La gogna mediatica

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In televisione lo spirito critico dell’intellettuale è perdente. Le sue argomentazioni sembrano sofismi, elubrazioni mentali. Il tribuno della plebe ha successo perché dice cose in parte vere (la casta c’è, il privilegio esiste), ma soprattutto perché dice cose che la gente vuol sentirsi dire. Rivedo come alla moviola quella falsa rivoluzione che fu Mani Pulite e la gogna mediatica che l’accompagnò a tambur battente. La gogna mediatica è devastante come una slavina: chi viene travolto, non riesce più a rialzarsi. Vediamo dunque come funziona questa riedizione moderna, pseudo-democratica, del metodo inquisitoriale.

Prima regola: il tribuno della plebe è un abile comunicatore. Evoca un universo simbolico incentrato sulla polarizzazione manichea: di qua i politici corrotti, di là il popolo onesto. Evita come la peste ogni distinzione, ogni sfumatura. Il “popolo”, si sa, è un’invenzione, un feticcio idealizzato. Cos’è il popolo in democrazia? È la somma dei cittadini che vanno a votare, o che si esprimono nelle associazioni, nelle organizzazioni politiche, nei sindacati. Ma perché la magia della gogna mediatica funzioni gli spettatori devono identificarsi con un altro “popolo”, quello onesto e vessato appunto. Se l’identificazione è totale, il gioco è fatto: il tribuno passa dall’interpretare gli umori del telespettatore alla manipolazione pura e semplice. Così avvenne anche durante Mani Pulite: coloro che scagliarono le monetine contro Craxi – poche centinaia di facinorosi politicizzati – apparvero come rappresentanti legittimi dei loro concittadini; un microcosmo dell’Italia integerrima che si sollevava contro il sopruso.

Seconda regola: il tribuno si auto-proclama rappresentante di quel popolo immaginario di onesti, costituito però da persone in carne ed ossa (“Io lavoro per Isabella, madre di quattro figli, che si alzava alle quattro di mattina per lavorare, ed è morta di infarto”). Si auto-investe del proprio ruolo tribunizio, tra scrosci di applausi più o meno indotti. Non ha alcun bisogno del voto, della verifica democratica. Orpelli inutili. Contano solo i punti guadagnati di “share”, che sono come le azioni gonfiate di un’azienda di successo. Questa è la prova provata della sua popolarità e, con questa, della verità intrinseca di ciò che dice. Il “popolo” gli dà ragione pigiando il telecomando (o cliccando un “mi piace” su facebook), no? Né ha bisogno, il tribuno, di coerenza tra ciò che è e ciò che dice. L’importante è che scatti il meccanismo di empatia con il telespettatore virtuale. Del resto, insistere sul concetto di coerenza è pericoloso: incrinerebbe la compattezza del pubblico: anche fra gli indignados vi sono privilegiati del sistema italiano: baby pensionati, dirigenti pubblici assunti con metodo clientelare, evasori fiscali, imprenditori che assumono in nero ecc.

Terza regola: Il tribuno della plebe seleziona un tema che suscita emotività – la corruzione, le pensioni d’oro, le trattative Stato-mafia ecc. Il pensiero dev’essere rigorosamente semplificato, ridotto all’osso: slogan al posto di riflessioni. Solo così una (discutibilissima) opinione appare come verità assoluta, incontrovertibile. A tal fine, bisogna condensare in slogan ciò che l’italiano medio pensa “a caldo” sul tema in questione. Il tribuno prende come oro colato una pillola di emotività effimera, una chiacchera da bar (“i politici sono ladri, corrotti, fannulloni; i politici sono la causa delle nostre disgrazie”). Così riesce a presentarsi – subdolamente – come l’interprete autentico della vox populi. L’esaltazione del luogo comune più becero diviene un surrogato del consenso democratico, ottenuto nelle uniche sedi certificate: le cabine elettorali.

A questo punto, rivaluto la posizione del PSI degli anni ottanta sull’occupazione dell’etere: non era solo una questione di interessi e di rivalità politiche: era in gioco il pluralismo dell’informazione. È vero: le TV di Berlusconi hanno alimentato anche i gusti “nazional-popolari” (ipse dixit Enrico Manca). E la RAI, anziché trasformarsi in una tv culturale, una sorta di BBC italiana, ha adorato il totem dello share, facendosi travolgere dall’ansia della concorrenza. E tuttavia, lo dico da liberal-socialista, preferisco di gran lunga questo duopolio imperfetto, che è pur sempre una scintilla di libertà, a un monopolio perfetto in cui la TV pubblica consente ai tribuni del popolo di scorazzare liberamente.

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