-di VALENTINA BOMBARDIERI-
Domenica si voterà per il 67° referendum abrogativo della storia repubblicana. Il primo chiesto dalle regioni: Basilicata, Calabria, Campania, Liguria, Marche, Molise, Puglia, Sardegna e Veneto. Si andrà alle urne (o almeno si spera!) per l’abrogazione della norma che concede di protrarre le concessioni per estrarre idrocarburi entro le 12 miglia nautiche dalla costa italiana sino all’esaurimento dei giacimenti.
Quello tra la politica e i Referendum è stato sempre un rapporto controverso, a volte di odio-amore. Il primo referendum italiano è datato 2 giugno 1946: cittadini italiani furono chiamati a scegliere tra Monarchia e Repubblica. In seguito l’istituto referendario, che rientra insieme all’iniziativa legislativa popolare e alla petizione, tra gli istituti di partecipazione diretta, ha visto una evoluzione a volte rapida, altre volte più faticosa.
La Costituzione prevede vari tipi di referendum, di cui i principali sono quello costituzionale e quello abrogativo. La prima tipologia, che potrebbe coinvolgere i cittadini italiani dopo l’approvazione della riforma Boschi (si parla di 9 o 16 ottobre) prevede che in seguito all’approvazione di un disegno di legge di natura costituzionale, entro tre mesi dalla pubblicazione, un quinto dei membri di una delle due camere o 500 mila elettori o cinque consigli regionali possano richiedere la consultazione popolare. Ad oggi ci sono stati due referendum di tipo costituzionale: uno nel 2001 per la modifica al titolo V della parte seconda della Costituzione (approvata), e uno nel 2006 per l’approvazione delle modifiche alla seconda parte della Costituzione (non approvate). La seconda tipologia, invece permette a cinquecento mila elettori o cinque consigli regionali di richiedere l’abrogazione parziale o totale di una legge. Per essere valido un referendum di questo tipo deve raggiungere il cosiddetto “quorum”, cioè la metà più un elettore, tema, quest’ultimo che è tornato di attualità in questi giorni di reiterati inviti ad andare al mare per quanto la stagione sia ancora caratterizzata da una certa variabilità.
Il primo referendum abrogativo risale al 1974, quando il mondo cattolico chiese l’abrogazione della legge Fortuna-Baslini, con la quale era stato introdotto il divorzio. Il tema all’epoca suscitava accesi dibattiti. Quando il provvedimento venne approvato dal Parlamento, mancava ancora la legge che disciplinava l’istituto referendario. Venne varata praticamente in una logica di scambio, per consentire ai cattolici e a vasti settori della Dc di utilizzare la consultazione popolare in assenza di un accordo con il fronte divorzista (che, in effetti, non fu raggiunto). L’affluenza fu oceanica, altro che quorum: 87%; vinse il fronte del no con il 59,3% dei voti. Nello stesso decennio ci furono altre due verifiche popolari (su ordine pubblico e finanziamento pubblico ai partiti); in entrambi i casi il quorum fu raggiunto e vinse il no. Il referendum, nonostante venga a volte snobbato e maltrattato, ha assecondato grandi svolte sociali e politiche nel nostro Paese, non ultimo, il crollo della Prima Repubblica con la consultazione sulla preferenza unica.
Negli anni Novanta, si sono tenuti 32 referendum abrogativi, di cui 24 promossi dal partito radicale. Di questi 32, il 34% non ha superato la soglia di validità. Anche gli ultimi anni sono stati caratterizzati da un numero elevato di quesiti (16), ma nessuno ha raggiunto il quorum.
Il referendum è sempre stato arma di scontro politico, anche quando non avrebbe dovuto esserlo. Nel 1985 i comunisti e la Cgil (ma Lama lo fece obtorto collo) le firme per il referendum per abolire il decreto del governo Craxi che tagliava di tre punti la scala mobile (si tenne il 10 e 11 giugno con la sconfitta del Pci). E in quel caso, il referendum raccontò uno dei suoi grandi paradossi. Marco Pannella, l’uomo che aveva politicamente legato il suo nome e anche i suoi successi politici all’attivismo referendario, incontrò Bettino Craxi in gran segreto a Roma, pare nella sede del quotidiano del Psi l’Avanti! per consigliargli di fare “campagna” per la diserzione delle urne. Alla fine, però, il presidente del Consiglio decise di seguire le indicazioni che venivano da Uil e Cisl: accettò la verifica delle urne e il suo decreto uscì indenne. Sei anni dopo, in occasione del referendum sulla preferenza unica (7 giugno 1991) ci ripensò e ancora oggi il suo nome è associato a una frase che è diventata la sintesi della posizione politica astensionistica: “Andate al mare”.
L’ultima tornata, ed è storia recente, è nel giugno del 2011: quattro quesiti, (due proposti dall’Italia dei valori e due dal comitato per l’acqua pubblica) tutti con quorum raggiunto e vittoria del sì. In questo caso l’affluenza registrata è stata relativamente bassa (di poco superiore al 54%), ma con una percentuale di consensi favorevoli molto alta, oltre il 94%.
Se la consultazione popolare è strumento di partecipazione, risulta allora a dir poco bizzarro il fatto che il 40,91% dei 66 quesiti abrogativi non abbia il quorum. Perché, allora, rinunciamo a far sentire la nostra voce lamentandoci poi che a decidere provveda solo l’eletta casta dei politici? Le ragioni potrebbero essere molte: i problemi di comprensibilità dei quesiti referendari e la strumentalizzazione partitica. Oggi la storia sembra ripetersi: c’è il referendum sulle trivelle, l’importante è non comunicarlo. Meno che mai al Tg. Del resto a passare è proprio la linea del governo che punta all’astensione, non alla vittoria del “no”.
Il quorum, in realtà, solleva un problema politico vero, nel senso che mette nelle mani dei “contrari” due strumenti: la diserzione e il voto; mentre i favorevoli possono contare soltanto sulla scheda. Un evidente squilibrio che finisce evidentemente per squilibrare anche la dinamica della democrazia diretta.
Solo che giocare con il fuoco della diserzione elettorale per ottenere a sacrifici contenuti un successo politico, può nel medio periodo produrre gravissimi danni. A cominciare dall’incremento dell’astensionismo, già piuttosto elevato ma che rischia di raggiungere percentuali ancora più clamorose grazie ai messaggi distorti veicolati anche da esponenti autorevoli delle istituzioni: se il contributo che il cittadino può dare pure quando si attivano strumenti di democrazia diretta è puramente accessorio, allora tanto vale evitare il fastidio di recarsi al seggio, soprattutto se poi c’è una bella giornata di sole. Come diceva quella vecchia canzone: “Tutti al mare a mostrar…” una parte anatomica che molti italiani non fanno alcuna fatica a esibire visto che sono stati ridotti in mutande.