Alcune risposte ad Alesina e Giavazzi

Dieci proposte per sbloccare l’Italia. Riforme a costo zero per dare la scossa al paese e senza le litanie tipiche della concertazione. Giavazzi e Alesina propongono una agenda di riforme per il paese. E allora discutiamone. Discutiamo della concertazione e delle lentezze che in più di una occasione ha prodotto. Senza parlare dei veti incrociati che a più riprese hanno bloccato ipotesi di riforme, tentate tanto da destra quanto da sinistra. Ma le procedure non sono sempre la sostanza. Né la lentezza delle decisioni è da addebitare in Italia alla sola concertazione. Sono ben altre le resistenze corporative, così si dice in certi ambienti, che bloccano il paese. Ma vediamo le proposte, perché è questo quello che qui ci interessa. Punto numero uno, il mercato del lavoro. I due economisti propongono di sbloccare il mercato del lavoro attraverso l’introduzione di contratti unici per tutti i lavoratori, tipici e atipici. Si tratta di un intervento che certamente va a incedire su uno dei nodi storici del mercato del lavoro italiano, ovvero il forte dualismo tra chi è dentro il perimetro del lavoro a tempo determinato e chi si trova più ai margini, esposto agli effetti più negativi della precarietà lavorativa, senza peraltro potere contare né su ammortizzatori sociali, né su strumenti di assistenza dedicati (sul modello del reddito minimo di inserimento per intenderci, o del Revenue Minimum Insertion in Francia, da qualche anno sostituito dal Revenue Solidarité Active). A completamento di tutto ciò Giavazzi e Alesina propongono di istituire un sussidio di disoccupazione ispirato al modello della flexicurity. Pare di intendere che si abbia in mente un modello di tipo universale, un sistema cioè di indennizzi universalmente disponibili per tutti i lavoratori a cui presumibilmente agganciare politiche attive del lavoro in cambio di una generale de regolazione dei rapporti di lavoro e maggiore liberta di licenziamento.

