Fisco, riforme e prese in giro

-di ANTONIO MAGLIE-

Non c’è nulla di peggio per una classe politica che usare il fisco come strumento elettorale prospettando, contemporaneamente il ricorso a strumenti in voga già all’epoca del terremoto nel Belice (14-15 gennaio 1968).

Si tratta di una materia che andrebbe maneggiata con grande prudenza e accortezza vivendo in un paese ad alto livello di evasione (di queste ore la condanna di Renato Soru, parlamentare europeo Pd, patron di Tiscali: tre anni per aver nascosto 2,6 milioni alle casse dello Stato) e a scarsa fedeltà fiscale (le statistiche parlano di quattro italiani su dieci che aggirano gli obblighi e i sei che non lo fanno sono nella stragrande maggioranza connazionali con ritenuta alla fonte, lavoratori dipendenti e pensionati, cioè le categorie più maltrattate dai governi). Con l’approssimarsi della consultazione amministrativa ecco spuntare, come i funghi dopo un abbondante acquazzone, ipotesi di riforma e di “sconti”. Cominciamo dai secondi.

La tassa di circolazione è un balzello poco amato, più dell’abbonamento Rai perché a quest’ultimo almeno si può sfuggire (e in tanti sfuggono). Il governo presieduto da Matteo Renzi avrebbe in mente di abolirla. Solo che bisogna finanziarla. Come? Con un robusto aumento delle accise sulla benzina che, con effetto moltiplicatore, producono un positivo rimbalzo per le casse dello Stato anche sull’Iva. Si tratterebbe di un ritocco consistente, quindici centesimi. Dobbiamo rallegrarci? A prima vista sì ma a una analisi più meditata no. Facendo i conti della serva è evidente che tra accise e Iva alla fine chi usa un’auto media (diciamo una mille di cilindrata) per motivi di lavoro (e sono tantissimi perché i trasporti pubblici in Italia, soprattutto nelle grandi città come Roma, hanno livelli di efficienza più o meno simili a quelli ugandesi), alla fine dell’anno risparmierà meno di duecento euro per il “bollo” tagliato ma ne spenderà più di duecento in sovratassa sul “pieno”. Ovviamente qualcuno ci guadagnerà. Chi può permettersi auto lussuose da cinquanta, sessantamila euro in su che risparmierà sulla tassa di circolazione e avvertirà molto meno sul proprio portafoglio il peso della sovratassa “alla pompa” perché titolare rispetto agli italiani “medi” di un reddito (e semmai anche di un buon fiscalista) che gli consente una propensione al consumo decisamente maggiore. D’altro canto è noto a tutti: la tassazione diretta e progressiva può avere effetti redistributivi, quella indiretta no. Conclusione: una partita di giro. Anzi: molto peggio perché i meno ricchi finirebbero addirittura per finanziare il “regalo” ai più ricchi.

Nel suo settimanale sforzo autoelogiativo via web, il presidente del consiglio ha anche annunciato di voler mettere mano all’Irpef. Anche in questo caso servono quattrini. Ma soprattutto serve una idea chiara di cosa oggi sia il fisco in Italia: un sistema profondamente iniquo non tanto per gli scaglioni quanto perché in molti evadono potendo, poi, utilizzare a “sbafo” i servizi che altri, decisamente meno abbienti, pagano sino all’ultimo centesimo (e anche molto oltre). Allora, il primo punto di una riforma è proprio questo: come far pagare tutti, anche quelli che non hanno la ritenuta alla fonte. Il secondo punto riguarda la qualificazione realistica del reddito fatto in base a criteri pratici e non in teoria, cioè utilizzando i parametri del mercato rionale e non quelli dell’Istat che non bada tanto per il sottile e non si accorge se il pollo a testa che certifica viene consumato nella quantità doppia da un solo soggetto lasciando all’asciutto il secondo. Il governo vorrebbe concentrarsi sui redditi medi. Medi? Da 15 a 28 mila euro lordi? E da 28 a 55 mila altrettanto lordi? E’ evidente che siamo in presenza di una classe di governo che non è abituata a leggere le buste-paga. Cinquantamila lordi all’anno corrispondono al netto a poco più di trentamila e se quei trentamila li si divide su tredici mensilità diventano all’incirca 2.300. Le simulazioni sullo scaglione che si applica ai redditi tra i 15 mila e i 28 mila è ancora più sconfortante. Meglio non intristirsi.

Qui siamo ancora fermi all’ultimo governo presieduto da Romano Prodi che considerava alti i redditi (sempre al lordo) da 75 mila euro. Messa così la riforma fiscale assume i caratteri della presa in giro perché si cerca di redistribuire il carico fiscale non sull’intera platea dei contribuenti ma sempre e solo su quel sessanta per cento di italiani che hanno con il fisco un rapporto corretto e per i quali la progressività si sta trasformando da condizione di equità in garanzia di iniquità perché alla fine pagano sempre e soltanto loro: lavoratori dipendenti e pensionati.

antoniomaglie

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