Quando i comunisti parlavano del paradiso in terra che avremmo avuto, se tutto si fosse dispiegato in modo conforme alla dottrina marxista, i sostenitori del libero mercato e della democrazia replicavano che il comunismo buono esisteva solo nel mondo delle idee. Sul palcoscenico della storia si era palesato il “socialismo realizzato” dell’URSS o della Cina e su questo innanzitutto si poteva e doveva indirizzare il giudizio. Ora i liberisti ci parlano del paradiso in terra che sarebbe il capitalismo, se tutto si dispiegasse in modo conforme alla dottrina di von Hayek. Ma, analogamente, nel mondo concreto abbiamo finora visto all’opera soltanto il “capitalismo realizzato”, ovvero un sistema che stimola certamente la crescita e la produzione, ma genera al contempo ingiustizie sociali – e soprattutto sopravvive alle proprie contraddizioni grazie al constante intervento dei governi. Ci sono pochi dubbi sul fatto che la crisi finanziaria globale – iniziata nel 2007 e deflagrata nel settembre 2008 – sia una crisi del fondamentalismo mercatista, del liberismo esasperato, del capitalismo realizzato. Su questo concorda la maggior parte degli analisti, con l’eccezione naturalmente di una pattuglia irriducibile di liberisti (ma se fossero oggettivi non sarebbero fondamentalisti).
La lettura della realtà ci rivela però anche un paradosso sul quale vale la pena di riflettere. Nel mondo delle telecomunicazioni, dei giornali, delle televisioni, di Internet, dei satelliti, dei telefoni cellulari, della notizia che viaggia in tempo reale, dalla crisi del capitalismo ci si sarebbe aspettati una conseguenza, se non immediata almeno nel medio termine: la vittoria larga e diffusa dei partiti socialisti. Al contrario, non solo questo non è avvenuto, ma in tutta Europa stiamo assistendo ad una vera e propria crisi di questa proposta politica. Dove erano al governo, i socialisti vengono rimpiazzati dai conservatori. Dove erano all’opposizione, vedono l’elettorato non liberista indirizzare il voto verso altri movimenti di natura neofascista, ecologista, comunista, o verso liste civiche. Il fenomeno è complesso e probabilmente si deve a più di una causa, ma il dato nudo e crudo rimane che i cittadini non vedono nei partiti socialisti un’alternativa credibile al modello liberista. Abbozziamo due possibili spiegazioni.
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Prima ipotesi: i cittadini, a differenza degli analisti, non hanno ancora capito bene la situazione. Quelli che votano la destra moderata non hanno capito che la crisi attuale del capitalismo è una crisi di sistema e non solo congiunturale. Quelli che votano i partiti antagonisti, non hanno capito che la soluzione da essi prospettata potrebbe rivelarsi peggiore del male. Il rischio è quello di perdere non solo i diritti sociali, ma anche quelli civili e politici.
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Seconda ipotesi: i socialisti non hanno più fatto i socialisti dopo la caduta del muro di Berlino. I cittadini lo sanno, perciò non affidano a loro il compito di “rimettere le cose a posto”. Troppo spesso hanno fatto i “camerieri dei banchieri” (per dirla con Ezra Pound), non meno delle destre cristiane e liberali. Troppo spesso hanno salvato multinazionali e banche private con denaro pubblico e poi hanno adottato politiche di “lacrime e sangue”, facendo pagare il conto ai soggetti deboli – operai, impiegati statali, piccole imprese, studenti, pensionati, malati. Inseguendo la moderazione, si sono legati le mani e si sono esposti alla rabbia popolare.
Se il problema è il primo, la soluzione passa attraverso una battaglia culturale, per arrivare ad informare capillarmente ogni singolo cittadino. Se ci sono dei ritardi nell’utilizzo dei nuovi mezzi di comunicazione, bisogna colmare le lacune al più presto. Se però il problema è – come io credo – (anche) il secondo, il compito si fa molto più difficile. Prima ancora che fare conoscere l’opzione riformista, diventa infatti necessario riformare il riformismo. Non basta un’operazione di facciata, volta a recuperare l’immagine e la reputazione del socialismo storico. Non basta dire “noi siamo i riformisti”, convinti che questo mantra basti a catalizzare consensi, esorcizzando i pericoli della conservazione o dell’avventurismo estremista. Di fronte ad una crisi epocale, è normale che gli elettori pretendano che i riformisti spieghino anche quali sono le riforme che intendono fare. Riformismo, d’accordo. Ma per fare cosa? I cittadini sono saturi di informazioni e idee. Ora vogliono fatti. Vogliono vedere nei politici di sinistra dei “compagni”, non dei “falsi amici”. Le amministrative e i referendum hanno dimostrato che l’elettorato premia le proposte riconoscibili, non la melassa del vago moderatismo. In questa situazione, non pare affatto razionale e lungimirante tentare di vincere le elezioni ad ogni costo, con un programma moderato e la benedizione dei poteri forti. Il rischio è di essere poi costretti a risanare i conti pubblici, senza tra l’altro poter toccare le classi più abbienti, le rendite finanziarie, i monopoli privati, le cricche. Per uscire dalla crisi, i socialisti europei dovrebbero piuttosto presentare candidati e programmi sufficientemente “radicali”. Se vinceranno, potranno davvero cambiare qualcosa, riformare il sistema. Se perderanno, lasceranno alle destre il compito di riparare i propri errori e di fronteggiare l’esasperazione popolare. Altrimenti, si profila per tutti la sorte di Papandreu. Triste destino per il socialismo sarebbe l’involuzione da movimento che difende i lavoratori a mero parafulmine dei potenti.
Per dirla in una formula, se è vero che la sinistra è democratica quando per scelta strategica lotta nel sistema e non contro il sistema, è nondimeno vero che la sinistra è sinistra soltanto quando lotta.
Riccardo Campa
Ottimo articolo, chiaro, conciso e to the point. Chissà però quante orecchie ci sono ancora in giro con la voglia di ascoltare verità sgradevoli anziché precipitarsi nell’abbraccio della omologazione universale di comitati d’affari divisi solo da interessi concorrenti.