Lavoro, i trionfi di Poletti

-di ANTONIO MAGLIE-

Colpito da un attacco di resipiscenza in occasione del 1° maggio, Giuliano Poletti ha deciso di vestire l’abito della festa di ministro del lavoro, ruolo che sembrava aver rinunciato a ricoprire per dedicarsi ad attività alternative. Il momento più giusto per stilare un bilancio dai toni estremamente rassicuranti. Poletti non ha dubbi: “Dopo un lunghissimo periodo di crisi che ha colpito duramente il lavoro e le imprese nel corso dell’ultimo anno l’Italia ha ripreso la strada della crescita. Grazie anche alle riforme promosse dal governo è cresciuta la fiducia delle imprese e delle famiglie, sono ripartiti gli investimenti, si sono risvegliati i consumi”. Per carità, se ci limitiamo alla valutazione del segno che precede il dato dimenticando il numero che indica la sostanza, il ministro ha ragione. La Confcommercio all’inizio di aprile ha spiegato che i consumi sono aumentati dello 0,3 per cento rispetto a gennaio. Cifra che ha indotto l’organizzazione dei commercianti, dunque non un trinariciuto ufficio studi di sinistra, a sottolineare che “il recupero resta piuttosto ridotto”.

La fiducia cresce? L’Istat nell’ultima rilevazione dipinge un cielo con qualche nube in più: ad aprile è diminuito quello delle famiglie (da 114,9 a 114,2) e quello delle imprese è aumentato in misura non sconvolgente (da 100,2 a 102,7); tutti gli indicatori relativi ai consumatori diminuiscono: dalla fiducia economica (calo da 142,7 a 140,5) a quella personale (105,7 a 104,8), da quella che riguarda il momento attuale (da 111,1 a 110,0) a quella che riguarda il futuro (da 120,6 a 120,2). Si può non essere pessimisti, ma non si può essere sperticatamente ottimisti. Come, invece, sembra essere il ministro che ci tiene a sottolineare che la crescita riguarda “soprattutto il lavoro”. E ha spiegato: “Abbiamo completato la riforma del lavoro. Ora dobbiamo dobbiamo attuarla pienamente per ampliare le opportunità  di lavoro, in modo da ridurre la disoccupazione e per favorire la crescita delle imprese sane e regolari, quelle che possono creare buon lavoro”. In effetti, in questa fase di grandi riforme di lavoro “buono” ne abbiamo creato tanto, ad esempio quasi un milione e mezzo di persone che vengono pagate con i voucher, uno strumento ormai utilizzato per stendere una sottilissima patina di ipocrita legalità su situazioni apertamente illegali.

E se poi vogliamo andare alla sostanza dei dati, non possiamo dimenticare che la disoccupazione è sicuramente calata ma è sempre a un livello (11,4 per cento) decisamente superiore a quello medio europeo; che man mano che la famosa riforma del lavoro viene attuata, i nuovi contratti stabili (a tutele crescenti e certezze decrescenti) aumentano sempre meno perché nel frattempo gli sgravi contributivi sono stati ridotti. Possiamo consolarci: la valanga è stata fermata, ma la neve  che è arrivate a valle non è stata ancora rimossa, cioè siamo decisamente lontani dai numeri pre-crisi e con una crescita del Pil stentata (0,8 contro l’1 per cento inizialmente previsto nel  2015) ci vorrà decisamente molto tempo per recuperare i posti di lavoro perduti nel corso degli ultimi otto anni. Gli sgravi aiutano molto gli imprenditori ma hanno effetti limitati se non accompagnati da una ripresa di quegli investimenti che da troppi anni ristagnano, se non coadiuvati da una vera politica produttiva e industriale capace di risolvere da un lato le grandi crisi (ad esempio quella dell’Ilva che tira in ballo anche drammatici problemi ambientali) e dall’altro di difendere e irrobustire l’italianità di quei pezzi del sistema che sono strategici per la nostra economia (come sottolinea Piketty quando si svende si attirano capitali stranieri ma si finisce per perdere due volte: dal punto di vista del Pil e da quello del reddito).

Poi a raffreddare un po’ gli entusiasmi del ministro sul fronte del lavoro, provvede anche l’istituto di statistica europeo, l’Eurostat che ci comunica che se da un lato è cresciuta la percentuale degli under 35 laureati che trovano lavoro entro tre anni dal conseguimento del titolo (57,5 nel 2015 contro il 52,8 del 2014; nel 2008, prima della crisi, eravamo però al 70,5), dall’altro siamo sempre lontani dalla media dell’Unione a 28 (81,8 per cento) e lontanissimi dai paesi più virtuosi come la Germania (93,3 per cento). In compenso siamo vicinissimi alla Grecia (49,9), ultimissima in graduatoria. Questo significa che occupiamo un penultimo posto veramente poco consolatorio, con buona pace di Poletti. La sintesi è semplice: il raccordo tra alta istruzione e mondo del lavoro è decisamente difettoso. Il presidente del Consiglio a Catania, ripetendo il mantra di Poletti, dopo aver sottolineato che l’occupazione aumenta, ha precisato che per i disoccupati il Primo Maggio non è una festa. Monsieur de Lapalisse avrebbe esultato ascoltando una simile affermazione. E’ così fondata che, in effetti, nessuno pensa che possa essere una festa: usiamo quella definizione solo per una consolidata convenzione, ma dovremmo cominciare a parlare di giornata di lotta. D’altronde con queste caratteristiche era nata.

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