– di NUNZIANTE MASTROLIA –
Ve li ricordate i ruggenti anni Novanta? Quando gli Stati Uniti gongolavano in quello che sembrava solo l’inizio di una nuova era di prosperità senza fine? Wall Street faceva registrare record su record, la disoccupazione era pressoché sparita senza che si attivassero tensioni inflazionistiche, e i cicli economici sembravano un ricordo del passato. Tutto questo mentre Clinton alla Casa Bianca lavorava indefessamente per ridurre il deficit federale ed il “maestro” (come lo definiva Woodward) Alan Greenspan guidava con fare oracolare la FED.
Quanto brillava in quegli anni The Capitol on the Hill! Washington non aveva solo trionfato nella sfida orientale della guerra fredda, quasi come Atene contro i Persiani, ma sembrava possedere il segreto dell’eterna giovinezza economica: il “verbo” del paradigma neoliberista. E il resto del mondo? Giaceva nelle tenebre, come la Sony che continuava a produrre walkman nell’era dell’ipod. Di qui la missione salvifica che gli Stati Uniti degli anni Novanta si sono imposti: la diffusione del verbo neoliberista a tutto il mondo, bacchettando, incitando, costringendo con strumenti hard o soft, tutti ad accettare la verità rivelata, a convertirsi, abiurando il vecchio paradigma del Keynes-Beveridge Consensus, e imponendo a tutti l’obbligo di conformare la propria esistenza alle virtù teologali del neoliberismo: competitività, lotta all’inflazione, tutela dei campioni nazionali, lotta contro il male (lo Stato ed i sindacati).
Quando poi la crisi si è abbattuta come un tifone su tutto il paese e Greenspan confessava di non capirci più nulla, la prima reazione è stata di incredulità: come è potuto accedere? Se il paradigma è, per definizione, vero, le cause della crisi andavano ricercate negli errori umani. Di qui le interpretazione morali della crisi: l’ingordigia dei banchieri, la corruzione dei politici, ma soprattutto l’edonismo di tutti i cittadini che hanno vissuto al di sopra delle proprie possibilità. Di qui la soluzione: penitenziagite! Purgatevi dei vostri peccati! Come ripeteva l’ex dolciniano frate Salvatore nel Nome della Rosa. In altre parole, austerity, pubblica e privata.
Ma se si guardano le cose con più attenzione e si mettono da parte queste inutili interpretazioni morali della crisi, le cose appaiono del tutto diverse. E si può allora scoprire che i cittadini americani si indebitavano perchè erano più poveri, che la polarizzazione economica e sociale era cresciuta esponenzialmente, che dietro il boom dell’occupazione vi erano posti precari e salari bassi e che se il reddito medio delle famiglie non sembrava essere calato era perchè molte donne erano state “costrette” a lavorare per poter far quadrare il bilancio domestico, dato che i salari erano fermi da metà degli anni Settanta.
Ora, se le famiglie americane avessero adeguato il livello dei propri consumi alla riduzione del proprio reddito, non solo la macchina economica americana si sarebbe fermata, ma ripercussioni enormi si sarebbero avute anche in Cina, ad esempio. Non dimentichiamoci che una grossa parte del boom cinese è frutto dei consumi americani ed europei. Come fare allora perchè, sebbene più poveri, i cittadini americani continuassero a consumare, come e più di prima? Semplice, favorendo l’indebitamento a buon mercato, basso costo del denaro, mutui subprime etc. Ovviamente questo è successo anche in Europa e stava prendendo piede anche in Italia: ve la ricordate quella pubblicità in cui una giovane coppia si recava in banca per chiedere un mutuo per la casa portando con sé una porta? Il messaggio pubblicitario della banca era semplice: il resto lo mettiamo noi. Quelli erano mutui subprime. Ebbene, quando le famiglie americane non ce l’hanno fatta più a pagare i propri debiti, il sistema è collassato.
