Bruxelles, la guerra ibrida. Intervista a Mauro Del Vecchio

 

-di ANTONIO MAGLIE-

L’Europa nel mezzo della prima, vera “guerra ibrida”. Il generale Mauro Del Vecchio della materia è, obiettivamente, un tecnico. Per esperienza diretta. Comandante Nato in Bosnia-Erzegovina, in Kosovo e in Afghanistan. Ha assistito a quella trasformazione che è diventata palese nelle ore in cui nelle nostre case arrivavano, concitatamente, le notizie prima delle stragi parigine, poi di quelle belghe. Abbiamo capito che della guerra, noi che in larga misura siamo figli di generazioni che non ne hanno vissuta nemmeno una, non eravamo semplici spettatori (qualcosa trasmesso via satellite ma da noi lontano migliaia di chilometri), ma veri e propri “oggetti”.

“Oggetti” non “soggetti” perché a portarcela nelle nostre strade (e quelle di Bruxelles e Parigi sono nostre perché in tanti là hanno trascorso brevi o lunghi periodi di vacanza o di lavoro) erano altri a cui noi non abbiamo arrecato alcuna offesa né dichiarato guerra. Abbiamo toccato con mano la vulnerabilità della nostra esistenza nel dispiegamento di gesti quotidiani e banali come consumare una cena in un ristorante o assistere a una partita di pallone o ascoltare musica rock in un locale o salire su un aereo o su un vagone della metropolitana. Si è detto, prima per Parigi poi per Bruxelles: è il nostro 11 settembre. Forse anche qualcosa di più perché, per quanto crudele fu quel giorno, il dramma si consumò in un luogo conosciuto ma geograficamente (non sentimentalmente) lontano; in un mondo che ha abbattuto le distanze e ristretto il tempo, il 13 novembre 2015 e il 22 marzo 2016 si è consumato invece dietro casa nostra obbligandoci a pensare alla guerra non come a qualcosa che riguarda gli altri, seppur a pochi chilometri da noi (la Siria, Libia, l’Iraq, l’Afghanistan, i mille conflitti africani più o meno tribali), ma come a qualcosa che potrebbe riguardare anche noi.

Sulle poltroncine degli schiamazzanti salotti televisivi dove tutto, anche le cose più serie, vengono ridotte in occasioni per far lievitare l’audience e dove vengono puntualmente invitati personaggi che hanno molto da urlare e poco da dire, aizzati da conduttori che vestendo i panni dei domatori, forti dalla loro abissale impreparazione, attendono con ansia il momento dell’incidente (più o meno come taluni lo attendono al momento della partenza di un Gran Premio di Formula Uno) per inchiodare il telespettatore sul proprio canale un minuto di più che su quello concorrente, la parola “guerra” è risuonata alta e forte; con la solita sicumera lo ha urlato nei suoi tweet già sostanzialmente bellici, il “marine” Matteo Salvini. Lucidati gli elmetti, lubrificati i moschetti. Lo show (anche a uso elettorale interno) è servito. Paradossalmente nelle stesse ore in cui Salah Abdeslam con i suoi compagni seminava morte a Parigi, in Italia si spegneva la regina del circo, Moira Orfei. Però, le luci del circo di Moira sembravano opache rispetto a quelle dei circhi televisivi dove persino i leoni della signora apparivano gattini spelacchiati al confronto di certe “orgogliose fiere militariste” pronte alla battaglia forse perché sanno bene che in battaglia non andranno mai, fedeli al vecchio motto: armiamoci e partite. La guerra, però, è cosa seria; Clemanceau avrebbe aggiunto così seria da non lasciarla nelle mani dei generali, anche se poi lui, nella sua qualità di politico, diede scarsa prova di lungimiranza imponendo a Versailles l’umiliazione dei tedeschi e creando così le condizioni per il successo di Hitler. La guerra è cosa seria anche perché sta mutando pelle. Sotto i nostri occhi, sotto l’uscio di casa. Ecco perché forse è utile compiere una riflessione sull’argomento.

