Il diritto di morire

Guai a codificare l’eutanasia per legge: il diritto di morire è una “mostruosità”, ed è bene che non esista. Così Zagrebelski, intervistato da Silvia Truzzi (Il fatto, 29.12.11) – eppure l’insigne giurista afferma di credere nella laicità! Musica per le orecchie dei notabili del PD, partito che, per sopravvivere, deve conciliare le ragioni dei laici con quelle dei cattolici. Ma, ancora una volta, il compromesso tra gli uni e gli altri è al ribasso. Il casus belli è la decisione – sofferta — di Lucio Magri, che ha scelto di morire in una clinica svizzera. Non uso eufemismi – spegnersi, scomparire, andarsene ecc. Magri ha scelto di morire, e lo ha fatto senza fanfare, con dignità e coraggio. Un gesto del genere non può che destare orrore nella coscienza di un cattolico (o musulmano) integralista. Noi socialisti, laici e libertari, rendiamo l’onore delle armi a un compagno della sinistra radicale: a un uomo colto, intelligente, e coerente fino in fondo.

La società, ragiona Zagrebelski, deve infondere speranza e curare: bisogna creare “le condizioni perché la persona possa vivere degnamente, non aiutarla a morire”. Quale laico dissentirebbe? Piergiorgio Welby disse che “la morte non può essere ‘dignitosa’; dignitosa, ovvero decorosa, dovrebbe essere la vita, in special modo quando si va affievolendo a causa della vecchiaia o delle malattie incurabili e inguaribili”.

Ma a una premessa ragionevole segue un ragionamento bizzarro: siccome gran parte dei suicidi è dovuta a ingiustizie, a malattie psichiche e alla solitudine, l’eutanasia di Stato significherebbe, di fatto, aiutare malati, depressi e malinconici a suicidarsi. Non è onesto impostare la questione così. Perché mai una legge sulla ‘dolce morte’ dovrebbe contemplare per forza di cose un diritto generalizzato al suicidio? Dal diritto romano in poi, fior fiore di giuristi hanno saputo distinguere tra mille sfumature, concettualizzando e regolando una miriade di casi concreti. Nessun laico “sano di mente” pretende una legge che autorizzi i medici a dare una pillola di cianuro a una casalinga esaurita, a un adolescente in crisi dopo una bocciatura, a un operaio depresso perché ha perso il lavoro. In questi casi si consiglieranno antidepressivi o una terapia psicologica. E, laddove possibile, tanta politica: l’operaio, guarite le ferite dell’anima, dovrà lottare per la propria emancipazione. Il diritto di morire va garantito al malato senza speranze di guarigione, e a chi è giunto, come nel caso di Magri, al crepuscolo della propria esistenza. Ma anche escludendo quest’ultimo caso (Magri, chissà, sarebbe potuto arrivare a cent’anni, come Rita Levi Montalcini), rimane il malato terminale, oppure chi – come Piergiorgio Welby – è condannato a rimanere immobile su un letto, inchiodato a una croce per mesi e, forse, anni interminabili, in attesa di una morte liberatoria. In nome di quale superiore moralità questa tortura? Quale Dio crudele e capriccioso può pretendere così tanto da un essere umano?

La questione sembra ruotare attorno a un avverbio. Se vogliamo vivere dignitosamente perché non possiamo pretendere di morire dignitosamente? La qualità della vita implica la qualità della morte! La questione, però, è complessa. Come scrisse Welby, “definire la morte per eutanasia “dignitosa” è un modo di negare la tragicità del morire”. Dignità, dunque, significa anzitutto garantire al malato libertà di scelta. Non alludo al rifiuto delle cure, un diritto che anche Zagrebelski riconosce, benché spesso sia un’eutanasia indiretta e mascherata – escamotage consono a una cultura, quella italiana, traboccante ipocrisia gesuitica. No, parlo della possibilità, per chi è capace di intendere e volere, di premere un fantomatico bottone e farla finita, senza aspettare che la natura commini a suo piacimento la sentenza di morte che aleggia sulle nostre teste. Troppo facile staccare la spina alla chetichella, o rifiutare i farmaci e lasciarsi morire, affinché il Parlamento non sia costretto a dover legiferare in favore di un diritto positivo di libertà.