Questo che cosa significa? Come ho scritto in precedenti occasioni, la crisi è il frutto di una questione sociale, causata dal paradigma neoliberista. Ma quello che qui mi interessa sottolineare è che nel corso di quei ruggenti anni Novanta, negli Stati Uniti si sono prodotti tutti gli elementi che avrebbero condotto alla tempesta perfetta del 2008.
La Germania di oggi sta vivendo i suoi ruggenti anni Novanta. Disoccupazione praticamente azzerata, le esportazioni volano, assillo della competitività, rigore nei conti pubblici e in più, anche in questo caso, una missione salvifica: diffondere il verbo neoliberista (la fede della Merkel) per salvare l’anima delle cicale meridionali.
Eppure a guardare bene si può osservare che la Germania, a partire da Schroeder con la sua Agenda 2010, è stata plasmata con accanimento secondo il paradigma neoliberista. Dietro la piena occupazione, infatti, vi sono salari da fame, precariato e una disuguaglianza economica che ha raggiunto livelli che in Cina farebbero venire i capelli bianchi alla leadership del PCC: in Germania “il 10 per cento della popolazione dispone di oltre il 60 per cento della ricchezza totale, e il 20 per cento dei più ricchi arriva a toccare l’80. L’indice di Gini sfiora in quel Paese lo 0,8: un livello eccezionalmente alto, ove si pensi che il livello 1 indica una distribuzione in cui un solo individuo possiede tutta la ricchezza (o percepisce l’intero reddito) di un Paese” (Gallino, 2013).
Oggi sono otto milioni i minijob (esenti da tasse e contributi previdenziali da parte del dipendente, mentre il datore li versa in misura assai ridotta) a 400 euro al mese. Sono il 25 per cento dei dipendenti, il 90 per cento dei quali riguardano le donne. Poca cosa? Forse no, se sommati al lavoro interinale e ad altre forme di part-time. Ma soprattutto se si considera che sono in crescita esponenziale. Il fenomeno è più diffuso nella Germania dell’Ovest, minoritario nei Länder dell’Est. A dicembre del 2012 l’ufficio federale del lavoro contava 7,5 milioni di lavoratori “mini” rispetto ai 5,9 del 2003 di cui 6,5 nei Länder occidentali, 940mila in quelli orientali. La Baviera, il Baden Württemberg, il Nordreno Westfalia sono le roccaforti del sistema esentasse. Aumenta inoltre la quota di quanti hanno un secondo lavoro “mini”. Alla fine dell’anno scorso erano 2,6 milioni più che raddoppiati dal milione del 2003. A ciò si aggiunga un ulteriore dato: i salari “normali” sono rimasti fermi dalla fine degli anni Novanta a oggi, con variazioni solo lievi, nonostante gli anni di crescita sostenuta che hanno preceduto la grande recessione, (Il sole 24 ore, 21 settembre 2013) e la ragione di questa mancata crescita è da individuarsi proprio nella rapida espansione del settore a basso salario, già in corso prima delle riforme Hartz. Inoltre, aumentano rispetto a 10 anni fa i lavoratori qualificati che ricevono un “basso salario”, cresciuti del 16.8 % dal 2001 al 2011. Nel complesso il 69.8% di tutti i lavoratori a “basso salario” ha completato una formazione professionale, l’8.7 % perfino uno studio di livello universitario, (Hans-Böckler-Stiftung n. 15/2013). Attenzione perchè quello della precarizzazione del mercato del lavoro e della corsa verso il basso dei salari è uno degli assiomi del credo neoliberista (insieme al taglio delle tasse ai ricchi) e una delle cause principali delle crescente disuguaglianza: sono i cambiamenti nei “meccanismi non di mercato, come le istituzioni del mercato del lavoro e le norme sociali relative alla disuguaglianza” che spiegano la polarizzazione dei redditi (Krugman, 2008).
