Agosta, un’Europa in stato confusionale

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-di ANGELO GENTILE-

Lo scorso anno decidemmo di dedicare il primo numero della rivista della Fondazione Nenni, L’articolo1, alla crisi greca. A quel tempo un divorzio veniva annunciato, in alcuni casi anche sollecitato. Un anno dopo, il divorzio c’è stato da tutti temuto, da molti non voluto eppure avvenuto. In quella occasione provammo a capire i problemi dell’Unione Europea provando a capire cosa non funzionasse in quel sistema politico. Provammo anche a definirlo. Per compiere questa operazione ci rivolgemmo al professor Antonio Agosta, docente di scienza politica e sistemi politici comparati all’università RomaTre. Nella chiacchierata vennero fatti molti accenni alla Gran Bretagna e al referendum che si è svolto ieri. Quell’intervista riletta oggi, a cose avvenute, acquista anche più valore. Ecco perché abbiamo pensato di riproporla.

Professor Agosta, la crisi dell’integrazione europea di cui la vicenda greca è stata il detonatore pone una questione particolarmente rilevante per chi come lei studia i sistemi politici. Perché l’interrogativo che si pone obbligatoriamente rispetto a gran parte di quello che è avvenuto negli ultimi mesi riguarda proprio la definizione di questo stato sovranazionale chiamato Unione Europea. Se la sente di azzardarne una?

“Il quesito mi riporta immediatamente alle riflessioni di uno studioso olandese, Arend Lijphart che diede alle stampe il medesimo libro in due diversi momenti e versioni, nell’84 e nel ’99. Nel secondo esaminava trentasei democrazie stabili e a questo panorama aggiungeva un elemento nuovo, l’Unione Europea”.

E alla fine dell’esame, come definiva l’Unione?

“Liiphart divideva le democrazie analizzate in due modelli. Il primo basato sull’immediatezza delle decisioni, con un forte governo, semmai con una investitura diretta come l’elezione del presidente (gli Stati Uniti, ad esempio), o con sistemi elettorali che facilitano la creazione di maggioranze parlamentari (il caso tipico è quello britannico). Questa forma di democrazia immediata non casualmente è chiamato Modello Westminster. Poi c’è il Modello Consensuale tipico di quei paesi che utilizzano leggi elettorali proporzionali. Si è pensato lungamente che questo secondo modello sia meno efficiente. Lijphart ha contestato questa valutazione sostenendo che alla lunga le decisioni adottate in questo tipo di democrazia sono più efficaci: hanno bisogno di maggior tempo per essere adottate ma sono più solide perché condivise. E’ il modello di democrazia normalmente adottato dai paesi multi-etnici o multi-linguistici, dove, cioè è difficile che una maggioranza prevalga o dove il prevalere di una parte finirebbe per creare pericoli”.

Gli esempi europei più classici sono la Svizzera e il Belgio.

“Esatto. Con un mio giovane ricercatore, Daniele Maglie, abbiamo proprio studiato la nascita e l’evoluzione dei sistemi proporzionali arrivando alla conclusione che a quella scelta quei due paesi non sono arrivati casualmente. Nell’analisi di Lijphart, però, la novità era rappresentata dal trentasettesimo caso preso in esame, cioè l’Europa che lui indicava come un modello ideale di democrazia consociativa, sottolineando, al contrario di quanto sostengono molti politologi, che questo non è un modello debole di democrazia. A parere dello studioso olandese, non ci sono democrazie deboli ma modelli che rispondono a concrete situazioni. In sostanza quando i paesi sono omogenei, il modello maggioritario può essere realizzato senza particolari problemi o preoccupazioni. Ma laddove la scelta maggioritaria può creare conflitti o risentimenti è meglio puntare su un sistema in cui tutti sono messi nelle condizioni di partecipare alle decisioni”.

Ma l’Europa è ancora il modello ideale illustrato da Lijphart?

