Perché le Borse vanno in altalena

epa04896955 A Chinese investors monitor stock data on an electronic board at a securities brokerage house in Beijing, China, 25 August 2015. China shares fell sharply again 25 August as markets opened, following the nearly 9-percent loss the previous day. The benchmark Shanghai Composite Index opened down 6.4 percent, at 3,004.13 points. The Shenzhen Component Index opened lower by 6.9 percent, 10,212.47.  EPA/HOW HWEE YOUNG

-di SALVATORE AUGELLO-

Ormai da giorni sentiamo in televisione o leggiamo sui quotidiani la continua instabilità dei mercati finanziari internazionali e la fragilità del nostro sistema bancario. Molte famiglie italiane pensavano che dopo la crisi finanziaria del 2008 e la crisi dei debiti sovrani di alcuni paesi europei tra cui il nostro stato vi fosse la percezione di un cambio di rotta e che la ripresa fosse alle porte ma ciò non è ancora avvenuto e questo inizio anno lo dimostra.

Per spiegare quali siano i fattori e le cause che ancora oggi affliggono la nostra fragile economia italiana iniziamo da una piccola analisi dei mercati globali.

Dalla seconda metà del 2014 i prezzi del greggio al barile a livello mondiale sono scesi pressoché ininterrottamente. Dal 2010 fino a metà 2014 erano rimasti moderatamente stabili, a circa 110 dollari al barile, per passare nel 2015 ad un livello di 80 dollari. Oggi il prezzo si attesta a 31 dollari per barile. La caduta del prezzo del petrolio però non è stata improvvisa ma costante nel tempo e le sua flessione genera conseguenze non trascurabili per le economie nazionali. Non è facile comprendere queste complesse dinamiche in cui coesistono aree del mondo che perdono e altre che guadagnano. Per fare un piccolo riepilogo possiamo affermare che il cambiamento dipende da due ragioni principali. Da un lato, vi sono la bassa crescita della domanda e il segno del nuovo rallentamento dell’economia cinese non lascia presagire nulla di buono. Dall’altro, l’offerta, la quale invece di adeguarsi al ribasso per accompagnare la fase di flessione della domanda, vede profilarsi all’orizzonte un possibile ulteriore incremento dovuto al ritorno sul mercato dell’Iran dopo l’embargo nucleare e la continua politica dei paesi Opec del non voler diminuire la produzione di greggio giornaliera per sfinire sia i produttori di shale gas & oil statunitensi che di quelle degli altri produttori di greggio come il Brasile, la Russia e il Venezuela.

E proprio dalla caduta del prezzo del petrolio che si possono inquadrare le cause di questa nuova crisi che sta colpendo il sistema finanziario globale. Prendendo in esame lo studio svolto dallo studioso e capo della Quant team di J.P. Morgan Chase, Marko Kolanovic, possiamo vedere la stretta correlazione che vi è tra andamento dei mercati e prezzo del petrolio.

Kolanovic spiega come nel lungo periodo esista una correlazione positiva tra Borse e petrolio: i due asset tendono a salire e scendere di pari misura. Negli ultimi trent’anni, le divergenze tra i prezzi dei due asset si sono riequilibrate in un lasso di tempo relativamente breve. Ma lo stesso Kolanovic precisa che l’attuale caduta del greggio rispetto a Wall Street non solo è la più profonda, ma è anche la più lunga della storia, probabilmente dovuta come detto antecedentemente all’ingresso dello shale gas & oil nei mercati. Rileva Kolanovic: «divergenze di queste dimensioni si sono sempre chiuse in passato, crediamo che anche questa volta una chiusura del gap tra l’andamento del petrolio e delle Borse sia probabile». In effetti la correlazione tra borse e petrolio si è fatta sempre più stretta solo da inizio gennaio, quando gli asset hanno iniziato a precipitare insieme.

Kolanovic spiega i due modi che porterebbero al riavvicinamento tra i due indici: «scendono le Borse (non dimentichiamo che spesso un calo del prezzo del petrolio anticipa le recessioni, come avvenuto nel 2008) o sale il greggio (per tensioni geopolitiche o semplicemente perché la speculazione si ridimensiona)». Al momento, le opzioni prezzano in modo molto tiepido” lo scenario di un rimbalzo del petrolio combinato a un calo delle Borse. Kolanovic assegna solo tre punti percentuali di probabilità all’analisi degli scenari descritti.

