Quel grido contro il Caporalato

image

­

-di ANTONIO MAGLIE-

Sembra una vecchia nenia, di quelle che si cantano per far addormentare i bambini molto piccoli: “Padrone mio ti voglio arricchire/come un cane voglio lavorare/quando sbaglio dammi le botte/voglio la morte, ma non mi cacciare/io ho figli che vogliono il pane/chi glielo dà è il papà”. Erano gli anni Cinquanta quando Matteo Salvatore, poeta popolare, semianalfabeta, la cantava. Gli era arrivata per vie traverse, forse era risalita sino in Puglia dalla Sicilia. Raccontava la fatica dei campi, quel mondo baronale in cui i rapporti erano di tipo servile, senza diritti e ancor di più senza dignità. Un mondo che in questo terzo millennio spazzato dai venti della terza rivoluzione industriale ci appare tanto lontano. All’improvviso riemerge, più o meno negli stessi luoghi che hanno ispirato Matteo Salvatore. Perché la storia di Paola Clemente non è molto diversa da quella dell’anonimo protagonista di quella canzone del 1954. Storia di sacrifici, di bassissimi salari, di lavoro durissimo e, alla fine, di morte. Sul campo. Anzi nei campi.


Quando l’altro giorno il marito, Stefano Arcuri, l’ha raccontata a Bari durante una manifestazione dei braccianti contro il caporalato è apparso chiaro che la modernità cessa laddove comincia lo sfruttamento. Anzi la modernità a volte attribuisce allo sfruttamento forme apparentemente più educate, apparentemente lo cancella per occultare colpe e responsabilità. Come il protagonista della canzone di Salvatore, di quei soldi, poche decine di euro, ventisette, per la precisione, Paola aveva bisogno. “Ci servivano, ci permettevano di campare”, raccontava lo scorso anno il marito, subito dopo la tragedia. Il mutuo da pagare, le necessità della famiglia. E così alle tre di notte Paola saliva sulla “corriera” della Sud-Est a San Giorgio Jonico, il primo paese subito dopo Taranto, lungo la strada che porta verso il Salento più profondo, verso le zone di produzione del Primitivo, verso la terra che fu dei Messapi. Ma lei imboccava la strada inversa, saliva verso Bari, oltre Bari. Centocinquanta chilometri per andare a lavorare dalle parti di Andria, un viaggio di due ore e mezza, cinque tra andata e ritorno e in mezzo otto ore di lavoro. In piedi su una cassetta della frutta, la testa verso il cielo e le braccia alte per “ripulire” i grappoli d’uva dagli acinini. La chiamano “acinellatura”. Serve a rendere i grappoli più belli; a Paola serviva per guadagnare. Quei campi le davano la vita. Poi, però, le hanno dato la morte. All’ospedale ci è arrivata che non respirava più. Era il 13 luglio e la vita di Paola si fermava a quarantanove anni.

Sabato scorso, 25 giugno, Stefano, il marito, ha urlato a Bari ancora la sua rabbia davanti a migliaia di braccianti come sua moglie: “Sono qui nonostante il mio profondo dolore, nonostante i miei timori, la mia emozione, sono qui per dire no allo sfruttamento del lavoro in agricoltura”. Lo sfruttamento del terzo millennio ha nomi “gentili”, quasi rassicuranti: “Siamo qui per spiegare al governo che la maggioranza delle assunzioni sono precarie, che i voucher hanno segnato un 154 per cento in più rispetto allo scorso anno e che solo in agricoltura ci sono quattrocentomila lavoratori in nero”, ha spiegato Stefano Mantegazza, segretario generale della Uila. Quattrocentomila lavoratori in nero e tredici morti in un anno, come ha ricordato Luigi Sbarra, leader della Fai.

La modernità colora la società a macchia di leopardo. E laddove il colore scarseggia, ecco che riemergono i versi di un altra canzone di Matteo Salvatore, che la durezza del lavoro e i metodi spregiudicati del caporalato li conobbe non lontano da Andria dove è morta Paola, nella Capitana, quando nelle piazza dei paesi passavano gli uomini al servizio dei padroni per reclutare ragazzini da impiegare nei campi di grano. Al sole e con la gola sempre più secca e quando al “soprastante” chiedevano di bere, si sentivano rispondere “Voi non dovete bere, non dovete bere, dovete lavorare”. I sistemi oggi forse non sono più quelli, la legge ne offre di nuovi, più raffinati, sofisticati, quasi più asettici. Eppure la questione è sempre la stessa. “Chiediamo di fare presto nell’approvazione del decreto legislativo contro il caporalato che è andato al Senato nel gennaio scorso, firmato da cinque ministri”, dice Ivana Galli segretaria generale della Flai. Quando nei prossimi giorni, in auto fuggendo verso le vacanze percorrerete quell’autostrada che attraversando il Tavoliere, vi porta sempre più a est, verso Bari e più giù verso Taranto e ancora più giù verso Gallipoli e Santa Maria di Leuca, ricordatevi di Paola che quel viaggio lo faceva al contrario, per ventisette euro e una vita di sacrifici; ricordatevi che ancora oggi questa può ancora essere quella terra del rimorso di cui parlava Ernesto De Martino, che la Taranta non è semplicemente un evento turistico-musicale che si svolge in una notte, ma è soprattutto il lento e doloroso ricordo delle nostre paure ancestrali.

antoniomaglie

Rispondi