Gran parte degli osservatori della nostra economia sostengono la necessità di una scossa per riavviare lo sviluppo. Essa si genererebbe da un consistente taglio delle tasse sul lavoro e sulle imprese finanziato da una riduzione della spesa di analoghe dimensioni. Ma le due azioni mancano di sincronia. Se le imposte possono essere tagliate con effetto immediato, dietro la spesa c’è quasi sempre un salario, una pensione, un contratto da onorare. Insomma la riduzione della spesa richiede un’azione di lunga lena, a valenza pluriennale. E questa asimmetria porterebbe ineluttabilmente all’aumento del disavanzo pubblico e a sfondare i vincoli del trattato di Maastricht per più anni. L’operazione dovrebbe essere autorizzata dall’ Unione Europea, cosa che appare del tutto da escludere data la scarsissima fiducia di cui gode il nostro paese presso le istituzioni, ma anche nell’opinione pubblica internazionale.
Ci sarebbe un altro modo per provocare la scossa e rimettere le ali allo sviluppo senza mettere in forse il patto di Maastricht: avvicinare la struttura del nostro sistema fiscale a quella dei maggiori paesi europei, con lo spostamento del carico fiscale dalla produzione ai consumi. La nostra tassazione infatti si accanisce contro la produzione e l’occupazione, mentre risulta blanda sui consumi. Tra i 28 paesi dell’U.E. il nostro risulta al primo posto per la tassazione delle imprese, al secondo per la tassazione del lavoro e al 24.mo per quella dei consumi, al penultimo posto per il livello IVA. Il costo dei beni e servizi prodotti nel nostro territorio incorpora dunque oneri pesantissimi con grave danno sulla competitività dei nostri prodotti e di tutto quel che segue in termini di occupazione e crescita. Peraltro la bassa tassazione dei consumi(leggi IVA)rende un favore ai produttori esteri, e non già alle nostre imprese esportatrici per il fatto che i beni esportati non pagano l’IVA(si pensi al settore alimentare dove le nostre importazioni superano del 30% le esportazioni..) Una maggiore tassazione sui consumi, magari ai livelli europei e un contestuale e consistente sgravio sulla produzione avrebbe gli effetti di una svalutazione monetaria. Si ridurrebbero i costi di produzione, migliorerebbe la competitività di prezzo dei nostri prodotti, si amplierebbe la convenienza a produrre nel nostro paese, scoraggiando le delocalizzazioni.
Ma andiamo sullo specifico. La nostra IVA ha un’aliquota ordinaria del 22%, ma i prodotti e i servizi ad aliquota ridotta sono numerosissimi tanto che l’aliquota media effettiva risulta inferiore al 14%. I paesi europei con più alta protezione sociale sono anche quelli che presentano aliquote IVA più elevate e meno disperse. La Danimarca che pure viene portata ad esempio per il suo welfare presenta un’aliquota unica IVA pari al 25%(quindi anche sugli alimentari) ma bassissime imposte sul lavoro e una disoccupazione di dimensione irrilevante. Se da noi si procedesse ad un accorpamento delle aliquote dalle tre attuali(4,10,22) a due portando l’aliquota sugli alimentari dal 4% al 10% e imponendo su tutti gli altri beni e servizi l’aliquota del 20% (come avviene ad es. in Austria) si otterrebbero risorse sufficienti per eliminare del tutto l’IRAP del settore privato(poco più di 20 miliardi). Se poi l’aliquota ordinaria fosse fissata al 21% e sempre al 10% quella sugli alimentari, il maggior gettito(oltre 30 miliardi) permetterebbe di finanziare oltre la cancellazione dell’IRAP anche una significativa riduzione dell’IRPEF, magari riassorbendo l’operazione alquanto pasticciata degli 80 Euro. Altre risorse si renderebbero disponibili per almeno tre motivi. Il primo per la riduzione dell’evasione del tributo collegato all’accorpamento delle aliquote, il secondo per la spinta produttiva derivante dai guadagni di competitività, il terzo per la riduzione del costo del debito come risultato della riconquistata fiducia sui mercati.
C’è ancora avversione all’accorpamento delle aliquote IVA basata su argomentazioni tradizionali e di dubbio fondamento: il timore di una ripresa dell’inflazione, un presunto rallentamento dei consumi, la possibile penalizzazione dei ceti meno abbienti. Si potrebbe replicare che la manovra realizzata a gettito invariato vedrebbe il bilanciamento tra il ricarico fiscale sui prezzi al consumo e la riduzione degli oneri sulla produzione dei beni e servizi. Quindi niente inflazione e se si dovesse verificare qualche debole focolaio inflazionistico sarebbe il benvenuto in una situazione di tendenziale deflazione, certamente più cupa e preoccupante nella quale ci stiamo sempre più immergendo. Se manca il fenomeno inflazionistico cadono anche i timori di calo dei consumi o di penalizzazione dei ceti meno abbienti. Le altre argomentazioni di coloro che osteggiano una più equilibrata tassazione dei consumi appaiono prive di consistenza e comunque nettamente smentite da quanto avviene in Europa dove i paesi con Iva più elevata sono anche quelli caratterizzati da maggiori consumi, maggiore benessere e più elevata occupazione. (Nicola Scalzini)