-DI EDOARDO CRISAFULLI-
Il socialismo di Orwell è in sintonia con i valori laici e illuministici della civiltà occidentale. Un socialismo che rispetta il pluralismo e i diritti universali dell’uomo. Togliatti aveva ragione su un punto: Orwell era il figlio orgoglioso della borghesia illuminata: per lui la libertà era un valore inalienabile, che nessuno poteva sopprimere in nome di un’utopia, neppure la più nobile. L’uomo nasce spesso in catene e proprio per questo il suo impulso più potente è verso la libertà, diceva Marx. Ma la libertà non è borghese: appartiene all’umanità che alberga in ciascuno di noi, alla nostra essenza di animali sociali che hanno abbandonato uno Stato di natura ferino. L’inganno del comunismo è nell’aver sostituito alle vecchie catene dello sfruttamento capitalistico quelle dell’autoritarismo più disumano che la storia moderna abbia conosciuto.
Orwell introiettò il valore della tolleranza e l’ideale della libertà di coscienza germinati nell’humus della cultura britannica ben prima che i philosophes francesi apparissero sulla scena e ben prima che la Rivoluzione francese ponesse fine all’assolutismo con l’orrore della ghigliottina. Eh, già: i valori e gli ideali della civiltà liberale! Gli epigoni di Togliatti e Stalin li riconosceranno solo obtorto collo, con decenni di ritardo.
Orwell era nato in una terra di antiche libertà: la Monarchia inglese è stata la meno sanguinaria in Europa – il primo barlume di costituzionalismo, con la Magna Charta che limita i poteri assoluti del sovrano e codifica il principio dell’habeas corpus, risale addirittura al Medioevo. Non a caso l’Inghilterra è la patria di John Locke, padre del liberalismo. Ed è la culla dell’anglicanesimo, la più aperta e libertaria tra le confessioni protestanti. La Chiesa anglicana è sempre stata aliena dall’intransigenza dottrinaria e dalla durezza luterane che impregnarono tante coscienze nel mondo germanico.
Orwell crebbe e maturò in quel sostrato politico-religioso, distante anni luce dagli eccessi verbali, dalle contrapposizioni frontali, dagli odi di partito. Non poteva diventare un marxista acritico, uno così. Del resto, il socialismo britannico è quasi interamente riformista fin dalle origini: si pensi alla stupenda tradizione delle Trade Unions e della Fabian society. Un lascito straordinario di cui gli europei dovrebbero esser grati alla Gran Bretagna.
Ma Orwell aveva anche un carattere British tutto pervaso da un senso innato del decoro – la “common decency” –, qualità morale prima ancora che politica. Di qui l’allergia alle astrazioni ideologiche e ai voli pindarici; di qui l’inclinazione alla tolleranza, l’avversione per i furori ideologici, la repulsione per le ingiustizie e le prepotenze. La common decency consente di riconoscere il sopruso immediatamente, con l’intuito. Una tortura è una tortura. Questo dice il senso comune, che coincide col buon senso. Non c’è sofisma che possa offuscare tale elementare verità. Del resto, anche Churchill, conservatore della peggior risma e colonialista convinto della missione civilizzatrice dell’uomo bianco, alla fine non riuscirà a stringere un patto con la Germania hitleriana. Meglio perdere l’amato impero che darla vinta alla barbarie nazista.
Ora capiamo perché Orwell inorridisce in Spagna. Reagisce d’istinto di fronte alla violenza brutale e insensata degli stalinisti. A prescindere da ogni riflessione teorica. Non si fa incantare dal machiavellismo di bassa lega imperante in quel tempo folle. “La rivoluzione non è un pranzo di gala” – tutti i comunisti rivoluzionari, pappagalli compiaciuti di sé, ripetevano quel truce slogan di Lenin. No, la coscienza di Orwell insorgeva nel sentire queste bestialità: la common decency era il suo grillo parlante. Qualunque cosa fosse il socialismo, era tutt’altro da quel macello, frutto di un’ideologia imperniata sull’odio e sulla vendetta di classe. Un’ideologia che reclamava le sue vittime sacrificali sull’altare del progresso. Solo accatastando pile di cadaveri e facendo scorrere il sangue a fiotti, l’umanità sarebbe stata purgata dal peccato originale della proprietà privata. No, Orwell non poteva concepire che la civiltà europea si suicidasse in quel modo.
Il socialismo liberale era la sua stella polare. E quindi non poteva essere un dottrinario: i dogmi gli davano l’orticaria. Rifiutò sempre ogni cieca ortodossia. Cercò di creare un antidoto al veleno delle utopie totalizzanti: ripeteva, inascoltato, che la perfezione è impossibile su questa terra. L’esercizio del dubbio, il diritto di critica, e il dovere di auto-critica, furono per lui ragioni di vita. Tant’è che, pur predicando incessantemente la necessità dell’eguaglianza, non smise mai di elogiare l’intellighenzia liberale dell’Ottocento, sale della civiltà europea. Il suo culto della libertà era tale che un giorno giunse a dire: “la vera distinzione oggi non è quella tra conservatori e rivoluzionari bensì tra individui autoritari e spiriti libertari”. Era il 1948. Parole sacrosante, e tuttora attuali.
Orwell era un socialista tutto d’un pezzo. La sua cifra era la coerenza. Non smise mai di battersi per la giustizia e per la libertà, senza trarne mai alcun vantaggio personale. Visse in povertà pagando di persona le sue convinzioni. I disagi delle sue scelte di vita lo minarono nel fisico, condannandolo a una morte prematura, a soli 46 anni, nel 1950. Un socialista d’altri tempi.