La festa dell’Europa che non c’è più

-di ANTONIO MAGLIE-

Oggi, 9 maggio, sarebbe la Festa dell’Europa. Da qualche giorno circola sulle Tv uno spot, bello e rassicurante. Ma mentre un gruppo di intellettuali firma un appello che definisce una rotta per ritrovare una strada ormai smarrita da tempo, la domanda che inevitabilmente bisogna porsi è semplicissima: dov’è l’Europa? Se l’è posta anche Papa Francesco qualche giorno fa, proprio davanti a coloro che in questi ultimi tempi hanno fatto a gara per perdere di vista l’obiettivo contribuendo indirettamente alla crescita di quel “sentimento” anti-europeo carico di populismo, xenofobia e, diciamolo chiaramente, fascismo culturale (e non solo) che sta ammorbando più che le nostre vite, la nostra anima. La risposta il Papa l’ha fornita con una angosciata domanda: “Cosa ti è successo, Europa?” Già, cosa ti è successo. Visto che non sei più la patria plurale e allo stesso tempo più giusta rispetto agli Stati Uniti a cui ha fatto riferimento Obama, citato, non a caso, nell’appello in questione. E’ successo semplicemente che sei sparita, come le immagini della vecchia Roma ormai affidata a cartoline di qualche decennio fa: belle perché a volte sollecitano una certa nostalgia che immediatamente si trasforma in rimpianto perché quel passato immortalato su una carta ormai ingiallita non ritornerà più.


Dov’è l’Europa? E’ per caso nei campi maleodoranti e fangosi di Idomeni mentre nell’indifferenza generale pallottole di gomma vengono sparate contro persone indifese che cercano solo un varco verso un futuro se non migliore, almeno diverso da quello fatto di guerre e di stenti che non la sorte, cioè un Fato generico e anonimo, hanno loro assegnato, ma un più tangibile e identificabile desiderio di potenza degli uomini e delle nazioni?

Dov’è l’Europa? Nei mercanteggiamenti di Erdogan che usa i profughi come moneta di scambio giocandoseli nel suk dei negoziati internazionali con la Merkel più o meno come si fa con i tappeti davanti a un caffè alla turca in tanti angoli del Gran Bazar di Istanbul? Negli scontri di piazza Syntagma dove una Grecia dolente e ormai ridotta alla fame prova a lottare contro un’altra razione di povertà che la Bruxelles panciuta, rubiconda e ben vestita dei notai del rigore e dei notabili di un potere cieco, sordo e burocratico, impone senza capire che la miseria non produce ricchezza ma solo altra miseria?

Nelle leggi che parlano di lavoro più flessibile, velo ipocrita con il quale si prova a nascondere un lavoro sempre meno dignitoso, con poche regole, quasi niente diritti e voucher da quattro soldi? Nei paradisi fiscali dove fuggono i capitali sottratti al benessere di tutti noi, in cerca di anonima libertà? Nelle pieghe di sistemi tributari attraverso i quali stati che partecipano all’Unione fanno “sleale concorrenza” ad altri stati della stessa Unione? Nei fili spinati Orbàn, nell’egoismo nazionalistico carico di antico risentimento dei paesi dell’Est approdati all’Europa più per un atto di rivalsa verso quell’Impero sovietico scomparso ma ancora presente nei ricordi, che per una vera e convinta adesione ai principi ispiratori di quella costruzione? Nella distribuzione sempre più diseguale della ricchezza alimentata da politiche economiche e fiscali “appropriate”? Nel filo spinato del Brennero? Nelle piccole patrie dei Salvini, delle Le Pen, dei Farage, delle Petry, degli Strache? Nella paura del “diverso” che crescendo in noi quotidianamente ci porta a considerare un nemico anche il vicino di pianerottolo? Nei barconi che affondano nel Mediterraneo? Nelle inutili lamentazioni di chi nel vento dell’incertezza teme di perdere un piccolo pezzo del proprio benessere? Nella riscoperta della legge della giungla in cui la selezione è naturale e sopravvive solo il più forte e avido?

E’ solo qui che dobbiamo cercare l’Europa? Perché se è solo di questo che si tratta, allora è legittimo affermare che questa Europa fatta di monete e banchieri, di rifiuti, di povertà richiesta come segno di sottomissione al Potente, di “compiti a casa” valutati da egoisti e trinariciuti esaminatori, di chiusure e nuovi campi di concentramento non è la nostra Europa, quella in cui abbiamo creduto e che abbiamo voluto. Quell’Europa è ormai irrimediabilmente scomparsa: sopravvive solo il suo “nome” nei riti ufficiali, nelle genuflessioni davanti al Papa, nell’ascolto degli inni con una mano sul cuore e con l’altra sul portafoglio. Aspetteremo invano uno scatto di orgoglio e lentamente, come davanti alle immagini ingiallite di “Roma sparita” la nostalgia si trasfigurerà in rimpianto.

antoniomaglie

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