e diffidare delle forze cosiddette del mercato come elemento di equilibrio.

E la ragione c’è: è una ragione che nel 1930 non si poteva vedere, ma che oggi alla luce dell’esperienza economica anche recente di tutti i paesi, socialisti o capitalisti, possiamo comprendere. Quello che affermava l’onorevole Malagodi, che i liberali e i liberisti continuano a ritenere per certo e che essi si ripropongono di ripristinare attraverso il meccanismo del mercato comune, è un meccanismo che poteva mantenersi senza produrre disastri in una certa situazione storica, la situazione precedente alla prima guerra mondiale, direi, in ogni caso in quella precedente alla seconda guerra mondiale: una situazione cioè in cui la politica dei vari paesi si svolgeva in condizioni di produzione costante. In tali condizioni, in cui l’aumento di produzione e di reddito per anno di ciascun paese seguiva più o meno l’aumento della popolazione (quando per usare la giusta parola, si trattava di economie stazionarie) si poteva comprendere che l’ideale vagheggiato dai liberisti di allora e che aveva una certa giustificazione nei fatti, fosse l’aggiustamento automatico per opera delle forze spontanee del mercato. Perché tale tipo di aggiustamento, in una situazione – ripeto – di stazionarietà dell’economia, con un tasso di sviluppo che seguiva sì e no a malapena il tasso di incremento della popolazione, in presenza perciò di spostamenti dell’equilibrio non dico virtuali ma piccolissimi, lasciava al corpo sociale ed economico una notevole elasticità e, quindi, una notevole capacità riequilibratrice. Ma quando come succede oggi invariabilmente in tutte le economie dei paesi moderni (e -ripeto ancora una volta – con diversi metodi e diversi sistemi, sia nei paesi socialisti che capitalisti), i tassi di incremento della produzione annua non sono più pari all’incremento della popolazione, ma vanno al di là (si parla già per il nostro paese che non è in una situazione ideale, anzi si è già nel nostro paese ad un tasso di incremento del 5 per cento che non è una cosa da niente), allora il sistema di aggiustamento automatico non funziona più, non si può più prediligere ed auspicare la permanenza o il ritorno di un mondo in cui appunto le iniziative economiche e il loro sviluppo siano affidate esclusivamente al giuoco delle cosiddette forze spontanee: non si può pensare a paesi i quali organizzino la propria produzione sulla base delle condizioni migliori, utilizzando cioè le condizioni naturali, o demografiche, o territoriali, o di ubicazione nel territorio mondiale, utilizzando cioè quegli elementi di vantaggio e quelli soli per sviluppare quelle e solo quelle attività produttive e rinunciando a tutte le altre e per tutte le altre ricorrendo al commercio internazionale, approvvigionandosi dei prodotti al miglior prezzo, perché a minor costo, presso gli altri paesi.

Questa è una politica che si è fatta e di cui si è pagato il costo nel 1930, la politica che non si può fare oggi – e credo che nessuno e neppure l’onorevole Malagodi voglia che si rifaccia – perché incompatibile con un’altra politica, alla quale tutti i paesi sono arrivati o tendono inevitabilmente. Una politica di libero giuoco delle forze produttive basata sulla limitazione delle attività produttive a quelle “naturalmente” avvantaggiate, è in contraddizione patente con una politica di pieno impiego delle forze produttive. Non per nulla le politiche economiche che portano a tassi di sviluppo – ripeto – al limite della tumultuosità, non più del 2 per cento in media all’anno come avveniva una volta ma dell’8 del 12 per cento, come succede oggi in moltissimi paesi e in parte anche nel nostro, sono politiche forzate attraverso stimoli e interventi, che sono necessariamente interventi pubblici nel nostro paese e anche se gli interventi pubblici sono stati non tanto pochi, quanto disordinati e contraddittori, tuttavia senza di essi sarebbe stato impossibile arrivare a quel grado di sviluppo della nostra economia secondo un tasso medio del 5 per cento raggiunto nell’ultimo quinquennio sia pure profittando di anni di alta congiuntura. Non vi è dubbio che la politica che consiste nell’affidare la produzione e la ripartizione territoriale e merceologica delle diverse produzioni fra i differenti paesi alle forze spontanee del mercato è una politica la quale inevitabilmente è in contraddizione, ed in contraddizione insanabile, con una politica di piena occupazione e che nel 1930 appunto, ha dimostrato di non essere non soltanto una politica di piena occupazione, ma neanche una politica di sopravvivenza. Una politica la quale si basa sullo spostamento delle forze produttive, contando sull’abbassamento dei salari o addirittura sull’eliminazione fisica dei lavoratori per costituire la forza di elasticità compensatrice di determinati costi dell’attività produttiva, cioè una politica molto allegra la quale fa riequilibrare attraverso la permanente disoccupazione, come si è vista, di 20 milioni di uomini in America e in Europa in quegli anni, è una politica che oggi, anche se avesse tutte le giustificazioni teoriche di questo mondo, e non le ha, sarebbe respinta dal corpo sociale, che ha fatto già diverse e più produttive esperienze…

…Se ci dovessimo limitare a giudicare il trattato con tutte le sue contraddizioni e storture e timidezze (e ho detto che non sono timidezze che riconosciamo come elementi validi e positivi del trattato), dovremmo concludere che il trattato si propone uno scopo in contraddizione con la lettera del trattato, con gli istituti del trattato. Gli istituti sono troppo gracili per poter contribuire efficacemente (allo stato delle cose) alla realizzazione di quello che si proclama essere l’intendimento del trattato stesso. E tuttavia la ragione per la quale non ci siamo fermati, né ci fermiamo davanti a questa costatazione, è che noi abbiamo fiducia non nelle forze spontanee del mercato, ma nelle forze sociali, sindacali e politiche che la rottura di un equilibrio conservatore operata dal mercato comune solleciterà. È stato detto – e noi conveniamo completamente (del resto siamo stati i primi ad osservarlo e si tratta comunque di osservazioni ovvie) – che il mercato comune amplia la base territoriale della potenza e dello strapotere dei monopoli e dei cartelli. E questo in gran parte è vero, anche se i monopoli e i cartelli non nascono con il mercato comune ma vi preesistono. Però vi è una cosa altrettanto certa: che l’area di intervento, l’area di sviluppo delle forze democratiche e delle forze del lavoro, specialmente di quelle sindacali, troverà una dilatazione importante nella costituzione del mercato comune. Il fatto stesso che le lotte sindacali (che sono, per chi vi parla, un elemento di punta della lotta politica) si trasferiranno necessariamente assai al di là di un terreno in cui urtano entro i limiti corporativi estremamente ristretti e quindi contro limitazioni pressoché insormontabili, il fatto stesso che si determineranno azioni dei sindacati sul terreno dei sei paesi di maggiore ampiezza e di molto maggiore, quindi, responsabilità di quanto non si possono determinare in un mercato ristretto, in cui – lo ripeto ancora una volta – il limite corporativo e quindi il limite della collusione tesa con il padronato è troppo presto raggiunto, rappresenta un elemento di novità che ci induce ad una fiducia meditata non sul trattato, ma su alcune conseguenze del trattato, nel senso di un più vasto respiro o più vaste possibilità per le forze del lavoro.

*Discorso pronunciato alla Camera dei Deputati nella seduta pomeridiana del 22 luglio 1957

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