-di VALENTINA BOMBARDIERI-
Luca Varani. Un ragazzo. Giovane. Troppo giovane. Un nome che rimbalza in ogni programma e palinsesto televisivo. Una storia ancora da chiarire. La ricerca di un perché che tormenta ognuno di noi. Nessuna ricerca filosofica, nessuna analisi psicologica. Un fatto talmente grave che non sembra neppure vero. Due assassini rispettivamente di 29 e 30 anni, alla ricerca dell’estremo, probabilmente annoiati dalla vita. Due uomini cresciuti in famiglie della “Roma bene”, una storia che ricorda altri “bravi ragazzi” della Roma-Bene di qualche decennio fa che in una villa del Circeo violentarono e massacrarono due ragazze. Perché, badate bene, a 29 e a 30 anni non sei un ragazzo. Sei un uomo. Anche se questa Italia “mammona” continua a chiamarti ragazzo. Dunque, due uomini hanno ammazzato un ragazzo. L’appartamento di uno dei due, attrezzato per un festino gay, dove alcol e cocaina facevano da cornice al brutale massacro di un giovane innocente e inconsapevole. Una volta ingannato Luca e somministratogli un intruglio, la follia omicida ha avuto sfogo. L’alcol e la droga hanno suscitato nelle mente di Manuel Foffo e Marco Prato un delirio di onnipotenza, cancellato ogni percezione di ciò che è giusto o sbagliato.
È riduttivo pensare che la droga sia unica responsabile e movente al tempo stesso di un omicidio così spregevole. La droga amplifica, distorce, ma non crea un delitto dal nulla. Chi l’assume, soprattutto in grandi quantità, ha dentro un disagio, una necessità fisiologica di alienarsi. Se uccidere era il modo di Foffo e Prato per provare una nuova emozione, per sentirsi vivi privando qualcuno della vita, significa che i bei vestiti, il numero di amici sui social, di banconote nel portafoglio non contavano nulla. Vizi, cocaina e alcol, in questo caso, sono solo gli strumenti perversi per giungere a un tragico, antropologicamente inevitabile finale.
Finito lo sballo la resa dei conti: Manuel confessa al padre il sabato mattina l’omicidio, mentre Marco si rifugia in un Hotel a Piazza Bologna e tenta il suicidio. Nessun motivo apparente. “Volevamo vedere cosa si prova a uccidere una persona”.
L’Italia si divide tra coloro che invocano la pena di morte (occhio per occhio, no?) e chi cerca di giustificare e trovare una ragione a questo gesto. Primo fra tutti il padre di Manuel Foffo. “Mio figlio era un bravo ragazzo”. Egregio signor Valter Foffo, se suo figlio ha assunto in una sera 10 grammi di cocaina per la modica cifra di 1.500 euro (orientativamente parliamo della somma con cui un padre mantiene dignitosamente un’intera famiglia) e ucciso un 23enne, perdoni la nostra titubanza nel dare credito alla sua affermazione. Ci sono momenti nella vita in cui è meglio tacere, anche in segno di rispettoso silenzio per chi ha patito, per chi ha subito. Ecco, questa era una di quelle occasioni. I bravi ragazzi esistono ma se ne stanno rinchiusi da qualche parte terrorizzati da questo mondo che li circonda, popolato di altri ragazzi (o uomini, anagraficamente parlando) che danno la morte per noia. Quegli stessi bravi ragazzi che magari si sentono persi, sfiduciati e incerti ma non si rifugiano nella droga. Gli stessi che non hanno la necessità di sapere cosa si prova a uccidere una persona. Sono i bravi ragazzi a cui un giorno, chissà, l’Italia sarà affidata.