Gli intellettuali come classe

E’ enorme, anche di mole, l’ultimo libro, recentissimo, di Luciano Pellicani (635 pagine): La società dei giusti. Parabola storica dello gnosticismo rivoluzionario (Rubbettino). Tutto dedicato alla figura specialissima e singolare dell’intellettuale come rivoluzionario di professione (“uno dei più straordinari tipi antropologici dell’intera storia dell’umanità”): specie d’uomo che ha raggiunto il culmine della sua forma d’essere nel XX secolo, ma che affonda le sue radici mentali, spirituali e psicologiche nella più remota antichità della tradizione occidentale, nell’era critica del passaggio dalla classicità (si legga pure dalla paganità) alla cristianità con l’insorgenza del pensiero gnostico, mutuato poi prodigiosamente, attraverso i secoli, nell’era della secolarizzazione in piena modernità.

Nell’analisi classificatoria che ne fa Pellicani, lo gnostico è il tipo d’intellettuale, che, per esclusiva autodichiarazione della propria identità e della propria essenza, reputa di essere il portatore di un sapere, che, per il solo fatto di essere elaborato come sapere risolutore di verità, è anche salvifico della realtà. Una purificazione da salvazione che si pone come processo di riscatto etico del mondo stesso, a costo della sua stessa distruzione, là dove il mondo si rifiutasse di accogliere in sé la “rivoluzione” salvifica proposta. Nell’era moderna questa prospettiva escatologica ha assunto la forma della “Gnosi dialettica”: lo schema intellettuale precipuo del giacobinismo, prima, e, inseguito, del leninismo.

Con questa definizione della Gnosi (teologica o dialettica che essa sia), Pellicani ha modo di descrivere tutta una concezione-guida del nichilismo occidentale, sia a matrice religiosa e sia a matrice laicista, intesa, quest’ultima, come prospettiva rivoluzionaria, culminata, poi, nella “maieutica” del Terrore.

Impostato prevalentemente come disamina di quest’aspetto settoriale, tuttavia il libro di Pellicani si pone anche come un grande libro di storia, a narrazione completa e, caratteristica tutta sua, con una finalità dichiaratamente agonistica: esigenza, questa, di una sua insistenza su una problematica tuttora aperta, anche se storicamente dovrebbe considerarsi già giudicata. Ha le sue ragioni per farlo. E sono ragioni non soltanto storiche.

Ma non è propriamente su questo risvolto agonistico che qui si vorrebbe dare un’indicazione di merito su questo libro, che, come si è già detto, è enorme. Ci si limita, infatti, a mettere in evidenza soltanto un punto, sufficiente di per sé a dare impronta e importanza a tutto quanto il libro. Un punto che è tutto contenuto nel titolo del primo capitolo: Gli intellettuali come classe.

E’ un capitolo che “fa libro” per conto proprio e che può valere come concetto guida per leggere tutto il resto contenuto in questo ponderoso trattato, documentatissimo con tanto di accumulo di prove a carico del concetto e della storia dello gnosticismo soprattutto “dialettico”: aspetto, questo, dal quale la presente nota, pur tenendolo in conto come questione principale, in parte si distacca perché attratta da un aspetto teorico più generale, che magari l’elaborazione di Pellicani tiene in secondo piano, ma che, a una lettura differenziata, può, invece, apparire di primissimo piano, che, infatti, sul piano dottrinario, ne costituisce questione di fondamento, in senso più generale.

E’ l’aspetto per cui gli intellettuali sono considerati come una classe a sé: una categoria antropologica staccata dal resto del genere umano non differenziato culturalmente, come, invece, lo sono gli intellettuali, cioè gli specialisti delle questioni del sapere, soprattutto quali protagonisti della produzione simbolica e, di conseguenza, quali costruttori di “sistemi” ideali: la caratteristica precipua che fa di loro dei “funzionari” dell’umanità, delegati a decidere di ciò che è verità o non verità, di ciò che è bene o di ciò che è male.

E’ chiaro che, una volta impostato il problema in questo senso, gli intellettuali sono portati di per sé, anche se lo negano (o piuttosto non lo dichiarano), a qualificarsi come una classe con interessi distinti da quelli di altre classi umane, al di sopra delle quali mirano ad assumere una posizione di “egemonia” in campo politico, quale conseguenza della detenzione, da parte loro, del primato del sapere. Infatti, punto cruciale, della loro apparizione e funzione (non importa se in veste di uomini di una religione o di uomini addetti alla scienza) è quello di porsi come decisori delle elaborazioni, mediazioni ed esecuzioni dei rapporti che intercorrono tra il sapere (i saperi) e il potere (i poteri).

Il quadro che risulta dalla lettura del libro di Pellicani, per quest’aspetto, è addirittura impressionante. Sul piano personale del suo excursus di studioso, questo suo ultimo libro potrebbe essere non meno importante del suo testo fondamentale: Saggio sulla genesi del capitalismo. Alle origini della modernità (1988). La sua trattazione è tale da assumere una valenza, che scavalca le motivazioni da descrizione storica, per svolgersi come questione di definizione teorica sulla figura dell’intellettuale nel panorama complessivo delle cose umane (con pretese e attese che riguardano anche quelle divine: con tutte le “catastroficità” che ne conseguono).

Per certi aspetti, questo è un libro sul tragico dell’uomo, proprio perché l’identità dell’intellettuale che vi emerge è di natura tragica, soprattutto quando costui si accosta alla dimensione politica, dove tende a porsi “faustianamente” come demiurgo della marcia verso il potere: soprattutto quella del rivoluzionario di professione, con tutte le “catastroficità”, appunto, che ne conseguono.

Cesare Milanese

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