E qui indirettamente arriviamo anche al punto successivo, quello dell’articolo 8. Tutto bene fin qui? Non proprio. I due studiosi dimenticano un particolare nelle proposte che illustrano al Corriere. A patto che ci si voglia ispirare a quei paesi che il modello della flexicurity lo hanno davvero introdotto, i paesi scandinavi, esso non consiste semplicemente in uno scambio tra flessibilità, deregolazione dei rapporti di lavoro e sostegno alla continuità del reddito per tutti. In realtà politiche di questo genere (passive e attive) sono da sempre accompagnate da forti politiche industriali con lo scopo non solo di tutelare la continuità del reddito, quanto soprattutto di innalzare costantemente il livello delle produzioni e della conseguente qualificazione dell’offerta di lavoro. Solo in questa ottica si chiarisce meglio il senso di questo modello che anche l’Europa sembra avere sposato. Anche in questo caso dimenticando tuttavia l’importanza delle politiche della domanda come prerequisito di buone politiche attive del lavoro, che in caso contrario corrono il rischio di scaricarsi sui soli soggetti marginali del mercato del lavoro. A essi si offre un sussidio in cambio di un reinserimento purché sia, senza intervenire sui contesti produttivi entro cui questi inserimenti e reinserimenti avvengono. Il problema appare particolarmente evidente in Italia, dove certo non si può dire manchino politiche per l’inserimento lavorativo, per l’adattabilità, per l’occupabilità (come recitava il mantra della vecchia Strategia Europea per l’Occupazione). In questi anni sono stati introdotti meccanismi atti a facilitare l’incontro tra domanda e offerta, così come molto si è già fatto in termini di deregolazione del mercato del lavoro, a cominciare dalla legge 30. Dunque c’è bisogno di ulteriore flessibilità? In realtà c’è bisogno in Italia più che mai di politiche industriali, di politiche per la ricerca, di veri piani per l’ammodernamento produttivo del paese. Come spiegarsi altrimenti il caso dei tanti laureati e neolaureati che non trovano occupazione, mentre per contro non mancano mai, o mancano di meno, richieste per lavori meno qualificati. Certo qualcuno potrebbe credere alla retorica dei bamboccioni, oppure a quanto detto a più riprese dall’attuale Ministro del lavoro, secondo cui i giovani italiani non hanno voglia di sporcarsi le mani con lavori di basso livello, con la fatica quella vera. Può anche essere ma certamente non è da questo che si misura la capacità di innovare di un paese. Il problema è ben più ampio e riguarda l’incapacità del sistema produttivo di assorbire quote di manodopera altamente qualificata, per la scarsa presenza di grandi imprese, per la bassa propensione a investire di quelle piccole. Stanno qui alcuni dei principali nodi delle mancate scelte italiane. Scelte che hanno alla base un problema di risorse. Dove reperire le risorse per fare quello che per troppi anni non si è fatto in Italia, o ci si è dimenticati troppo in fretta? Su questo punto Giavazzi e Alesina, propongono incentivi per l’occupazione femminile, differenziazioni salariali su base territoriale nel pubblico impiego (presumibilmente si ritiene che lo stesso debba essere fatto per il privato), la riforma delle pensioni di anzianità, lotta all’evasione, riforma della giustizia, liberalizzazioni, dimezzamento dei costi della politica. Un bel paniere di riforme si direbbe e alcune anche auspicabili, a cominciare dalla liberalizzazione degli ordini professionali e dalla riforma della giustizia. Per non parlare del sostegno all’occupazione femminile, della lotta all’evasione fiscale. Ma può bastare tutto ciò a fare crescere il paese? Certamente alcune misure si, come il sostegno all’occupazione femminile. Ma a due condizioni. Che questo sostegno non sia di sole agevolazioni fiscali o fantomatiche aliquote rosa. Ben diversa è un piano di welfare fatto di servizi all’infanzia e misure di conciliazione premiali per le donne (ma anche gli uomini). I servizi sono d’altra parte importanti non solo per la risposta ai bisogni sociali ma anche per la creazione di occupazione, diretta e indiretta, che essi comportano. Ma anche questo da solo non basta. Come favorire l’occupazione delle donne, laddove anche quella maschile è scarsa, come in molte aree del Mezzogiorno? Diversificando i salari nel pubblico impiego come ritengono i due autori, ovvero lasciando che quelli pubblici del Sud diventino ancora più bassi? Inserendo ulteriori dosi di flessibilità nel mercato del lavoro come anche l’ultimo documento del governo sullo sviluppo sembra prevedere? No, non sarà così. E il nodo è politico, oltre che relativo alla risorse. Lo sviluppo del Nord, quanto del Sud, passa per la ripresa produttiva del paese, intendendo con questo la crescita e l’ammodernamento del suo apparato produttivo, a partire da quelle aree dove le imprese italiane (perché troppo piccole, perché poco inclini a innovare, perché più interessate a ricercare bassi costi della manodopera magari nei paesi dove si delocalizzano molte delle produzioni manifatturiere) sono deboli o poco presenti. Occorre uno shock di modernizzazione, capace di trainare il tessuto produttivo, anche quello più attardato su soluzioni e produzioni meno inclini all’innovazione. Uno shock di ricerca, di razionalizzazione e riordino delle competenze amministrative, di politica industriale nazionale, per i privati ma anche dello Stato in favore delle imprese private. Senza per forza replicare vecchi modelli di intervento dirigisti, ma nemmeno proseguire sulla strada dei soli meccanismi di incentivazione fiscale, rivelatisi inefficaci, occorre operare per riorganizzare la macchina amministrativa, individuando quelle aree strategiche di sviluppo su cui convogliare nuove risorse finanziarie. Il nodo è tutto politico su questo piano. Dove reperire risorse aggiuntive? Attraverso quali canali e scontentando chi? Ad oggi tutto si può dire, ma certamente non è dalla previdenza che queste risorse possono arrivare. Se il problema come si dice è la sostenibilità del sistema pensionistico italiano, questa è già stata assicurata con le riforme dell’ultimo decennio, al costo di pesanti riduzioni che si andranno a scaricare sulle nuove generazioni. Si può ragionare di un allungamento progressivo dell’età pensionabile, ma non è nemmeno da qui che possono arrivare le risorse di cui il paese ha bisogno. Se il lavoro dipendente ha già dato abbastanza, non rimane che un’altra strada. E’ una strada in salita, costellata di resistenze e chiusure ben più forti di quelle opposte dalle organizzazioni sindacali a piani di riforma delle pensioni. E’ tuttavia l’unica strada che può portare fuori dalle secche il paese: incidere sulla vasta area sommersa dell’evasione fiscale, introdurre imposte di tassazione sui patrimoni, sulle rendite mobiliari e immobiliari. E’ ora che il salvataggio del paese pesi sulle spalle di tutti e non di alcuni solamente. Un salvataggio vero, non per galleggiare, ma per ricostruire, rilanciare la struttura produttiva e con essa una più equa distribuzione della ricchezza in un paese già oggi molto diseguale al proprio interno e che rischia di esserlo ancora di più in futuro.

Andrea Ciarini

fondazione nenni

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