Dibattiti, l’Italia di San Valentino e quella di oggi     

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Quale lezione consegna all’Italia di oggi quella vicenda ormai lontana trentadue anni. Per Franco Marini e Giorgio Benvenuto non vi sono dubbi: la necessità di ricostruire un sindacato unitario. Per Carlo Callieri l’esigenza di adeguare le strutture decisionali dello Stato ai tempi di un mondo sempre più veloce. Per Graziano Tarantini l’urgenza di frenare la spinta verso un individualismo che non riuscirà mai a risolvere i problemi dell’uomo. Per Fausto Bertinotti l’obbligo di guardare al di là dei decimali per affrontare e risolvere la questione della civiltà del lavoro. Riuniti a un tavolo dopo tre decenni solo che questa volta sono tutti dalla stessa parte cioè davanti a un folto pubblico che li ha seguiti con attenzione perché in quei discorsi c’era un’aria antica: quella del confronto politico-economico-sindacale costruito sulle analisi e sulle idee e non sugli slogan.

L’occasione è stata la presentazione, avvenuta ieri, 16 aprile, della seconda edizione del libro di Giorgio Benvenuto e Antonio Maglie “Il divorzio di San Valentino. Così la scala mobile divise l’Italia”. Edito dalla Fondazione Bruno Buozzi, il libro è stato arricchito con documenti inediti e con una analisi del professor Antonio Agosta, docente di scienza politica e sistemi politici comparati alla Terza Università di Roma. Il dibattito che si è svolto nella sala del Trono del bellissimo Palazzo Altieri a Roma, è stato promosso dall’Associazione Nazionale fra le Banche Popolari e dalle Fondazioni Nenni e Buozzi. Costruito in questa seconda edizione in due volumi, il libro è stato curato graficamente da Marco Zeppieri che, alla fine del dibattito, ha spiegato le sue scelte sottolineando in particolare che essendo i capitoli dei piccoli racconti che si possono leggere isolatamente, ha cercato di trasferire a livello editoriale l’impostazione che caratterizzava i film a episodi della grande tradizione cinematografica italiana.

Al confronto durato oltre due ore hanno partecipato l’ex presidente della Camera, Fausto Bertinotti, all’epoca segretario confederale della Cgil, Franco Marini, ex presidente del Senato, all’epoca dei fatti segretario generale aggiunto della Cisl, Carlo Callieri, ex vice-presidente della Confindustria, Graziano Tarantini, presidente della banca Akros, ed Enzo Russo, docente di scienze delle finanze. Il dibattito è stato concluso da Giorgio Benvenuto, presidente delle Fondazioni Nenni e Buozzi e all’epoca dei fatti segretario generale della Uil. A coordinarlo ha provveduto Alessia Potecchi che nella sua introduzione, dopo aver sinteticamente illustrato i contenuti del libro, ha auspicato la rinascita di “un sindacato forte e propositivo come allora” perché le condizioni del paese ci ci obbligano “a giocare tutti una partita d’attacco”. A distanza di anni, le diversità interpretative, pur stemperate e senza accentuazioni polemiche, sono emerse con una certa chiarezza ma sempre rinviando alla realtà attuale.

Fausto Bertinotti ha ad esempio concluso il suo intervento affermando che in questo momento “piuttosto che occuparsi di decimali dovremmo occuparci della crisi della coesione sociale e della civiltà del lavoro”. Nel riproporre il suo giudizio negativo sulla vicenda che si chiuse la sera del 14 febbraio 1984 con il decreto (firmato da Bettino Craxi) con il quale venivano tagliati quattro punti di scala mobile (poi diventati tre), e poi proseguita l’anno dopo con il referendum voluto dal Pci e in particolare da Enrico Berlinguer, Bertinotti ha ricostruito il quadro storico, il “prologo” come lo ha chiamato: i fermenti che caratterizzarono gli anni a cavallo tra i Sessanta e i Settanta. In particolare il 68-69 quando irrompono sulla scena sociale lo studente massa e l’operaio comune. Una fase definita “come l’ultima prova in cui il Novecento continua la sua corsa non considerando il capitalismo come la tappa finale”. Un sussulto “con il piombo nelle ali”, cioè la fine traumatica della Primavera di Praga e dell’idea di una riforma dei sistemi dell’Est. Per Bertinotti il ’68 in Italia dura molto più che in Francia perché il sindacato accetta di farsi contaminare da quel movimento e facendosi contaminare vara l’unica riforma sociale di questo paese, il sindacato dei consigli dove vige la democrazia diretta. Si consolidano in quel periodo grandi conquiste: lo stato sociale, con lo Statuto “la democrazia varca i cancelli delle fabbriche”, i salari crescono (nel ’75 sono i più alti d’Europa).

