Se la guerra è causa della crisi

Paul Krugman, premio Nobel per l’economia, parlando recentemente in un centro culturale ebraico di Manhattan, il “92nd Street Y”, ha detto che ora l’America “ha bisogno dell’equivalente finanziario di una guerra” ed ha ricordato che nella seconda guerra mondiale gli USA gettarono oltre il 42% del PIL mentre le guerre in Iraq ed Afghanistan non hanno stimolato sufficientemente l’ economia americana perche’ hanno drenato solo l’1,2% del PIL. Krugman ha concluso il suo intervento sostenendo, in tono semiserio, che sarebbe auspicabile oggi un riarmo degli USA per fronteggiare un eventuale attacco degli alieni. La notizia e’ stata ripresa dal Corriere della Sera nell’edizione del 29 settembre scorso. Ma davvero la guerra – come sostiene Krugman – genererebbe crescita economica oppure precipiterebbe il mondo in una nuova e peggiore fase recessiva? A questa domanda risponde molto bene il libro “Banchieri, politici e militari” dell’economista Innocenzo Cipolletta, gia’ direttore generale di Confindustria e presidente di Ferrovie dello Stato, ed oggi al vertice della controllata italiana del gruppo bancario svizzero UBS. Cipolletta spiega come dalla guerra del Vietnam si sia arrivati al terrorismo internazionale. Infatti, il gravoso impegno militare nel Sud Est asiatico porto’ gli Stati Uniti ad un forte aumento della spesa pubblica e di conseguenza al disavanzo nei pagamenti internazionali. I “disavanzi gemelli” indussero gli USA a stampare sempre piu’ dollari ed ebbero come risultato la svalutazione della valuta americana. Perciò, divenne insostenibile il sistema di cambi fissi basato sugli accordi di Bretton Woods, che prevedevano la convertibilita’ del dollaro in oro ad un cambio predeterminato (35 dollari per oncia). I citati squilibri nei pagamenti internazionali, dopo aver fatto crollare il sistema di Bretton Woods, fecero esplodere a meta’ degli anni Settanta la bolla sulle materie prime che ebbe il suo apice con l’esplosione del prezzo del petrolio. L’aumento del costo dell’energia, a cui non fu estraneo il conflitto arabo-israeliano, divise sostanzialmente il mondo in due blocchi: quello dei Paesi che esportavano petrolio ed accumulavano ricchezza in valuta pregiata e quello dei Paesi che si indebitavano sempre piu’ per acquistare il petrolio. Il crescente bisogno dei Paesi esportatori di poter far ulteriormente fruttare o spendere i famosi “petroldollari” si incontro’ con il bisogno speculare dei Paesi importatori di avere soldi per acquistare petrolio. Nacque cosi’ il fenomeno della globalizzazione dell’economia, in base al quale i petroldollari potevano essere consumati acquistando prodotti occidentali oppure investiti in strumenti finanziari o in imprese occidentali. Ne consegui’ la progressiva finanziarizzazione dell’economia, lo sviluppo e la diffusione cioe’ di strumenti finanziari sempre piu’ complessi allo scopo di far incontrare domanda ed offerta di risorse finanziarie; la liquidita’ mondiale passo’ dagli 80 miliardi di dollari di fine anni Sessanta ai 2150 miliardi di meta’ degli anni Ottanta. Ma se da un lato la globalizzazione ha riequilibrato in qualche modo il sistema dei pagamenti internazionali, dall’altro ha eliminato il diaframma tra mondi e culture profondamente diverse, che pur abitando il pianeta nella stessa epoca, vivevano di fatto stadi di sviluppo differenti. D’altra parte, la globalizzazione e l’utilizzo sempre piu’ diffuso delle nuove tecnologie hanno solo apparentemente ridotto gli squilibri mondiali. Infatti, la progressiva integrazione tra l’apparato produttivo occidentale con quello dei Paesi emergenti – in primis Cina, India, Brasile, Corea, Vietnam – ha consentito di soddisfare la crescente domanda di consumo senza l’aumento dei prezzi. Nel contempo, pero’ , le produzioni si sono spostate nei Paesi emergenti, mentre le economie mature importavano disoccupazione e bassi salari. Con il passare degli anni si e’ tornati ad una situazione di sostanziale squilibrio: gli Stati Uniti e gli altri Paesi Occidentali si sono indebitati sempre di piu’ per finanziare i consumi ed importare beni che, nella nuova situazione, non potevano piu’ permettersi. Di qui la rincorsa al credito facile, anche per l’acquisto di beni immobiliari, essendo i prodotti finanziari ritenuti sufficientemente evoluti: sono cosi’ nati i mutui sub-prime, cioe’ i prestiti concessi a chi non aveva la capacita’ di rimborsarli. Questi stessi mutui sono stati poi reimpacchettati in strumenti piu’ complessi ed immessi nel vortice della finanza mondiale, fino a quando non hanno cominciato a rappresentare titoli tossici per le stesse banche che li avevano concepiti e diffusi. Sappiamo tutti cosa e’ seguito dopo: la crisi nel 2008 del sistema bancario anglosassone ed in una certa misura anche di quello europeo, l’intervento degli Stati a sostegno delle banche – fortunatamente in Italia non ne abbiamo avuto bisogno -e quindi l’ulteriore ed eccessivo indebitamento degli stessi Stati sovrani. E siamo ai giorni nostri, quando ci accorgiamo, un giorno per il mancato accordo sulla Grecia e l’altro per il declassamento dell’Italia da parte delle agenzie di rating, che anche la capacita’ di rimborso degli Stati sovrani comincia a scricchiolare. Siamo di fronte ad una nuova crisi, ancora piu’ temibile delle precedenti. Ma, allo stesso tempo, sappiamo che la crisi attuale ha radici profonde e che ogni volta che si e’ intervenuti per rimediare ad un problema, sono stati diffusi i semi della successiva recessione. Ecco perche’ le parole di Krugman non sorprendono: dopo aver trascurato per troppo tempo lo sviluppo di fonti energetiche alternative agli idrocarburi, dopo aver globalizzato l’economia per poter consumare a basso costo, esportando ricchezza ed importando poverta’, e dopo esserci indebitati oltremisura per poter finanziare un benessere che non potevamo piu’ permetterci, Krugman non vede altra soluzione al riequilibrio dei rapporti economici che riprendere il ciclo con una nuova guerra, come ai tempi della seconda guerra mondiale.

Tuttavia l’alternativa esiste. E consiste forse nell’accettare un livello inferiore di benessere, ritrovando le nostre radici e la nostra identita’ e risolvendo quanto prima possibile le ragioni di conflitto sociale, senza lasciarsi sedurre dal buonismo imperante. E’ auspicabile ripartire dai valori fondanti per costruire una societa’ che si riconosca in quei valori e migliori cosi’ il livello di fiducia e di coesione sociale, anche sacrificando in parte, se necessario, il libero movimento delle merci, dei capitali e delle persone. E forse questa alternativa non significhera’ una perdita di liberta’, anche perche’ c’e’ da chiedersi – come fa Cipolletta nel suo libro – che liberta’ sia quella di perdere il lavoro a causa della concorrenza sleale di qualche Paese insensibile ai diritti umani o di perdere la vita per assurde rivendicazioni da parte di terroristi che viaggiano indisturbati nel mondo globale.

Alfonso Siano

fondazione nenni

Via Alberto Caroncini 19, Roma www.fondazionenenni.it

Rispondi