La cultura laico-socialista inneggia alla vita, non alla morte. È una cultura progressista, ottimista, che si concentra su ciò che è immanente, su questa vita terrena, unico orizzonte concreto e conoscibile – il trascendente lo lascia ai preti, agli imam, ai maghi e agli indovini. I laici si sono sempre battuti per migliorare la condizione umana. Ma quando la morte è certa e imminente, e non l’abbiamo cercata noi, oppure la vita è un supplizio a causa di una malattia debilitante, il diritto a una vita dignitosa implica il diritto di anticipare i tempi della nostra fine. Il problema rimarrà anche quando la medicina, che ha già fatto passi da gigante nella terapia del dolore, sarà riuscita a eliminare ogni tipo di sofferenza psico-fisica. Ci sarà sempre chi, legittimamente, non vuole diventare un vegetale imbottito di farmaci, cavia nelle mani dei medici.

La modernità implica anzitutto libertà di coscienza. Per tutti: religiosi e laici. Purché la libertà degli uni non confligga con quella degli altri. I religiosi integralisti vogliono imporre a tutti la loro morale, che reputano l’unica “vera”. Agiscono per il nostro bene: soffocando la nostra libertà, pensando di salvarci dal male. Noi laici non imponiamo nulla a nessuno. La mia libertà di laico non limita in alcun modo la libertà del credente, il quale può trascinare la croce che il destino gli ha assegnato, per il bene della sua anima e a maggior gloria di Dio. Lo dico senza ironia, con rispetto. Mia madre, che era cattolica, è morta così. Voleva morire così. Io che sono laico e, forse, anche più vigliacco e più presuntuoso, voglio poter scegliere tra l’accanimento terapeutico e l’eutanasia.

Il diritto di morire non è un “diritto al nulla”, né il delirio di onnipotenza di un super-uomo che si arroga una libertà “estrema”, “massima”. È un semplice, ma fondamentale, diritto di libertà. Non è neppure una fuga dalle proprie responsabilità. È, piuttosto, un gesto di rivolta contro la più naturale e tragica delle necessità: la nostra fine biologica, cui siamo destinati. Quando tutto sarà perduto o privo di senso, vorrò sottrarre un po’ di potere a una natura tirannica, che vuol decidere imperiosamente, senza consultarmi, quando è ora di calare il sipario. Uno Stato civile – laico e liberal-democratico – deve garantirmi la facoltà di scegliere i tempi e i modi del mio redde rationem col mistero della morte. Non può abbandonarmi costringendomi al suicidio “fai da te”. Il mio corpo e la mia coscienza mi appartengono, e pretendo di disporne io, nei limiti delle leggi vigenti e secondo la morale che io mi sono scelto. Non intendo delegare ogni decisione ai medici. Né accetto che Chiese onnipotenti o Stati etici decidano qual è il mio bene. Sono maggiorenne, sono dotato di ”libero arbitrio”, e quindi so sbagliare e “dannarmi” da solo. E me ne assumo per intero le responsabilità. Di fronte agli uomini e, se esiste, dinanzi al Padreterno.

Edoardo Crisafulli

fondazione nenni

Via Alberto Caroncini 19, Roma www.fondazionenenni.it

One thought on “Il diritto di morire

  1. Ecco, apprezzo le intenzioni dell’articolo, ma credo si debba fare un passo in più e prendere posizione per la libertà non solo di ottenere l’eutanasia in caso estremi, ma semplicemente di suicidarsi.

    A parte i noti paradossi insiti nel relativo “divieto” (dalla difficoltà di punirne la violazione a quella di costringerne l’osservanza), a *nessuno* in Europa, neppure al regime più tirannico ed assolutista, era mai venuto in mente di mettere in discussione questa libertà sino a che non vi si è impiantato il monoteismo, ed anche dopo l’opinione contraria è rimasta talmente radicata che si è dovuto attendere sino alla fine del medioevo perché tale pretesa fosse incorporata non solo nel diritto canonico (divieto di sepoltura in terra consacrata, etc.) ma anche nelle leggi civili.

    Resta certo la grave questione di appurare quale sia la “vera” volontà del candidato al suicidio, che può benissimo comportare il rifiuto prudenziale dei mezzi per suicidarsi (più facilmente, o in modo meno doloroso) in qualsiasi caso sia anche solo ipotizzabile un’alterazione o diminuzione delle capacità del soggetto – che per altro può ben verificarsi nei malati terminali a maggior ragione che nelle casalinghe depresse – o la sua soggezione a pressioni o influenze esterne.

    Ma un conto è la politica legislativa, un conto sono i valori su cui questa si basa, e parlare della libertà di morire come di un delirio di onnipotenza (delirio evidentemente riservato in monopolio al protagonista della mitologia biblica) mi sembra una concessione eccessiva. E il fatto stesso, come transumanista, di appoggiare la ricerca volta con ogni mezzo a verificare la possibilità di estendere o rendere indefinito il nostro lifespan (altra cosa non a caso parimenti condannata come blasfemia e “superomismo delirante”) implica una visione positiva della vita come scelta quotidiana, e non come condanna.

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