Detto ciò, un ulteriore fattore di rischio per la tenuta non solo dei mercati globali, ma anche di quelli casalinghi è sono le variazioni nella crescita delle grandi economie importatrici ed esportatrici. Non a caso ormai da più di un anno sentiamo parlare della Cina e del suo rallentamento che spaventa le borse di tutto il mondo.

La locomotiva cinese che per anni ha trainato i mercati finanziari e i settori industriali del globo con la sua impetuosa crescita, ora ha (bruscamente) rallentato la sua corsa destabilizzando le varie economie del vecchio continente, a partire da quelle più solide come Germania e Regno Unito sino alle più fragili (per non dire di porcellana) come quella del nostro paese.

Il brusco rallentamento ha caratterizzato l’economia del dragone nel 2014 e negli ultimi 8 mesi si è ulteriormente intensificato. La banca centrale cinese (PBC) negli ultimi mesi ha aumentato più volte la liquidità nei mercati per sostenere l’economia, a causa del rallentamento della crescita attestato al 6-7 per cento annuo invece che del 10 per cento a cui eravamo abituati; le cause sono ben note e già da tempo si parlava di un suo possibile arresto.

Per comprendere la situazione economica cinese prenderò come esempio una normale definizione di paese emergente in forte crescita economica; le economie emergenti per poter aumentare il livello di ricchezza interna operano in politiche strategiche quali il mantenimento dei salari bassi in modo da attrarre capitali esteri e negli investimenti in macchinari ed infrastrutture tali da poter emergere e concorrere nei mercati globali con le esportazioni, così da raggiungere un elevato livello di ricchezza interna. Questa piccola definizione ci permette di inquadrare l’economia cinese degli anni pre-rallentamento.

Purtroppo per aumentare e consolidare ancora di più lo stato di benessere non basteranno le politiche appena descritte sopra, la Cina dovrà effettuare una serie di manovre politiche ed economiche tali da aumentare l’innovazione, i consumi e i salari, così da sostenere la domanda interna, e strutturare un sistema finanziario più libero dalla mano dello stato in grado di incanalare i risparmi e fissare il costo del denaro, permettendo di conseguenza che la valuta del paese si aggiusti secondo le leggi della domanda e dell’offerta.

Sulla carta tutto facile, ma nelle pratica le cose cambiano. Le riforme sono difficili da realizzare ovunque, perché le perdite spesso colpiscono solo una piccola parte dei settori economici o di gruppi familiari mentre i benefici sono più omogenei, e questo accade anche in un paese autoritario dove la popolazione rinuncia nel chiedere più democrazia in cambio di vedere i propri redditi in crescita nel medio e lungo periodo. Proprio dall’analisi della situazione economica cinese possiamo intuire quanto sia stretta ormai la dipendenza della crescita mondiale dalle sorti dell’economia cinese.

La Cina, infatti, non è soltanto un grande paese esportatore ma è anche e soprattutto un paese importatore di materie prime – di cui è carente – che acquista dalle economie emergenti come Brasile, Russia ed Africa (per fare alcuni esempi), e di tecnologie e macchinari di precisione che importa dai paesi avanzati come l’Italia e la Germania, dove le imprese del vecchio continente l’hanno scelta non solo per approfittare dei vantaggi di costo ma soprattutto per presidiare il mercato più dinamico del pianeta. L’integrazione dell’economia cinese è la chiave di volta della globalizzazione, ma anche la fonte di nuove interdipendenze.

Se il paese del dragone rallenta diminuisce anche la domanda cinese di importazioni e di conseguenza l’export di mezzo mondo, che ha caratterizzato gli ultimi anni. I recenti dati tedeschi mostrano come la grande locomotiva europea, che pure corre veloce e vigorosa, sconta il calo dell’import cinese di macchinari ed attrezzature, nonché di automobili. Per quanto riguarda l’Italia lo shock è duplice: rallenta la domanda cinese di made in Italy nelle varie filiere produttive e soffrono le filiere tedesche nei settori della meccanica strumentale con cui siamo interdipendenti, perché ormai da anni con l’austera Germania siamo legati a un doppio filo: se piange Berlino piange anche Roma.