“Questo è il punto. La mia impressione è che l’Europa non sia più quel modello di democrazia “mite e serena” di cui Lijphart parlava. Il fatto è che per accelerare il processo di unificazione si è fatto ricorso allo strumento della moneta unica che si è rivelato un fattore di deviazione perché ha creato delle unioni all’interno dell’Unione o, se vogliamo, delle disunioni all’interno dell’Unione, ad esempio tra chi fa parte del club dell’euro e chi ne è fuori. La stessa moneta di fatto viene amministrata al di fuori dell’Unione. Il 2 marzo del 2012 fu adottato il “fiscal compact” (formalmente il trattato sulla stabilità, coordinamento e governance nell’unione economica e monetaria) che fu considerato come uno dei più importanti stati d’avanzamento del processo di integrazione. Lì è contenuta la regola che fissa il vincolo del tre per cento del deficit pubblico rispetto al Pil. E’ un trattato a cui aderiscono venticinque delle ventotto nazioni. Lo stesso Parlamento Europeo esprimeva delle critiche ma non fu in grado di esprimersi direttamente con un voto anche se poi lo fece in maniera indiretta attraverso una mozione. Il fiscal compact non è dentro la costruzione europea, è qualcosa che si colloca a lato proprio perché non viene accettato da tutti. Conseguenza: sono state prodotte delle norme al di fuori dell’Unione che governano una parte dell’Unione. A questo punto è inevitabile la domanda: siamo sempre dentro il modello illustrato da Lijphart in cui tutti hanno voce in capitolo e, soprattutto, i necessari strumenti per amplificarla? Oppure chi ce l’ha più stentorea ha più possibilità di farsi ascoltare? Il coro che ne vien fuori non è propriamente intonato: una voce ce l’ha l’Unione, un’altra voce ce l’ha la Banca Centrale Europea che nel frattempo sta cercando di costruire intorno alla moneta organismi più stabili”.

La moneta sembra essere il punto centrale di tutto…

“La moneta è il frutto di uno stato sovranazionale. Noi, invece, stiamo creando ancora quello stato sovranazionale ma nel frattempo abbiamo posto la moneta come premessa. La moneta, a sua volta, non è quella di tutto lo stato sovranazionale che vorremmo creare. Il fatto è che non si sa più che tipo di modello istituzionale stiamo costruendo o abbiamo intenzione di costruire. Il “fiscal compact” viene considerato un accordo così centrale rispetto alla costruzione europea che chi lo ispira ha richiesto che venga adottato da chi vi aderisce al massimo livello giuridico tanto è vero che l’Italia lo ha inserito nell’articolo 81 della Costituzione. Il Parlamento europeo, a sua volta, ha espresso chiaramente la sua contrarietà nei confronti di queste forme di irrigidimento normativo. Il Parlamento, però, non ha voce sul “fiscal compact” e il patto, peraltro, non è materia dell’Unione Europea visto che non tutti vi aderiscono. Il fatto è che su tutta la materia europea oggi sembrano dominare le contraddizioni. Ad esempio: da un lato si cerca di accelerare il processo di integrazione battendo una sola moneta, dall’altro questa spinta sollecita il risorgere dei nazionalismi, dall’altro ancora all’interno di questa area si formano maggioranze e opposizioni che nel modello europeo non sarebbero contemplate. Da un lato diciamo che l’Europa è in crisi a causa delle economia di paesi in difficoltà come la Grecia, il Portogallo, la Spagna, l’Irlanda, la stessa Italia, dall’altro, però, taciamo sull’adesione all’euro di paesi come la Lituania o la Slovacchia ed altri ancora che hanno economie debolissime. La confusione è tale che dovremmo fermarci per definire meglio l’obiettivo. Chi crede nell’integrazione in maniera fideistica, indica una sola soluzione: l’accelerazione del processo, anche a costo di perdere per strada qualche vagone. Ma i vagoni potrebbero essere piuttosto ingombranti: tra un anno, non dobbiamo dimenticarlo, si svolge il referendum in Gran Bretagna. Se noi procediamo verso una integrazione sempre maggiore della zona euro, cosa peraltro nella logica delle cose, allora dovremmo, insieme alla moneta comune, anche dare vita a strumenti di governo comuni. Ma qui entra in ballo un’altra contraddizione: dopo aver cercato di ampliare sempre di più i confini dell’Europa, aver spinto per l’allargamento, ora ci convertiamo a una politica di restrizioni che rischiano di mettere alla porta non solo la Grecia ma anche la Gran Bretagna. Siamo in presenza di una zona europea che si sta unificando su dati di fatto ma non su una prospettiva architettonica chiara. Si sta gestendo il giorno per giorno. Stiamo costruendo una Europa che non è tecnicamente una Unione Europea ma una unione economica e monetaria, che è il prodotto di un patto tra privati, una sorta di circolo in cui alcuni si sono creati una cassa a parte. E allora mi chiedo: ma è la Gran Bretagna che è fuori o siamo noi che la stiamo mettendo alla porta? E, mi domando ancora, quale sarà lo scenario tra un anno? Può accadere che la Gran Bretagna abbandoni la sua posizione economico-finanziaria autonoma, si sganci dall’amatissima sterlina e tramite il referendum decida di aderire all’euro ma può anche accadere che di fronte a una moneta europea che non sta offrendo di sé una immagine particolarmente affidabile, i britannici decidano di restare autonomi e abbandonare del tutto l’Unione. L’euro è stata una grande e ambiziosa costruzione ma si è nel tempo trasformata in una altrettanto grande complicazione. Qui non si tratta di mettere in discussione l’Europa o di esprimere una sorta di atto di fede nei confronti dell’integrazione accelerandone i tempi. Non si fa peccato a discutere dell’Unione perché solo discutendo riusciremo a capire cosa stiamo facendo e dove vogliamo andare. La realtà è che oggi non sappiamo se l’Europa è a ventotto o a diciotto o soltanto a due. Peraltro, abbiamo dimenticato che questo dibattito si sviluppa a un anno dalle elezioni europee del 2014”.

