-Luciano Pellicani-
Il rapporto fra la proprietà e la libertà è stato il tema più discusso, tormentato e lacerante dell’esistenza storica della civiltà occidentale. Due scuole di pensiero si sono contrapposte in un vero e proprio duello esistenziale : la scuola liberale e la scuola comunista. Per la prima, la proprietà privata era l’insostituibile base istituzionale su cui si appoggiava e la crescita della ricchezza e la libertà dei cittadini . Per la seconda, alla rovescia , era proprio la proprietà privata la causa non solo dell’ineguaglianza e dello sfruttamento dei proletari , ma anche della corruzione morale della natura umana. Di qui il fatto che , per la scuola comunista – di cui Marx è stato il più grande teorico e Lenin il suo massimo leader politico — la distruzione della proprietà privata era un imperativo categorico. Grazie ad essa, si sarebbe verificato il salto dialettico dal regno della necessità al Regno della libertà.
Dopo la bancarotta planetaria del comunismo marxleninista , il Tribunale della Storia ha emesso una sentenza senza appello: sostituire la “mano invisibile” del mercato – centrato sulla proprietà privata – con la “mano visibile” dello Stato ha due precise e ineludibili conseguenze: il collasso catastrofico dell’economia e la cancellazione delle libertà e dei diritti dei cittadini .
E’ particolarmente significativo che la sentenza emanata dal Tribunale della Storia era stata anticipata da Trockij , il quale aveva concluso la sua spietata analisi del sistema che lui stesso aveva tanto contribuito a creare con queste parole : “ In un Paese in cui lo Stato è il solo datore di lavoro, non ubbidire significa morire di inedia”. Il che non faceva che confermare la tesi già formulata da Proudhon; e cioè che comunismo e libertà erano assolutamente incompatibili. E’ vero che Proudhon aveva esordito affermando perentoriamente che la proprietà privata era un furto. Ma nella sua opera postuma – Teoria della proprietà — rovesciò quella tesi che l’aveva reso celebre così esprimendosi: “ “Lo Stato costituito nella forma più razionale e più liberale e animato dalle intenzioni più giuste è una grande potenza capace di schiacciare tutto intorno a sé , ove non gli si opponga un contrappeso. E quale può essere questo contrappeso ? Lo Stato deriva tutta la sua potenza dall’adesione dei cittadini . Lo Stato è la riunione degli interessi generali appoggiata dalla volontà generale e servita, al bisogno, dal concorso di tutte le sue le forze individuali. Dove trovare una potenza capace di controbilanciare questa formidabile potenza dello Stato ? Non v’è che la proprietà : tale sarà nel sistema politico , la funzione principale della proprietà . Sopprimete questa funzione, oppure, il che sarebbe lo stesso, togliete alla proprietà il carattere assolutistico che le abbiamo attribuito e che la distingue : imponetele delle condizioni e dichiratela non cedibile e non reversibile; subito essa perde la sua forza e non conta più nulla ; essa ridiventa un semplice beneficio: un possesso precario , una dipendenza dello Stato senza possibilità di azioni contrarie”.
Parole profetiche, quelle di Proudhon; ma del tutto inascoltate, col risultato che nei Paesi dove il marxleninismo si è fatto Stato è stato compiuto il più catastrofico esperimento di ingegneria politica che la storia ricordi. Ma di ciò , evidentemente , non ha avuto notizia alcuna Ugo Mattei , autore di un presuntuoso libello pubblicato da Laterza nel quale si afferma con la massima sicurezza che è “falso” che senza proprietà non c’è libertà . Lo ha fatto ignorando non solo l’ammonimento di Proudhon , ma anche quello della storia. Il risultato è un libro mal concepito e peggio realizzato. Un libro che pervicacemente ribadisce il funesto dogma che per decenni ha dominato tanta parte della sinistra europea , letteralmente ipnotizzata dal mito della rivoluzione come rovesciamento violento della borghesia e soppressione della proprietà privata. In aggiunta, Mattei non spende una sola parola sulla saggezza della socialdemocrazia. La quale, presa coscienza delle conseguenze — rovinose sia dal punto di vista economico che dal punto di vista politico – del paradigma marxleninista , ha saggiamente modificato e la sua strategia e i suoi obbiettivi. Anziché uccidere quella che Bucharin chiamava “la gallina dalle uova d’oro” – l’ iniziativa privata – l’ha trattata — giusta la famosa metafora di Olof Palme – “come una pecora da tosare”. Di qui la nascita dello Stato sociale, ossia lo Stato che non s limita – come vuole la retorica liberista – a fare la guardia notturna della proprietà privata, ma che, al contrario, assume su di sé il dovere di garantire la fruizione universale e dei diritti civili e politici e di quelli sociali ( istruzione, sanità , pensioni, indennità di disoccupazione, case, ecc. ). Detto in altro modo, il socialismo riformista corregge – facendo ricorso alla leva fiscale — l’iniqua distribuzione della ricchezza che caratterizza il mercato autoregolato. Utilizzando la bella formula coniata da Giorgio Ruffolo, i socialisti riformisti dicono “sì all’economia di mercato; no alla società di mercato”. Accettano il capitalismo per forza maggiore, ma non accettano la sua versione liberista.
Di tutto ciò nulla si trova nel libro di Mattei. Il quale , al fondo, è un assurdo tentativo di tenere viva una tradizione politica – quella marxleninista –, la quale – proprio perché non aveva capito che “senza proprietà privata non c’è libertà” — , si è lasciata alle spalle una smisurata scia di cadaveri e un colossale cumulo di macerie materiali e morali.