Le due economie, soprattutto nei settori industriali e manifatturieri, in questi anni hanno incrementato i loro scambi tanto tra creare filiali nei rispettivi paesi ed anche attraverso l’acquisto locale di aziende nei settori di interesse strategico, informazioni queste che molto spesso fanno fatica a raggiungere il livello, ormai stancante, di pubblicità dello stillicidio del Btp a 6 mesi del nostro paese nei confronti il Bund tedesco.

L’ultima analisi per concludere il quadro economico di questo inizio anno riguarda il nostro settore bancario e la nostra borsa valori. In questi mesi abbiamo notato che ogni qual volta le borse, del vecchio continente e non, chiudono in segno negativo Piazza Affari viene sempre trainata di qualche punto percentuale in più verso il basso dai titoli del settore bancario.

Nelle due ultime settimane le borse europee soprattutto eurozona – sono precipitate, ancora una volta a causa del peso dei titoli bancari. Come scrivono alcuni giornali è il segnale di una nuova disaffezione degli investitori americani e forse anche un nuovo attacco alla fragile valuta comune. Secondo un’analisi del giornalista finanziario del Sole24Ore Walter Riolfi, “il casus belli” andrebbe ricondotto ad una operazione con il quale il Novo Banco portoghese trasferì alcune emissioni di bond dalla good bank alla bad bank, allo scopo di puntellare quest’ultima»; il giornalista continua evidenziando che «la conseguenza di tale azione è stata di attirare le ire di alcuni grandi fondi statunitensi (Pimco e BlackRock in primis) e soprattutto d’aver innescato le vendite di costoro sull’intero comparto eurozona». Ciò spiegherebbe infatti, i crolli dei titoli bancari di inizio anno.

In tale contesto l’Italia ricopre ancora il ruolo di ventre molle dell’Unione e la sua situazione è una aggravante per la fragile economia dell’eurozona, già assillata dai problemi politici dei paesi dell’Unione che la lasciano in una posizione di stallo. Per comprendere le giornate convulsive di Piazza Affari basta scorgere le continue cadute dei titoli bancari ben più forti di quelle subite dai corrispettivi europei.

Una delle incognite che grava sulla ripresa è costituita dall’elevato stock di crediti deteriorati (o Npl) e sofferenze accumulati dalle banche italiane durante la crisi: in rapporto al credito, in ambito europeo il nostro è inferiore solo a quello di Cipro, Grecia e Irlanda.

A perdere di più a Piazza Affari, come accaduto nei giorni scorsi, sono stati i titoli di due istituti in cui il problema della qualità del credito è più stringente: Mps e Carige. Due banche il cui livello di incidenza di crediti «malati» si attesta al 31,8 e al 24,6 per cento del totale degli attivi (contro una media italiana del 18). E’ possibile che gli investitori internazionali non abbiano ben compreso il meccanismo della bad bank pensato dal Governo italiano; esso è in effetti piuttosto complesso, e l’entusiasmo dell’inizio ha frenato su una serie di fattori pochi chiari circa operazioni, quali il rating, la presenza di servicer esterni, le garanzie e il prezzo d’acquisto delle sofferenze.

Nel terminare questa breve cronistoria dei mercati globali emerge il timore della tenuta del sistema economico-finanziario. Di certo è troppo avventato pensare ad un ritorno di una crisi finanziaria come quella del 2008 o dei debiti sovrani; questa volta ci sono regole più ferree e una vigilanza bancaria e finanziaria ad ampio spettro. Contemporaneamente la crisi politica europea sembra portare ad un progressivo allontanamento dalla strada tracciata dai padri fondatori verso l’Unione – non solo formale ma anche sostanziale: si pensi semplicemente ai rumors di messa in discussione del Trattato di Schengen per via delle discordanze sull’accoglienza degli immigrati. Ciò non solo scuote la certezza dei diritti di cittadinanza europea, ma ancor più la fiducia degli investitori internazionali sulla stabilità. In più le avvisaglie di guerra nel Medio oriente, la caduta del prezzo del petrolio e lo stop alla crescita dei paesi emergenti come Cina e Russia (quest’ultima gravata anche dalle sanzioni per il caso Ucraina) causano la continua instabilità dei mercati. Per l’Italia il giudizio che si può dare è che ancora manca un pensiero riformatore improntato al lungo periodo piuttosto che all’orientamento strumentale del voto come purtroppo avviene. Se il buongiorno si vede dal mattino, questo inizio anno non si prospetta certo dei migliori e solo i prossimi mesi potranno dirci da che direzione spira il vento.

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