Perché questo riferimento?

“Il motivo è molto semplice. Le elezioni del 2014 hanno dimostrato due cose. In primo luogo, l’Europa agli occhi dei cittadini-elettori conta sempre di più, alcuni la odiano, altri la amano, nessuno, però, può prescindere dal fare riferimento a quella entità istituzionale. Si tratta di una grande novità visto che per anni le Europee sono state considerate elezioni di secondo ordine, un po’ come quelle di medio termine statunitensi: servivano per saggiare la tenuta di un governo ma sempre in riferimento al quadro nazionale. A partire dal 2014 non è più così: l’Europa acquista una rilevanza in sé. E qui arriva la seconda rivelazione. Appaiono sulla scena gli euroscettici che non sono un blocco unico, granitico, ma sono di due tipi. Da un lato ci sono i nazionalisti che sono preoccupati dal fatto che l’Europa cresca troppo annacquando le identità nazionali e che, contemporaneamente, sia troppo debole per difendersi dalle pressioni esterne. Il leader degli euro- scettici olandesi sostiene che i guai del suo paese dipendono dalla libera circolazione che ha consentito agli europei con diverso passaporto di stabilirsi nei Paesi Bassi acuendo problemi come la criminalità. In più, l’Europa a suo parere non avrebbe difeso efficacemente i propri confini diventando vittima dell’immigrazione che parte dalle sponde meridionali del Mediterraneo. In sostanza, a parere di questo leader politico l’Olanda è invasa dai comunitari di diverso passaporto e dagli extracomunitari che sono sicuramente di diversa etnia. Poi, però, c’è un’Altra Europa che proprio affidandosi a questo slogan in occasione delle Europee si è aggregata sotto le bandiere di Tsipras il quale sostiene che questa Unione schiacciata sotto il peso dell’austerità corre verso la disintegrazione. Questo filone euroscettico è preoccupato dalla perdita non dell’identità nazionale, ma da quella dell’identità sociale, dai diritti sul lavoro indeboliti, dalle povertà in aumento (si parla di ottanta milioni di persone prossime o totalmente dentro questa condizione), dall’abbandono di un modello sociale che è stato in qualche maniera il tratto caratterizzante delle democrazie europee. Insomma, due modi diversi di contestare il governo europeo. E torniamo così a Lijphart: la sua democrazia mite e serena in questo contesto rischia di saltare. Qui il problema non è più il ritardo o il blocco del processo di integrazione, il problema è l’esistenza stessa dell’Unione Europea e la decisione di interrompere l’esperienza dell’euro avrebbe dal punto di vista economico effetti disastrosi.

