-di CESARE SALVI-
Dalla Francia una notizia buona, e altre meno buone.
La notizia buona è la sconfitta del Fronte nazionale ai ballottaggi.
L’estrema destra è stata fermata dalla maggioranza di coloro che sono andati a votare, anche per effetto della desistenza unilaterale dei socialisti (che hanno pagato peraltro un prezzo politico non secondario: per effetto della legge francese non avranno nessun consigliere nelle regioni dove hanno ritirato la lista).
Le notizie cattive non sono però poche. In primo luogo, il FN ha consolidato il suo consenso e il suo radicamento sociale.
Tutti i dati confermano che l’elettorato del Fronte è formato prevalentemente da coloro che sono stati le vittime delle politiche dell’austerità, non dell’allarme terrorismo. Le percentuali del suo consenso ricalcano il tasso di disoccupazione nelle diverse aree del paese; nei quartieri di Parigi colpiti dall’Isis si è limitato al 7%, supera il 40% dove più la crisi ha colpito , come nelle zone deindustrializzate del Nord,un tempo bastioni della sinistra. È evidente che dai ceti popolari viene una domanda di cambiamento anzitutto nelle politiche sociali, che si rivolge alla destra estrema (o all’assenteismo), non trovando evidentemente interlocutori a sinistra.
Non so se sia stata saggia la scelta dei socialisti della desistenza unilaterale. In ogni caso, il PSF è al terzo posto, e quindi, se le cose non cambieranno, sarà escluso dal ballottaggio alle prossime elezioni presidenziali (diverso è il discorso per quelle parlamentari, dove il sistema consente a più di due candidati di accedere al secondo turno). Si prepara un nuovo “fronte repubblicano”, che consegnerebbe la Francia alla destra di Sarkozy (se sarà lui il candidato)?
Nel partito socialista si cominciano a sentire le voci di chi chiede uno spostamento a sinistra delle politiche governative, ma Hollande e Valls non danno segno di volersi muovere in quella direzione.
Ma anche l’altra sinistra è stata pesantemente sconfitta.
Il Front de gauche ha avuto al primo turno il 4% dei voti.
Al secondo turno ha scelto la “fusione” con le liste socialiste, contribuendo così alla vittoria in alcune regioni; dove erano rimasti solo i candidati delle “due destre” Mèlenchon ha rifiutato di dare un’indicazione di voto.
Rimane la domanda: come mai la sinistra non è riuscita a capitalizzare il disagio sociale, perdendo ampi consensi rispetto alle precedenti elezioni? Mèlanchon ha affermato l’ esigenza di sciogliere i nodi irrisolti: il programma rispetto all’Europa, la forma organizzata (molto lasca) che si è dato finora il Front, la partecipazione dei cittadini all’azione collettiva.
Rimane un dubbio inquietante: che cioè la crisi, in assenza di una credibile alternativa a sinistra, spinga l’elettorato verso una destra politicamente reazionaria (particolarmente nel rifiuto del “diverso”, rappresentato emblematicamente dall’immigrato) ma socialmente attenta ai problemi dei ceti popolari. La storia non si ripete mai uguale, ma la memoria di ciò che accadde in gran parte dì Europa durante la precedente grande crisi, iniziata nel 1929, dovrebbe insegnare qualcosa.
Molti si sono esercitati in raffronti tra la situazione francese e quella italiana. Vi sono analogie, ma anche molte differenze.
A me pare che due indicazioni si possono trarre. In primo luogo, politicamente: le forze a sinistra del PD, se vogliono avere un futuro, devono in tempi brevi costituire un soggetto politico unitario, darsi chiare parole d’ordine, proporre iniziative che incidano sull’agenda del paese; ad es. impegnandosi nella prossima primavera nella raccolta di firme per i referendum su legge elettorale, scuola, lavoro.
Purtroppo le notizie recenti vanno nella direzione opposta: veti incrociati, dissensi anche comprensibili ma che dovrebbero essere superati con slancio e generosità, vista la gravità e le difficoltà del momento.
Ancora più rilevante è la lezione istituzionale che viene dalla Francia. Sistemi che riducono le elezioni alla scelta di un capo e dei suoi seguaci sono insoddisfacenti e pericolosi.
I ballottaggi diventano lotterie; l’astensionismo avanza; meccanismi ultramaggioritari rendono irrilevante il ruolo di proposte politiche che hanno un consenso radicato tra i cittadini.
Oggi il problema della democrazia non è la governabilità, ma la rappresentatività. Sempre più decisivo appare l’appuntamento del prossimo ottobre sul referendum costituzionale. Non si tratterà, come vorrebbe il Presidente del Consiglio, di un plebiscito su Renzi, ma della scelta del modello di democrazia per l’Italia. La vittoria del no renderebbe infatti impraticabile la legge elettorale chiamata “Italicum”, che non si può applicare al Senato. È un appuntamento al quale la sinistra dovrà arrivare preparata e con proprie chiare parole d’ordine, che pongano al centro l’idea della democrazia come partecipazione attiva dei cittadini.