Qualche domanda a Davigo

Il neo-presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati, Piercamillo Davigo, giudice dal passato illustre avendo ricoperto un ruolo rilevante in quella fase che è passata alla storia con il nome di Mani Pulite, ha messo a soqquadro con una intervista al “Corriere della Sera”, contemporaneamente il mondo della politica e quello dei tribunali. Ha puntato pesantemente il dito contro i corrotti che si annidano nella macchina dello Stato a cominciare da chi occupa uno scranno parlamentare (o regionale o comunale) o una poltrona ministeriale. Mani Pulite ha rappresentato un momento di grande cambiamento nel costume della magistratura (un po’ meno in quello dell’Italia). In quegli anni, il Paese ha scoperto un nuovo protagonista a cui veniva affidato (e che, in alcuni casi, rivendicava) un ruolo palingenetico, non più semplicemente impegnato a perseguire i reati, ma anche a provocare un grande mutamento antropologico.            In sostanza in quel periodo si affermò l’idea che per via giudiziaria potesse e dovesse nascere l’Uomo Nuovo. E’ una visione che, al di là di chi la propone, contiene molti rischi. Non sono in pochi, tra filosofi e politologi, a sottolineare come le rivoluzioni moderne (a cominciare da quella francese) tendano a imboccare una deriva autoritaria nel momento in cui, armate di un granitico ideologismo, cominciano a perseguire l’idea di una trasformazione dei caratteri del genere umano di riferimento (francesi, russi, cinesi, cambogiani, eccetera), considerando da un lato le  condizioni (e i ritardi) oggettive semplici alibi, e, dall’altro, attribuendo alle resistenze individuali la responsabilità dei ritardi nel cammino verso il “modello ideale”. Di qui la tendenza a rimuovere quelle incrostazioni con metodi decisamente sbrigativi e non con la forza della persuasione che comporta tempi più lunghi ma anche un atteggiamento di maggior rispetto per le libertà individuali.

            Che la classe politica italiana non brilli per trasparenza e amore per le regole, è un dato di fatto: da questo punto di vista, Davigo non segnala nulla di nuovo. E’ un vizio antico che affonda le radici nella limitata cultura del bene comune che è tipica di quasi tutte le zone del nostro paese, incentivata nei secoli da una serie di vicende che i ragazzi imparano a conoscere sui libri di storia (le molte dominazioni, la controriforma invece della riforma, i papi che “invitavano” le truppe straniere a calare sulla nostra penisola non appena avvertivano che il loro potere temporale era in pericolo, e poi il trasformismo, il servilismo, il consociativismo che si esaltava nell’accordo sottobanco, il fascismo e la tendenza all’ossequio acritico e strumentale nei confronti del Capo, eccetera) e da quell’elemento peculiare della nostra personalità che è lo sfrenato individualismo. Se si resta dunque su una valutazione generale, di carattere sociologico, gran parte di quello che ha sostenuto il magistrato è condivisibile. Ma poi spuntano alcune domande: tocca ai magistrati compiere analisi sociologiche? Compete ai giudici definire i profili antropologici di una società? Può un’istituzione chiamata a valutare fatti specifici (i reati) abbandonarsi a valutazioni che in quanto generali finiscono per essere generiche? Non è che la tentazione dell’invasione di campo rinfacciata alla politica, venga accarezzata anche da chi più di altri, proprio per il ruolo che svolge e per le specifiche conoscenze e competenze, dovrebbe rispettare il principio della divisione dei poteri?

            L’intervento, come si direbbe nel calcio, a piedi uniti di Davigo è giunto mentre in Parlamento si discute la legge sulla legittima difesa. Nell’aula di Montecitorio spira sul tema un vento peggiore del giustizialismo: il vento della giustizia “fai da te”. I settori più “estremi” vorrebbero affidare all’automatismo legislativo il riconoscimento della legittima difesa, bypassando o profondamente ridimensionando il ruolo del giudice che proprio in casi così complessi dovrebbe svolgere appieno la sua funzione “terza”, di autorità di garanzia. Le posizione estreme alla fine si sostengono vicendevolmente ed è legittimo il dubbio che una polemica come quella aperta da Davigo possa determinare un ulteriore arroccamento della classe politica che, poi, nella questione specifica (la legittima difesa) porterebbe a una legge pessima in cui quelli che invocano a giorni alterni i piaceri del garantismo poi varano norme, brandendo il diritto alla sicurezza dei cittadini, profondamente anti-garantiste.

            Mani Pulite appare oggi, ventiquattro anni dopo, come una delle tante occasioni perdute. Se condotta con la misura necessaria (e semmai con la discrezione che si dovrebbe a tutti gli indagati) anche nell’uso delle misure cautelari, probabilmente avrebbe lasciato nella storia di questo Paese un segno maggiore, avrebbe potuto aiutarci a definire un quadro di regole in grado di limitare la corruzione che, al contrario (come dicono tutte le indagini internazionali in materia) è aumentata. Non avrebbe fatto nascere l’Uomo Nuovo, ma avrebbe potuto consentire un più modesto ma sicuramente più utile rinnovamento della società.

            In quegli anni la magistratura era all’apice della sua popolarità: Davigo che di quel periodo è stato indiscusso protagonista si dovrebbe chiedere come mai quel patrimonio sia andato disperso. In Italia ci sono molti delinquenti ma la maggioranza dei nostri concittadini è onesta. Perché oggi non ripongono nella giustizia la stessa fiducia di allora? Non trova inaccettabile la rapidità dei processi mediatici che si svolgono nelle fasi istruttorie e che normalmente si risolvono nella condanna degli indagati (come in certi “forum” televisivi), in rapporto alla eccessiva lentezza dei veri dibattimenti in aula con la conseguenza che chi viene riconosciuto alla fine innocente resta comunque bollato con il marchio di infamia stampato sulla carne da siti web, giornali, televisioni, radio e chi più ne ha più ne metta? Non si può chiedere alle persone pensanti e parlanti di affidare le proprie riflessioni solo alle sentenze, ma non pensa il presidente dell’Anm che la presenza continua sulla scena pubblica nuoccia alla figura del magistrato, non solo perché il protagonismo esasperato ne condiziona l’autorevolezza, ma anche perché la confusione di piani (politico e giudiziario) alimenta un’ idea di supplenza (tanto negli uni, quanto negli altri) che rende profondamente imperfetta la democrazia? Non ha l’impressione che se da un lato c’è una tendenza di chi governa a ricercare l’impunità, dall’altro ci sia una analoga spinta di alcuni magistrati a proclamare il proprio diritto all’ intangibilità? Un dibattito su questi temi, forse banali, sarebbe utile. Ma senza alimentare la filosofia da film western: da una parte tutti buoni, dall’altra tutti i cattivi. Anche perché in mezzo c’è una società. E in quale categoria la collochiamo?

 

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One thought on “Qualche domanda a Davigo

  1. Presidente della Magistratura ha ragione su tutti i fronti e nel rispetto del Diritto Repubblicano, perché l’occasione del potere politico fa l’uomo ladro: come dicevano i saggi antichi. Basta togliere l’occasione ai politici di rubare, passando la mano della spesa pubblica alla Corte dei Conti che controlla e approva tutta la spesa pubblica, compreso quella con delega ai concessionari. I rapporti minimi e massimi degli stipendi pubblici (e delle pensioni la metà ) non devono superare diciotto volte il valore fra il minimo e il massimo: prendendo esempio dalla Francia.
    Paolo Campagna

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