Ma queste conquiste, sostiene Bertinotti, rappresentano un momento di crisi per il processo di accumulazione. Di qui la controffensiva favorita anche da un clima mutato, a cominciare dall’avvento in Gran Bretagna di Margareth Thatcher e in America di Ronald Reagan che con due vertenze simbolo (i minatori e i controllori di volo) spiegano che è chiusa la fase della contrattazione. In Italia la situazione di blocco fa emergere proposte di compromesso, quello “storico” di Berlinguer e quello più elaborato e complesso di Aldo Moro. Si allinea su questa strada anche il sindacato che elabora la proposta dell’Eur che a parere di Bertinotti trova la perfetta illustrazione in una immagine del sindacato fornita da Bruno Manghi: “Decrescere crescendo”. In sostanza, il sindacato avrebbe ceduto potere contrattuale per aumentare la sua posizione di tipo istituzionale. Per Bertinotti sono le condizioni che, passando per la concertazione interpretata come uno strumento di perenne validità, portano alla disfatta attuale. In questo quadro finisce sotto accusa la scala mobile.

Nel sindacato la democrazia viene meno, torna a crescere il ruolo delle Confederazioni. Il tutto accompagnato da una accentuazione autoritaria con Craxi che “interpreta questo nuovo corso”. Una spinta che comincia allora ma prosegue, sottolinea Bertinotti, sino ai giorni nostri. Il conflitto viene messo in mora, il salario deve rispettare le compatibilità economiche, le decisioni devono essere veloci. A questa deriva si oppone “quel che resta di un popolo”. E si oppone Berlinguer nel momento in cui comprende che la partita è persa e che la controparte chiede una mutazione genetica per favorire l’ integrazione nel sistema. A quel punto, il segretario del Pci si chiama fuori “torna alle radici con una certa indifferenza per il risultato ma in ragione di un primato etico-morale” della memoria. La sintesi finale è: “Meglio una sconfitta combattendo per le ragioni per cui sei nato, piuttosto che la rinuncia a farlo per essere riconosciuti da una società a cui si chiede di essere integrati”. E ai compagni di quel viaggio, sistemati su posizioni differenti, Bertinotti chiede di riconoscere che “le ragioni di quella battaglia furono falsificate”. Perché? Perché quell’accordo non ha aperto spazi alla contrattazione aziendale né ha aumentato il potere contrattuale del sindacato: “Lo scambio è stato iniquo”.

La pensa diversamente Franco Marini che sottolinea come il sindacato dei consigli fosse portatore di una idea unitaria irrealizzabile soprattutto per le contraddizioni presenti nella Cgil. E ricorda che in due congressi della Cisl, nel ’73 e nel ’77 lui fece una battaglia su quelle posizioni di fatto impedendo che l’unità si realizzasse. A quarant’anni di distanza, però, afferma che “la complessità delle situazioni” obbliga il sindacato a riflettere perché “ci sono tutte le condizioni per rifare l’unità”. Spiega come al liberismo arrembante avrebbe preferito “la contrapposizione di uno Stato che garantisse alcuni diritti delle persone”. E citando Paolo VI e i suoi riferimenti alla mondializzazione e alla delocalizzazione delle produzioni, difende le scelte di allora: “Dovevamo capire che non potevamo restare come eravamo”. Occasioni mancate e occasioni perdute perché oggi l’Italia è ferma e il problema è quello di allora: la produttività. Spiega perché concorda con la spinta verso le riforme sostenuta da Matteo Renzi: “Vanno fatte perché altrimenti non ci muoviamo”.

Ricorda come in quegli anni Ottanta sia stato l’economista Ezio Tarantelli, poi ucciso dalle Br, a convincere Pierre Carniti a lanciare la proposta della predeterminazione degli scatti della scala mobile, proposta che aprì la strada all’epilogo di San Valentino. E aggiunge: “San Valentino fu forse una sconfitta per tutti. Potevamo fare meglio. Però ricordo che Lama subì quella scelta della Cgil. Si ritrovò isolato, non solo rispetto a Garavini che era il più a sinistra ma anche rispetto a Trentin e venne condizionato soprattutto dalla scelta di campo di quest’ultimo”. Spiega ancora: “La proposta di Tarantelli era sacrosanta anche perché lasciava spazio, entro un certo periodo di tempo, di verificare gli obiettivi e di contrattare eventualmente un certo recupero salariale”. Pensando all’oggi dice: “La contrattazione aziendale deve rappresentare la parte più rilevante del salario perché è lì che ti contratti la produttività e recuperi anche il rapporto con i lavoratori”.