 

Generale, lei, prima di diventare senatore, ha comandato per conto della Nato missioni in Bosnia, in Kosovo e in Afghanistan. Ma queste guerre possono avere qualcosa in comune con una guerra al terrorismo?

“La guerra al terrorismo è completamente diversa da quella classica che pure in questi ultimi decenni ha subito profondi mutamenti. Dieci anni fa, in Afghanistan, cominciai a rendermi conto che dovevo confrontarmi con una situazione diversa rispetto a quella che avevo affrontato nei Balcani: non si trattava più soltanto del confronto tra forze convenzionali, in campo non c’erano più soltanto le strutture militari. Il cambiamento è proseguito, la diversità è diventata più accentuata. La guerra è diventata ibrida”.

 

Perché ibrida?

“Si sono aggiunti elementi che non erano presenti nella guerra convenzionale. Il terrorismo è, a tutti gli effetti, una forma di guerra perché colpisce interessi della collettività. La sostanza del quadro può essere lo stesso, ma la cornice è cambiata e non si tratta di dettagli. Ad esempio, nella guerra ibrida, un ruolo fondamentale lo svolgono i media, un ruolo che negli ultimi cinque anni è stato sempre più amplificato, esaltato. L’informazione, internet in particolare, è lo strumento essenziale attraverso il quale le organizzazioni terroristiche a forte connotazione religiosa modellano le menti: la formazione di quelli che vengono chiamati foreign fighters avviene attraverso quei canali”.

 

Poi c’è lo “stage” militare in Siria, quindi il ritorno in Europa. Un viaggio che produce due risultati: consente a questi ragazzi di entrare in contatto con “l’arte della guerra”; garantisce loro, al ritorno, un surplus di “carisma” guadagnato sul campo di battaglia e che verrà poi speso nel reclutamento di altri giovani terroristi. E tutto questo, nell’ombra.

“Non solo non li conosciamo perché si muovono in silenzio, evitando di cambiare le loro abitudini, ma vivono dentro la collettività, tra di noi che, dal loro punto di vista, siamo i nemici. Non hanno una divisa ma continuano a vestirsi di normalità. Sino a quando, poi, non imbracciano un Kalashnikov o si fanno esplodere in un luogo molto frequentato. Li riconosciamo soltanto nel momento finale, nell’atto terroristico. Nella guerra convenzionale si affrontano uniformi diverse; in questa guerra ibrida, al contrario, i terroristi combattono dei modelli, degli stili di vita diversi da quelli a cui loro ritengono di ispirarsi, non delle divise”.

 

Dobbiamo rassegnarci a fare i conti con il concetto di guerra ibrida…

“Credo che sia la definizione che meglio esprime il mutamento, che meglio illustra questa combinazione di caratteri storici della guerra e di nuovi aspetti che sono emersi attraverso l’uso del terrorismo: il confondersi tra la gente per emergere solo nel momento finale, operare in piccoli o, addirittura, piccolissimi gruppi, cercare proventi economici con cui finanziare gli attacchi. Non è un mistero per nessuno il fatto che questi gruppi vadano a caccia di risorse economiche, in Siria come in Libia, dal petrolio al trafugamento di reperti archeologici che poi vengono piazzati sul mercato illegale, al commercio degli uomini e della droga. E’ una guerra completamente diversa rispetto a quella a cui eravamo abituati”.

Guerra nuova, strumenti nuovi, immagino.

“E’ evidente che di fronte a un conflitto che assume caratteristiche che rendono il nemico in qualche maniera sfuggente, inafferrabile, bisogna appoggiarsi a forme di intelligence decisamente sofisticate. Per avere qualche possibilità di contrastare con successo i terroristi, bisogna innalzare i nostri livelli di conoscenza. Di qui la necessità di prestare un’attenzione particolare ai media, a internet perché è attraverso quei canali che possiamo comprenderli, riconoscerli e snidarli”.

 

Bosnia, Kosovo, Afghanistan: lei stesso è stato costretto a confrontarsi con modelli bellici diversi. Le differenze più evidenti in queste tre esperienze?