Si potrebbe dire: impossibile divorziare ma difficile anche rimanere insieme.

“Più o meno le cose stanno così. E’ difficile divorziare perché è veramente complicato accordarsi sulla divisione del patrimonio. Ed è difficile stare insieme perché i contratti matrimoniali sono stati costruiti su piani diversi, alcuni sono ufficiali altri sono morganatici. E il nodo è rappresentato dalla Gran Bretagna, dalla Danimarca e anche dalla Polonia. Tutto si risolverebbe se decidessero di entrare nell’euro. Però non è detto che sia così.

E poi c’è anche il problema delle politiche di austerità, da alcuni imposte e da altri subite.

“La posizione contraria del Parlamento Europeo non conta nulla perché a questa linea hanno aderito singolarmente le nazioni. Apro una parentesi: quando parliamo di Troika parliamo della quintessenza dell’Unione nella versione economico-monetaria. E’ composta dalla Commissione Europea guidata da Jean Claude Junker, cioè dall’Unione Europea, dalla Bce, che rappresenta di- rettamente il governo di una moneta comune a diciotto stati su ventotto, e dal Fondo Monetario Internazionale il cui raggio d’azione travalica i confini dell’Europa. Siamo, insomma, sul terreno di una governance legittimata dalle istituzioni della finanza. Poi, ci sono soggetti che a questa governance partecipano, come dire, ad personam: la Merkel, ad esempio, chi rappresenta? L’Europa? Impossibile visto che c’è già Junker. Ma siamo proprio convinti che si possa andare lontano senza i britannici o senza un accordo che indichi con chiarezza quanto pesano le voci di ciascun membro dell’Unione? Per motivi anche generazionali, non posso essere contrario all’Europa. Ciò non toglie che in un recente dibattito organizzato dalla Fondazione Sturzo mi sia trovato in disaccordo con chi sosteneva che la soluzione del problema è nella cessione di ulteriori porzioni di sovranità. Ma noi di sovranità ne abbiamo ceduta veramente tanta. In realtà qui prevale la democrazia del mercato ed è il mercato che detiene la vera sovranità. Poi in questa visione economicista si sviluppa lo scontro tra la corrente ordo-liberista che fa capo alla Germania e quella keynesiana che si mostra sempre più perplessa nei confronti di una austerità che produce sterilità. Siamo avvolti in una nuvola di confusione e l’unico modo per uscirne è prenderne atto e non fare finta che quello che facciamo sia il prodotto di una procedura europea. La riflessione allargare l’orizzonte della discussione, non dobbiamo limitarci a un paio di scarne alternative: a favore o contro l’Unione, a favore o contro la cessione di altri pezzi di sovranità. Questi vincoli che già Romano Prodi definiva stupidi non sono il frutto di uno studio, non sono il frutto di una approfondita analisi della malattia che ci affligge. I fatti ci dicono che sono state adottate terapie sbagliate, predisposte da medici non autorizzati o autorizzati solo da uno stato di necessità cioè l’esistenza di una moneta unica che non accelera l’integrazione ma rischia di affondarla. Molte delle opinioni critiche nei confronti della validità del processo che ci ha portato all’euro andrebbero seriamente meditate. Al punto in cui siamo, non si tratta più di schierarci, ma di riflettere.

fondazione nenni

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