Si sa, infatti, che la moneta cattiva scaccia la moneta buona, e così i contratti precari a basso salario stanno fagocitando il lavoro stabile. Basta vedere quanto accade in Italia, dove l’80% delle nuove assunzioni avviene con contratti di breve durata e sottopagati. In sintesi, “il Jobwunder tedesco è fondato sul lavoro a basso costo”, come scriveva Wolfgang Münchau (Der Spiegel, 4 settembre 2013), il che significa che la “prosperità tedesca è stata costruita sullo sfruttamento degli oppressi” (The Guardian, 30 agosto 2013).
E cosa c’è dietro il rigore della spesa pubblica? Il più basso livello di investimenti pubblici della storia contemporanea tedesca. Anzi la Germania è il solo paese OCSE a trovarsi in una situazione di disinvestimento pubblico. Detto altrimenti, le spese per la manutenzione delle strade e degli edifici pubblici sono insufficienti per compensarne l’usura. Dall’inizio degli anni 2000, il livello degli investimenti pubblici tedeschi è meno della metà di quello francese (Intervista a Guillaume Duval del 6 giugno 2013 su Ragemag.fr). Senza considerare i tagli allo stato sociale che hanno praticamente bloccato l’ascensore sociale.
Il risultato? La distruzione di quell’economia sociale di mercato che ha prodotto il più grande boom della storia economica e reso più umana la vita di milioni di cittadini europei.
L’austerity non è altro, infatti, che un vecchia fissazione dei neoliberisti, in quanto è uno strumento necessario ad “affamare la bestia” e cioè lo Stato. Se, infatti, si impedisce allo Stato di continuare a spendere nei servizi sociali le soluzioni sono due: chiudere il welfare state europeo o privatizzarlo.
La cosa inquietante è che Berlino, forte dei propri successi nell’export (in massima parte frutto dell’euro e dei deficit della zona euro) sente il dovere morale di imporre il proprio modello, fatto di “brutale neoliberismo” (Beck, 2013), a tutta l’Europa e lo fa con gli stessi strumenti che sono stati utilizzati in passato dall’FMI: aiuti in cambio di ristrutturazione neoliberista e in più una minaccia non tanto velata: “adeguatevi o finirete tutti come la Grecia”. Colpirne uno per educarne cento?
Di qui la corsa degli altri governi europei a fare diligentemente i compiti a casa. Con un’ulteriore aggravante, imporre il proprio modello attraverso i trattati. Berlino, in altre parole, sta tentando di plasmare tutta l’Europa a sua immagine e somiglianza. Il che significa, smantellare lo stato sociale, precarizzare ancora di più il mercato del lavoro, ridurre ulteriormente i salari, anzi una compressione salariale permanente. In sintesi trasformare la Germania e l’Europa in quella che era la Cina di qualche anno fa, un grande esportatore competitivo grazie al basso costo della manodopera. (Si veda Adam Posen, Germany is being crushed by its export obsession, Financial Times 3 settembre 2013). La conseguenza non potrà che essere quella di aumentare ulteriormente le disuguaglianze e far colare a picco la domanda aggregata dell’area euro.
C’è inoltre qualcosa di drammaticamente paradossale in tutto ciò: mentre Obama sta tentando di voltar pagine, mentre i cinesi stanno tentando di trasformarsi in socialdemocratici (almeno dal punto di vista delle politiche sociali), la Germania è rimasto l’unico paese (almeno tra le grandi potenze) a credere saldamente nei dogmi del neoliberismo, tanto da voler ristrutturare secondo questo paradigma, che si è mostrato fallimentare, tutta l’Europa.
