Se il referendum non piacesse a Bergoglio?

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-di ANTONIO MAGLIE-

Com’era prevedibile, i contrari alla legge sulle Unioni Civili hanno deciso di affidare le loro speranze di rivincita alla consueta arma letale: il referendum. Nella immagine di gruppo per televisioni e fotografi, c’erano tutti: Lucio Malan e Maurizio Gasparri di Forza Italia a braccetto con Nicola Molteni e Gian Marco Centinaio della Lega Nord e con Fabio Rampelli ed Edmondo Cirielli di Frateli d’Italia, divisi sul Campidoglio ma “uniti nella lotta” per la conquista del voto cattolico più integralista; e poi Gaetano Quagliariello e Carlo Giovanardi sicuro di poter contare in una consultazione sull’ottanta per cento dei consensi degli italiani. A dir la verità i sondaggi dicono che la maggioranza (il 52 per cento, secondo una rilevazione compiuta da Ipsos per il “Corriere della Sera” nei giorni turbolenti ma non lontani del dibattito al Senato) è favorevole al provvedimento depurato della stepchild adoption. Ma Giovanardi a volte confonde la realtà con le sue impressioni, come avvenne in occasione della famosa foto in cui la testa del povero Aldrovandi era circonfusa di rosso: sangue, a parere della madre, un cuscino, secondo la sua personalissima valutazione.

Non è la prima volta che la “sirena” del referendum ammalia i settori della politica che si sentono depositari della “purezza” cattolica. Avvenne agli inizi degli anni Settanta quando Gabrio Lombardi e Luigi Gedda portarono Amintore Fanfani e il paese alla sfida sul referendum: persero clamorosamente. Qualche anno dopo lo strumento venne utilizzato da Carlo Casini e dal “Movimento per la vita” sulla questione della regolamentazione dell’aborto. Si attivò in maniera massiccia Giovanni Paolo II che alzò per la prima volta la sua voce il 22 marzo del 1981, a piazza San Pietro, davanti a venticinquemila fedeli. Ancor più duramente intervenne un paio di settimane dopo suscitando a quel punto le ire dei socialisti e dei laici che risposero prefigurando conseguenze sul Concordato. Non si fermò e il 10 maggio, davanti a settantamila persone e a una folta rappresentanza di militanti del “Movimento per la vita” alzò il livello delle sue accuse: “La Chiesa considera ogni legislazione favorevole all’aborto provocato come una gravissima offesa dei diritti primari dell’uomo e del comandamento non uccidere”. Nelle urne ai cattolici andò peggio di sette anni prima e i rapporti tra il Papa e la Dc divennero piuttosto aspri.

Ma se Paolo VI, pur più prudente di Gedda e Gabrio Lombardi, lasciò fare, e Giovanni Paolo II non solo lasciò fare ma partecipò attivamente, questa volta le prime reazioni della Chiesa, che pure ha avuto atteggiamenti scomposti in questi mesi, non sembrano offrire troppe sponde ai “devoti” e agli “atei devoti” che inalberano le insegne religiose con un occhio rivolto al tornaconto elettorale. Non sembra esserci una gran voglia di alimentare una “guerra di religione” in un momento in cui le religioni vengono strumentalizzate (dall’Isis, ad esempio) per alimentare conflitti veri e sanguinosi. Soprattutto non sembra esserci in Vaticano un Papa disposto a organizzare una “crociata” su una questione che può essere affrontata in maniera più silenziosa, misurata e diplomatica. E’ il messaggio che sembra emergere dalle parole di Gianfranco Ravasi, presidente del Consiglio della Cultura del Vaticano, il quale da un lato ha sottolineato che lo Stato fa “scelte che sono proprie” e dall’altro ha invitato il governo e il Parlamento a non dimenticare la famiglia.

Ma le parole più significative sono arrivate dal giurista Francesco D’Agostino che dalle colonne del quotidiano “Avvenire” ha commentato così l’approvazione del provvedimento “Le possibilità di fare resistenza da parte di chi lotta per la famiglia possono essere diverse e utilmente creative. Pare altrettanto utile, però, segnalare con franchezza che non appaiono tali la prospettiva – evocata da alcuni – di una battaglia referendaria per abolire totalmente la nuova legge né quella di fare appello all’obiezione di coscienza di quanti saranno chiamati a registrare (non a celebrare, come qualcuno pretenderebbe) le unioni civili previste e regolate per legge”. L’impressione è che un Papa che
guarda al futuro (ha annunciato proprio oggi, 12 maggio, la creazione di una commissione per lo studio del diaconato femminile, una questione chiusa da un millennio e che Giovanni Paolo II aveva chiuso per il prossimo millennio) non abbia alcuna intenzione di concedersi un tuffo nel passato, un passato, peraltro, che non lo riguarda perché lui, a quell’epoca, era ancora nella sua terra, alla “fine del Mondo”.

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