“I cambiamenti che ho illustrato ho cominciato a notarli nell’ultimo comando, quello in Afghanistan, nel 2005-2006. Alcuni elementi della guerra ibrida erano già presenti: i kamikaze, le auto-bomba, la contrapposizione con gruppi guerriglieri e non soltanto con forze militari. Oggettivamente in Bosnia nel ’96-97 e in Kosovo nel ’99 le cose andarono diversamente. Lì c’era una fortissima contrapposizione etnica che sfociava in vendette e violenze anche difficili da contrastare. In Kosovo ci sarebbe voluto un soldato per ogni serbo da difendere”.

 

Le sue guerre avevano un “teatro”. Nella guerra ibrida qual è il teatro?

“Il teatro non esiste. Ed è questo l’aspetto più inedito e anche più pericoloso. Nella guerra convenzionale c’è un luogo, che può anche dilatarsi, andare oltre determinati confini, in cui le forze si contrappongono. Il ricorso al terrorismo fa sì che il campo di battaglia sia il mondo intero, non esistono più luoghi al riparo dal pericolo”.

 

C’è poi un altro aspetto: la mistica del martirio. Nella guerra convenzionale c’è il momento offensivo ma anche quello difensivo, riportare integra a casa la pelle è un obiettivo. I terroristi che hanno insanguinato Bruxelles e, prima, Parigi non avevano alcuna intenzione di salvarsi tanto è vero che erano equipaggiati con una cintura esplosiva. Siamo al momento finale dell’evoluzione della guerra cominciata con il secondo conflitto mondiale che ha coinvolto massicciamente i civili?

Nella guerra ibrida, i civili non sono solo coinvolti ma vengono trasformati nei veri obiettivi da abbattere. Certo, anche in Bosnia e in Kosovo i civili erano vittime dello scontro ma il più delle volte lo diventavano perché nel conflitto erano coinvolti come esponenti di una delle etnie in lotta. Insomma, non è più il soldato con un’altra divisa che bisogna colpire, ma il cittadino comune, per creare allarme sociale, per rendere più complicata l’azione dei governi, per creare uno stato d’ansia collettivo. E questo è un altro punto critico inedito: i normali cittadini non sono preparati al pericolo, non sono allenati al contrario dei soldati che sono addestrati per limitare i danni in determinate situazioni”.

 

La sostanziale indifferenza per la vita finisce per renderli invulnerabili.

“E’ evidente che si crea uno squilibrio. Da un lato le strutture militari che tendono a limitare i danni, a salvaguardare l’incolumità dei propri uomini; dall’altro piccoli gruppi che non avvertono questa necessità e che anzi vedono nel martirio, nella cintura esplosiva azionata nel momento finale, lo strumento per guadagnare una sorta di immortalità”.

 

Lei tempo fa ha sottolineato che un eventuale intervento in Libia non potrebbe avere i caratteri di una operazione di Peacekeeping. Un carattere da escludere anche nella guerra al terrorismo?

“Mi sembra evidente. C’è un cosiddetto stato islamico che sta operando in maniera terribile, crudele. E’ chiaro che in queste condizioni il confronto non può che avvenire anche sul terreno militare”.

 

Generale, siamo figli di generazioni che hanno lungamente vissuto negli anni della Guerra Fredda, gli anni dell’equilibrio del terrore. E ora su quale equilibrio si poggia il mondo?

“Di terrore parliamo anche oggi. Solo che sono mutati i caratteri, è più pervasivo, si insinua sottilmente nelle nostre case, nelle nostre vite. Lei fa riferimento ad anni in cui la situazione era illustrata con due parole perché il sostantivo “terrore” era preceduto da un altro sostantivo, “equilibrio”. Intendo dire che in quella fase storica tutti i soggetti in campo valutavano ogni azione sapendo che un conflitto avrebbe determinato anche nel proprio campo perdite pesantissime. Questo era l’equilibrio. Ora abbiamo il terrore senza equilibrio. Abbiamo il terrore costruito in maniera unilaterale da individui o da stati attraverso singoli individui. Un terrore che ha un unico, dichiarato obiettivo: uccidere”.

 

 

 

 

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