Qualcuno potrebbe dire che almeno così ritorneremo ad essere competitivi sui mercati internazionali. Almeno cresceranno le esportazioni: una corazzata Europa che diventa un gigante dell’export. Temo che non sarà così. In primo luogo, con la cura tedesca avremo distrutto quello che era uno dei più grandi mercati per quanto riguarda i consumi e cioè l’Europa stessa. C’è, poi, il rischio che il mercato globale si vada chiudendo nel silenzio del WTO. Restano i paesi emergenti? Possiamo sempre vendere ai cinesi? E’ possibile, ma attenzione. I cinesi hanno compreso che il mercato lasciato a se stesso non produce automaticamente una ricca e prospera classe media, anzi, questa è il prodotto di una precisa azione politica. E’ così che a Pechino hanno deciso di costruire, con gli strumenti della politica, una ricca e prospera classe media, che possa permettere alla Cina di sganciarsi dai consumi delle bocche europee ed americane (per ora a pane ed acqua a causa dell’austerity) e correre sulla base dei consumi interni. Di qui la decisione di aumentare i salari, di qui la decisione di investire nella sanità pubblica, nell’istruzione e nella previdenza sociale. Dopo aver creato questo ricco mercato interno, con fondi pubblici, pensate che i cinesi lo lasceranno agli investitori internazionali? O potrebbero essere tentati di riservarlo alle imprese cinesi? Le grandi multinazionali già oggi non se la stanno passando tanto bene in Cina.
Queste sono, è vero, delle incognite. Ma una certezza c’è. Senza norme che ridistribuiscano la ricchezza o che tutelino il salario ed il lavoro, quanto si guadagna dalle esportazioni andrà ad arricchire pochi ed immiserire i più. E dunque, a che serve esportare, essere competitivi, vendere quanto più possibile a tutti, se il Paese, nel suo complesso, non ci guadagna niente, se non salari sempre più bassi, ansia da precariato, strutture sanitarie dai costi stellari per i malati e un sistema scolastico sempre più sgangherato?
In conclusione, il neoliberismo della Merkel è fallimentare per la stessa Germania e rischia di distruggere tutta l’Europa.
Nunziante Mastrolia
Come sostengo da anni, la Germania ha scatenato – con altri mezzi, direbbe Clausewitz – la terza guerra mondiale, e come sempre tutti, compresi i tedeschi, la perderanno.
Grazie di questo interessante articolo. L’ho letto e ci sono alcuni spunti interessanti, ma anche molte cose con cui non sono d’accordo. Comincerò con i pregi:
Di solito l’incomprensione fra tedeschi e italiani nasce dal fatto che gli italiani cercano di capire le idee dei tedeschi e i tedeschi vogliono sapere i numeri degli italiani. Allora di solito gli italiani forniscono cifre false o irrilevanti e i tedeschi presentano idee vecchie e stantie, non per cattiveria o per ingannare, ma perché entrambe le parti non hanno niente di meglio da offrire.
Sotto questo profilo l’articolo, con tutte quelle cifre, sembra molto più tedesco che italiano e certamente è utile, se non altro per chiedersi quali sarebbero i corrispondenti valori in Italia. Stranamente gli errori dell’analisi stanno più sul piano ideale, soprattutto perchè parte da alcuni presupposti sbagliati e suggerisce conclusioni poco utili.
Inanzitutto è un abbaglio colossale anoverare la Merkel fra i neoliberisti. In campo economico il suo primo governo con la SPD ha realizzato soprattutto l’agenda dei socialdemocratici. In tutto questo tempo la CDU di Merkel si è spostata sempre più a sinistra. Quando poi ha dato vita alla coalizione con la FDP, alcuni pensavano che questo sarebbe cambiato, ma è successo il contrario. Poiché il quadro generale era mutato a causa della crisi finanziaria, il Liberali non sono riusciti ad imporre quasi niente del loro programma e il governo ha continuato con l’agenda socialdemocratica solo leggermente corretta. Anche per questo motivo i Liberali sono stati puniti dall’elettorato ormai convinto che la loro presenza era del tutto inutile.
Pertanto dire che la Germania sta seguendo un percorso neoliberista ha un senso solo se si applicano i parametri del 1975. Questo discorso non è solo sbagliato, ma addirittura mistificatore, perché significa attribuire all’ideologia neoliberista i successi del paese. Una Sinistra che ragiona così rimarrà sempre perdente.
Vediamo allora cosa dice l’articolo nello specifico:
Dice che in Germania ci sono “salari da fame”!????! Magari li avessimo in Italia.
Poi dice che ci sono “contratti precari”. Cosa diranno i precari italiani al proposito? Magari avessimo dei contratti!
