-di ANTONIO MAGLIE-
Il presidente francese, Francois Hollande, ha individuato il morbo che debilita l’Europa: la mancanza di un progetto. La parola “progetto” va molto di moda, ad esempio nel calcio dove tutto viene trasformato in un’eruzione di progettualità, dalla cacciata di un allenatore alle piccole e grandi invenzioni contabili che consentono di evadere un po’ di tasse. Viviamo in un mondo di ingegneri e non ce ne eravamo accorti. Ma ciò non impedisce che le nostre costruzioni siano quantomeno incerte, instabili. Forse perché per mettere a punto buoni progetti i calcoli matematici da soli non bastano: l’Europa ne è lo straordinario esempio. Uniti per non essere d’accordo su nulla. In questo caos, l’unico comune denominatore che sembra legare i diversi leader è la propensione all’ultimatum. Se ne è concesso uno qualche giorno fa persino Alexis Tsipras, che pure di ultimatum ne ha subiti diversi, tutti finalizzati al raggiungimento di un obiettivo: l’indebolimento del suo governo e l’ulteriore affondamento di una Grecia sempre più povera nelle sabbie mobili della crisi (prospettiva ampiamente prevista ma non da chi evoca progetti, come Hollande).
L’uso seriale degli ultimatum ha una sola conseguenza: l’indebolimento della reciproca fiducia tra i leader, la conquista di qualche posizione di miglior favore a proprio vantaggio e, di conseguenza, a svantaggio dei partner, la crescita della diffidenza tra i diversi popoli che formano questa variegata e ormai rissosa Unione. Tutta acqua per il mulino delle Le Pen e dei Salvini il quale non si è ancora reso conto che l’Italia non ha bisogno di “cacciare” (verbo che immaginiamo possa andar bene a uno che parla di ruspe da lanciare contro i rom) gli extracomunitari perché, in realtà, sono gli extracomunitari a non voler venire da noi e a preferire altri approdi; ormai non abbiamo bisogno di chiudere i confini perché chi vi si avvicina non ha nella maggior parte dei casi alcuna voglia di forzarli ma più semplicemente l’intenzione di attraversarli o aggirarli (leggere i dati per credere).
L’Europa non si regge più sulla solidarietà ma solo sull’interesse: se si lavora ancora per non chiudere le frontiere o per tenerle un po’ più aperte, non è perché rifiutiamo l’idea di segnare il territorio come fanno i cani, ma perché ritornare alla condizione pre-Schengen può scaricare sui bilanci nazionali ulteriori costi; se l’euro ancora resiste è per la paura dei danni che la sua morte potrebbe produrre a livello finanziario, non perché la moneta venga ancora vissuta come l’inevitabile conseguenza materiale dello stare insieme. La Gran Bretagna ha negoziato (e vinto) per continuare ad avere i vantaggi legati al rimanere dentro e, contemporaneamente, per incrementare quelli che conseguono dal restarne fuori. Cameron gongola dicendo di aver strappato uno “status” particolare per il suo Paese. E perché mai, in futuro, altri non dovrebbero seguirlo sulla via della “particolarità”? Che razza di Unione è quella in cui si minaccia la Grecia che dentro vuole rimanere sobbarcandosi sanguinosi sacrifici e poi si consente a Londra di stare con un piede e mezzo fuori, di contribuire molto meno degli altri e, allo stesso tempo, di condizionare molto più degli altri?
Conviviamo per interesse perché l’amore è sfiorito da tempo. E per farlo rifiorire un progetto, per quanto ben costruito, non basta. Poteva bastare qualche decennio fa, quando avremmo dovuto far precedere all’edificazione dell’Europa dei quattrini, quella delle rappresentanze figlie della sovranità popolare, della politica, dei governi legittimi e soprattutto legittimati. Ma non interessava. Abbiamo agevolato l’approdo a Bruxelles dei paesi dell’Est sulla base di un principio di solidarietà che ora quegli stessi paesi, arroccati su posizioni di chiusura culturale prima ancora che politica, si preoccupano di inaridire, di negare.
A questo punto all’Europa non manca un progetto, manca l’Anima. Quell’anima (o quell’idea di anima) che gli orrori della guerra avevano fatto nascere come inderogabile condizione di civile e pacifica convivenza per il futuro. Era un’anima solidale, un’anima sociale, un’anima che parlava di una libertà della condizione personale, dello spirito e della mente che non poteva essere disgiunta da quella dal bisogno. Era un’anima che si basava sulla contaminazione delle idee che attraversando i diversi punti cardinali del continente finivano per informare quasi tutte le costituzioni nate in quell’epoca. Quell’anima non c’è più, travolta dall’egoismo liberista, dalle irrefrenabili pulsioni affaristiche, dalle cricche finanziarie assistite dall’ottuso servilismo dei burocrati, dalla mutazione genetica e geografica di un continente che scivola sempre di più a destra, verso derive intolleranti, rabbiose e xenofobe traendo alimento da paure ancestrali, anche comprensibili, ma sostanzialmente infondate, gonfiate ad arte con gli strumenti del marketing elettorale. E’ come se la ragione si fosse addormentata lasciando il posto al solo istinto di sopravvivenza. Quando questo capita il risultato è spesso quello indicato da Bertolt Brecht: l’improvvisa nascita di mostri. In giro se ne vede già qualcuno.