Di tono apertamente critico verso la sinistra che non consentì l’accordo ovviamente Carlo Callieri. Chiaro il suo bersaglio: “Il ’68 per me è qualcosa di diverso da quel processo palingenetico illustrato da Bertinotti”. E ancora: “Ho sempre diffidato delle masse, la massa è un oggetto oscuro che si anima delle peggiori intenzioni”. Insomma, dal suo punto di vista non è mai esistito l’operaio-massa né lo studente-massa. Spiega che l’Italia degli anni Settanta era industriale ma con forti tradizioni agro-pastorali. Contesta al Movimento studentesco di quei tempi la mancanza di quelle radici culturali che “ti fanno distinguere i valori fondamentali” perché “l’uguaglianza è nei diritti, nelle opportunità” ma non nell’appiattimento. Accusa la sinistra di avere responsabilità enormi relativamente ai ritardi del Paese sulla strada della modernizzazione, ritardi che riemergono anche ora, in occasione del referendum sulla revisione costituzionale: “La riforma è perfettibile ma o è o non è il momento per cambiare? La sinistra italiana più estrema continua a comportarsi come nel passato, come se l’Italia fosse una provincia autarchica e non integrata nel mondo che richiede velocità di decisioni. Adeguarsi non è un tradimento di principi ideologici ma solo buon senso. Bruno Trentin era un ideologo spesso però aveva buon senso e con quello riusciva a trovare soluzioni”.

Graziano Tarantini ha ritrovato nella ricostruzione di quella storia molti elementi che rinviano all’attualità. Sottolinea come quel referendum sulla scala mobile abbia rappresentato una sconfitta per i corpi sociali attribuendo alla politica il ruolo di unico decisore: una tendenza che si è accentuata nel tempo obbligandoci a capire “se questo declino aggiunge efficienza al sistema oppure determina impoverimento”. E quale sia il suo pensiero lo si capisce nel momento in cui facendo accenno alla riforma delle Banche Popolari sottolinea come un semplice decreto abbia oscurato 150 anni di storia. E conclude: “Non tutto ciò che è passato è un ferro vecchio”. Accennando a un passaggio del libro in cui si accenna alla necessità di definire un nuovo modo di stare insieme, sottolinea: “Uno dei fattori essenziali per la convivenza è la fiducia, ma la fiducia è uno dei fattori che negli ultimi tempi è stato più radicalmente compromesso”. E questa difficoltà a stare insieme è stata colmata con una “overdose di normative e di regole”. Ciò non toglie che alla fine nell’alternativa “tra io e la comunità la risposta è l’individualismo”, con “l’altro che viene vissuto come una minaccia per il mio benessere. E più ci si rifugia nell’individualismo e più aumentano le regole per tenere sotto controllo l’altro che è un nemico”. Il problema è per Tarantini una questione di educazione: “Secondo l’individualismo la felicità è nell’accumulo ma l’accumulo non potrà mai risolvere il problema dell’uomo”.