Poi dice che questi contratti stanno “fagocitando il lavoro stabile”. Okay, questo c’è ancora in Italia (nel pubblico), ma è meglio non vantarsene perché potrebbe far incazzare un po’ di gente che non ha mai avuto la minima chance di avvicinarsi a questa bella cosa.
Dopo dice che la Germania ha raggiunto il “più basso livello di investimenti pubblici della storia”. Forse sarà perché siamo stati in grado di far fare gli investimenti all’industria privata? La sola Volkswagen investe oltre 12 miliardi all’anno in ricerca e sviluppo. Non ho cifre precise, ma dovrebbe essere più o meno quanto tutta la Repubblica Italiana.
Da qualche parte dice che le infrastrutture, soprattutto le strade, cadono a pezzi. In effetti ci fanno invidia le autostrade italiane o croate e attualmente a Berlino stanno studiando le possibilità per fare qualcosa di simile anche in Germania.
Infine dice che “quanto si guadagna dalle esportazioni andrà ad arricchire pochi”. Domanda un po’ agli operai specializzati della Miele! Per caso ci ho un cugino, uno che di ideologie non ha mai capito niente. Eppure prende parecchi soldi aggiuntivi perché in passato ha fatto certe proposte per migliorare il processo produttivo. Se lo fai in Italia sei un rompiscatole!
Da qualche parte l’articolo sembrava pure suggerire che la Germania si sta indebidando. È vero, infatti ha sfondato gli obiettivi di Maastricht. Ma allora delle due l’una: O spendiamo troppo oppure troppo poco. La risposta l’ha data proprio oggi la Merkel. La verità è che la Germania sta combattendo con tutte le sue forze per mantenere il benessere dei suoi cittadini. Questo significa che certi “diritti acquisiti”, che a tutti quelli che non ce l’hanno appaiono più come “privilegi”, non possono più essere pagati. È una lotta dura, ma forse sarebbe il caso che anche l’Italia cominciasse a combattere?
Il problema è che gli Italiani, distratti come sono, non capiscono neanche la necessità. Questa necessità deriva dal fatto che il mondo è cambiato. Soprattutto perché sono finiti i bei tempi in cui stavamo sfruttando l’ignoranza del terzo mondo. Grazie a Internet, da quindici anni a questa parte, c’è un flusso continuo di know how dai paesi industrializzati verso quelli in via di sviluppo e sempre più anche verso quelli sottosviluppati. Tutte le belle conquiste del nostro stato sociale, scusate se lo dico con tanta franchezza, si reggevano anche su questi squilibri del passato che ora non ci aiutano più.
Chi è pieno di ideologie vecchie e giudica il mondo con i termini e parametri del 1975 non ha la minima speranza di capire queste cose. In effetti, mi sembra piuttosto evidente che certa sinistra italiana non capisce più neanche il proprio paese, figuriamoci la Germania, la Cina o il Brasile.
Torniamo dunque al caso italiano. Negli ultimi quindici anni questo paese si è distinto soprattutto per la deindustrializzazione galoppante e la produttività stagnante. Credete davvero che questo sia colpa del fantomatico “neoliberismo”, che per altro non ci è mai arrivato, certamente non con Berlusconi? Credete davvero che una buona dose di statalismo avrebbe migliorato la situazione? Mi basta una parola per smentire tutte queste certezze e speranze: ALITALIA!
Nelle classifiche internazionali l’Italia è terzultima per quanto riguarda la crescita (davanti a Zimbabwe e Somalia) e pare addiritura ultima per quanto riguarda la produttività (che è negativa, caso unico al mondo). Colpa del liberismo (?) di Berlusconi?
La Germania invece è campione d’esportazione e uno dei pochi paesi che riesce a difendere lo stato sociale e la classe media. Merito del liberismo di Schröder e Merkel?
