Fisco, imprenditori e virtù civiche

-di ANTONIO MAGLIE-

I prossimi giorni per Confindustria saranno decisivi. Di fatto archiviata l’era Squinzi (ricchissima di ombre e molto avara di luci), il prossimo 17 marzo il consiglio generale designerà il nuovo presidente (la corsa sarebbe limitata a due nomi: Vincenzo Boccia e Alberto Vacchi) che poi presenterà il programma undici giorni dopo per essere ufficialmente eletto a maggio. Sarà quella la sede in cui verranno articolate le solite lezioni di virtù civiche in chiave confindustriale. Interessanti ma quasi mai esaustive perché in fondo anche le stanze del palazzo romano di viale dell’Astronomia sono frequentate da esemplari dell’italica stirpe, normalmente dediti all’analisi dei difetti altrui sorvolando con estrema disinvoltura su quelli propri.Siamo un popolo di virtuosi solo nell’epigrafe che campeggia sul Palazzo della Civiltà del Lavoro, proprio accanto alla sede confindustriale. Ma è roba del regime fascista che voleva creare il “nuovo italiano” facendo leva, ovviamente, sui difetti peggiori del “vecchio italiano”, esaltandoli con il servilismo suggerito dalla cieca ottusità di una dittatura.

            Ma se alle critiche consuete verso il pressappochismo dei governanti (attenuate normalmente quando viene decisa qualche facilitazione contributiva), il lassismo dei lavoratori dipendenti, l’arcaicità culturale dei sindacati che li rappresentano, il nuovo (e anche il vecchio) presidente allargassero la loro analisi anche a fenomeni che chiamano in causa alcuni associati e che rendono argillosi i piedi del “gigantino” italiano, non sarebbe male: ne guadagnerebbero anche in credibilità. Ci sono alcune notizie di questi giorni che dovrebbero suggerire una simile operazione. Qualche giorno fa abbiamo appreso che Credit Suisse è indagata perché ha “aiutato” quattordicimila connazionali a sottrarre alle attenzioni del fisco quattordici miliardi. Nel frattempo un paio di procure hanno avviato inchieste su un mondo che nell’immaginario popolare non è mai stato al di sopra di ogni sospetto: quello della giustizia tributaria, normalmente forte con i deboli e, chissà come mai, debole con i forti. Parliamo di 581 mila contenziosi per un valore annuo di cinquanta miliardi. Mica bruscolini. A suscitare l’attenzione degli inquirenti, una “mazzetta” da 65 mila euro che ha consentito a un imprenditore di sistemare un contenzioso da 14,5 milioni.

            E’ evidente che la maggioranza degli imprenditori è onesta, ma se l’associazione che li riunisce lanciasse una vera offensiva contro gli “infedeli” (fiscalmente parlando), una sorta di laica “guerra santa” per consentire al Paese di recuperare qualche quattrino, non sarebbe male e tutte le altre lezioni acquisterebbero in credibilità. Ci sono, d’altro canto, alcuni dati che dovrebbero indurre chi esce e chi entra in quella stanza presidenziale a compiere qualche riflessione. Anche perché le riflessioni che compie il semplice cittadino comune, a sua volta, sono amarissime. Nei dieci anni che hanno preceduto la crisi, nonostante una crescita misurata in decimali (solo Brunetta sembra averlo dimenticato), il sistema delle imprese fece, in generale, buoni utili; relativamente alle grandi e grandissime, gli utili furono spettacolari. Tutto ciò mentre contemporaneamente languivano gli investimenti (una delle cause del nostro gap di competitività), i salari venivano compressi, i lavoratori in “odore” di pensione (ma non ancora in età pensionabile) venivano sistematicamente accompagnati alla porta sfruttando le agevolazioni di legge (tanto paga l’Inps che molti tra gli imprenditori vorrebbero, però, smantellare perché così si risolve il debito pubblico e si dà una mano alle assicurazioni private) e i posti lasciati liberi non venivano riempiti perché furoreggiava il precariato che grazie a contratti più flessibili degli elastici risolvevano molti problemi dal punto di vista delle statistiche ufficiali sulla disoccupazione rendendo sempre più oscuro il futuro dei giovani. E, stando alle ultime analisi sull’aumento delle diseguaglianze, il miracolo si è ripetuto anche negli anni della crisi per il piacere non di tutti ma di molti.

            Il fatto è che quando scattano queste inchieste difficilmente tra gli inquisiti si ritrovano dei lavoratori dipendenti, molto più frequentemente si rinvengono nomi noti dell’imprenditoria e della finanza. Ma è evidente, allora, che nessuna ricetta per salvare questo Paese sarà efficace se non saneremo un vizio che risale agli albori dell’unità d’Italia. Nel 2015 la lotta all’evasione ha portato nelle casse dello Stato 14,2 miliardi. Una goccia in un oceano. Perché le analisi, normalmente statistiche, ci dicono che il fenomeno ha dimensioni spaventose. L’Eurispes ha di recente stimato un sommerso pari a 540 miliardi a cui bisogna aggiungerne altri duecento provenienti dall’economia criminale: 740 miliardi a fronte di un Pil ufficiale di 1.500 nel 2015. Il ministero dell’economia stimava nel rapporto del 2014 un sommerso oscillante tra i 255 e i 275 milioni (dati riferiti al 2008). Bankitalia, a sua volta, per il triennio 2005-2008 ha parlato di un sommerso pari al 16,5 per cento e di una economia illegale pari al 10,9. La Corte dei Conti, a sua volta, ha spiegato che ogni cento euro fatturati ve ne sono 34-38 che sfuggono: un’enormità. Più cauta Confindustria che parla di 122,2 miliardi di evasione.

            Siamo il fanalino di coda in Europa. All’interno dell’Unione evasione ed elusione sottrarrebbero al fisco mille miliardi: noi contribuiamo con 180. Secondo Tax Research l’imponibile  italiano nascosto ammonterebbe a 350 miliardi; il rapporto tra nero e Pil si attesterebbe intorno al 27 per cento, decisamente più alto rispetto a quello della Gran Bretagna (12), della Francia (15), della Germania (16), della Spagna e del Belgio (22). Ci definiamo cattolici, gli industriali vanno anche in oceanica delegazione dal Papa, eppure fatichiamo a leggere una frase della lunga lettera di San Paolo ai romani: “Per questo dovete pagare i tributi, perché coloro che sono dediti a questo compito sono funzionari di Dio”. Piercarlo Padoan potrebbe tranquillamente pronunciare questa frase: “I titolari di redditi fissi sono tassati sino all’ultimo centesimo con aliquote non indifferenti. Mentre, invece, il reddito dei professionisti, degli industriali e dei commercianti  sfugge sempre, talvolta in notevole parte, al dovere tributario”. In realtà, l’autore di questo mesto commento fu Filippo Meda, ministro delle finanze del governo Boselli. Era il 1916: esattamente un secolo fa. Quando il 7 ottobre di otto anni fa l’allora ministro dell’economia Tommaso Padoa-Schioppa affermò che “dovremmo avere il coraggio di dire che le tasse sono bellissime”, si scatenò la gara fra chi lo sbertucciava di più. Eppure, si potrebbe anche essere tentati di avere fiducia in un presidente della Confindustria che decidesse sul serio di dichiarare guerra più che ai sindacati, agli evasori. Partendo anche da quelli che, eventualmente, dovessero accomodarsi nel salone di viale dell’Astronomia.

antoniomaglie

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