L’economista Enzo Russo ha provveduto a delineare il quadro storico-economico della vicenda partendo da una premessa: “In Italia ogni questione tecnica diventa una questione di civiltà”. Una notazione critica per partire dal ’75, l’anno da cui comincia il libro con Franco Modigliani che di fronte all’accordo sul punto unico parlava di “anno della follia” e Guido Carli che lo definiva “anno orribile”. “Ma quell’accordo doveva servire a tenere sotto controllo le tensioni che spingevano verso l’alto la conflittualità nelle fabbriche. Funzionò perché servì a raffreddare il clima. Così come funzionò San Valentino”, sottolinea Russo. Che poi aggiunge: “La scala mobile è uno strumento interno alla politica dei redditi”. Sottolineando la contraddizione che ha caratterizzato la vita italiana nel dopoguerra: la politica non è mai stata di tutti i redditi perché alla fine profitti e rendite sono rimasti sempre fuori. Racconta l’economista: nel ’71 finisce il sistema dei cambi fissi; nel ’73 si scatena la guerra dello Yom Kippur e arriva lo choc petrolifero. Nonostante tutto “il sindacato ha la forza di difendere il potere di acquisto”. E ricorda come nel ’74 le diseguaglianze nella distribuzione del reddito in Italia calino del dieci per cento. Ma in quell’anno comincia a volare il tasso di inflazione (14 per cento); l’anno dopo scoppia la recessione e La Malfa e Giolitti litigano sul modo di intendere l’austerità. Nel ’76 viene sospesa la quotazione della lira: il Paese entra in una fase di grande difficoltà valutaria e chiede un prestito alla Germania che lo concede ma chiede in garanzia il nostro oro. Nelle elezioni di quell’anno il Pci vince, la lira si deprezza del sedici per cento e l’inflazione sale del 17. Il guadagno che le aziende italiane ottengono dal punto di vista della competitività determina un aumento del Pil del 6,6 per cento. Poi nel ’79 nuovo choc petrolifero e inflazione che progressivamente schizza verso il venti per cento. In quel contesto Ezio Tarantelli propone la predeterminazione degli scatti di scala mobile: “E’ una scelta tecnica non di civiltà”. Russo sottolinea: “Il sindacato è autorità di politica monetaria”. Semplice il motivo: perché contratta i salari. E, sottolinea l’economista, “nei paesi democratici i salari sono affidati alla libera contrattazione delle parti, in quelli comunisti li decideva lo Stato”. Conclude: “Oggi siamo in una situazione per cui i governi o i sindacati non accettano questo ruolo”.

La ridefinizione di un nuovo contratto sociale nel segno dell’articolo 1 della Costituzione (“l’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro”) viene auspicato da Antonio Maglie in un momento in cui il Paese è sottoposto a spinte centripete che mettono a dura prova la stessa idea di collettività regolata e autoregolata. Ma la ridefinizione del “contratto” deve avere soprattutto un obiettivo: la lotta contro la disoccupazione. Qualcosa che richiama la condizione attuale a quella dell’immediato dopoguerra quando Riccardo Lombardi, all’epoca segretario del Partito d’Azione, sferzava Alcide De Gasperi e il suo governo dicendo che con la povertà lasciata dal conflitto il suo non poteva essere un esecutivo di ordinaria amministrazione. Soprattutto non poteva esserlo di fronte a due milioni di disoccupati e, in un discorso alla Costituente del luglio 1946, concludeva che se quella scommessa non fosse stata vinta, l’Italia avrebbe perso. Oggi con sei milioni di persone senza lavoro o che cercano lavoro e non lo trovano o non lo cercano neppure perché si sentono condannate alla dannazione eterna della disoccupazione, i termini della questione sono analoghi: o si vince la scommessa o nessuno, né governo né sindacati, potranno considerarsi vincitori.

Nelle sue conclusioni Giorgio Benvenuto, facendo accenno all’analisi dei flussi elettorali elaborata da Antonio Agosta, ha sottolineato come quel voto ebbe nel Sud un carattere di protesta. Ma ricordando quei giorni, l’allora segretario generale della Uil aggiunge che, dopo la lettura dei commenti rilasciati ex post da molti dirigenti comunisti, “è lecito chiedersi come non sia stato possibile trovare una strada per evitare il referendum”. Sottolinea Benvenuto: “Su questa vicenda della scala mobile l’Italia perse troppo tempo. Impegnati in questa lunga battaglia, abbiamo finito per non vedere o per trascurare quello che stava accadendo nel mondo e non abbiamo capito i fatti che accaddero successivamente come il crollo del Muro di Berlino”. C’è poi un altro motivo di amarezza: “Furono poste allora le basi per riforme che non sono state più fatte”. E pensando alle attuali difficoltà delle Confederazioni, il presidente delle Fondazioni Nenni e Buozzi dice: “Il sindacato è ineliminabile. Nel ’69 eravamo pesantemente contestati. A Mirafiori i giovani operai attaccarono uno striscione chiarissimo: Il sindacato è morto. Eppure riuscimmo a modificare la situazione: da soggetto contestato diventammo soggetto che contestava, ci trasformammo, innovammo, assumendoci tutte le responsabilità”. Dall’unità alla divisione: e ora? “Un tempo le distinzioni erano tra sigle, adesso sono tra lavoratori. Oggi la battaglia per l’unità non può riguardare solo le sigle ma deve riguardare la coesione”.

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