Qui c’è qualcosa che non quadra e io direi piuttosto che il disastro italiano è colpa del corporativismo Berlusconiano e i successi della Germania sono merito di una Sinistra moderna che pur con qualche difficoltà ha saputo governare i cambiamenti. Questo dovrebbe suonare molto meglio anche alle orecchie dell’elettorato, credo!
Piuttosto che perdersi in vecchi meandri ideologici la sinistra italiana farebbe meglio a ricordare che lo stato può redistribuire solo quello che l’economia (e in particolare l’industria) produce. La prima lezione all*università spiega che l’economia è l’allocazione razionale delle risorse scarse. Questo significa per esempio che quando si detassano le case e si aumentano quelle sul lavor e sulle attività produttive, come hanno fatto Berlusconi, Tremonti, Brunetta e ora Letta, la gente sposterà i suoi risparmi sul settore immobiliare. Ecco la vera ragion perché l’Italia è immmobile e la sua industria sull’orlo dell’estinzione.
Ma considerando i risultati delle ultime elezioni politiche sembrerebbe che solo una piccola parte dei cittadini si è posto la domanda su chi ha affossato l’economia del paese e una bella fetta sembra ancora fidarsi del principale autore del disastro. Sarebbe il caso che la Sinistra gli dia un nome e non chiamatelo liberista, per favore, perché non lo è.
Per intendersi sulle cose che non vanno in Italia, faccio un esempio, nominando tre tipi di commercianti: benzinai, tabaccai, giornalai.
Quando l’ho fatto l’altra sera con un gruppo di economisti e sociologi, i miei colleghi si sono subito precipitati a spiegare la situazione giuridica di queste tre categorie: monopolio dello Stato, concessionari e altra roba complicata. Il fatto è che questi esercizi sono molto chiaramente divisi e gli uni non possono vendere i prodotti degli altri.
Quando vado invece dal mio benzinaio in Germania compro tutto allo stesso banco: benzina, gomme, sigarette, francobolli, giornali, birra, gelato e quant’altro. Credo che sia così ormai in tutto il mondo. Solo l’Italia rimane ancora in disparte, confermando la divisione e mandando tutti quanti in rovina. In effetti non capisco come riescono a sopravivere ancora le mini-pompe e i tabaccai e giornalai di periferia, considerando che il mio benzinaio in Germania, pagato affitto e tasse, riesce a malapena a sopravvivere.
In Italia questa situazione è stata riconosciuta come insostenibile dal governo Prodi/Bersani che contro mille resistenze è riuscito ad imporre una minima apertura che ci permette ora di comprare i giornali anche al supermercato.
Ma appena finita questa “traumatica” esperienza è tornato Berlusconi a difendere tutte le categorie care, tutti i monopoli e tutte le posizioni di rendita. Questo non è liberismo, ma corporativismo, la peggiore variante dello statalismo.
Il prezzo, per chi non se ne fosse ancora accorto, è stata la distruzione di tutte le opportunità per i giovani volenteroso!
Nessun altro paese al mondo tratta i suoi giovani talenti peggio dell’Italia. Si direbbe che non sa proprio cosa farsene! Ma la cara Sinistra, persino quella onesta, continua ancora a deplorare le “devastazioni prodotte dal liberismo”! Magari ci fosse mai arrivato un briciolo!
Un Sinistra che continua a riproporre questi vecchi scheme e queste ideologie stantie non potrà essere salvata nemmeno dalla bella faccia di Renzi!
Cosa bisognerebbe fare dunque? Non per far contenta la Merkel e la troika, ma per dare una prospettiva ai giovani …
Ecco, non c’è dubbio che dopo dieci anni di Berlusconismo le risorse scarseggiano in questo paese, ma c’è anche parecchio che è ancora intatto, e che forse non si vede o non si considera. Allora la mia domanda è questa: Esiste qualche possibilità di utilizzare le risorse già impegnate in maniera più giusta e razionale e di mobilitare, inoltre, quelle ancora nascoste? Se la risposta è sì, fate presto, perché se no a questa gloriosa nazione, una voltra fra le prime del mondo industrializzato, rimarranno solo macerie!