Il Recovery fund e le prospettive della politica economica europea

– di FRANCO CAVALLARI –

Nel primo trentennio di esistenza la Comunità Europea ha ottenuto un grande successo  economico con le sue politiche di liberalizzazione della circolazione  delle merci e successivamente della manodopera, delle persone e, in buona parte, anche dei capitali. Su questa base, il trattato di Maastricht del 1991 ha tracciato per il vecchio continente il cammino dell’Unione Economica e Monetaria, configurando la prima vera e propria cessione di sovranità nazionale alla UE. Negli anni successivi è stato realizzato, non senza difficoltà, l’aspetto puramente monetario del grande disegno dell’ Unione Economica e Monetaria, mentre l’armonizzazione delle politiche fiscali e la politica di solidarietà tra Paesi membri segnavano il passo, in un estenuante sur place foriero di una drastica caduta dell’europeismo presso una parte considerevole dell’opinione pubblica continentale.

 Dopo il fallimento dei referendum sulla Costituzione dell’Unione del 2005 e la crisi economica epocale del 2008, una lunga eclissi ha interessato l’idea dell’integrazione economica,  restando il dibattito economico comunitario ancorato all’austerità del Fiscal compact varato nel 2012 ad uso ed abuso della potenza economica egemone.

L’insorgere nel mondo di un evento traumatizzante come il “Coronavirus” ha modificato radicalmente i termini del problema anche nell’opinione pubblica dei Paesi europei minimalisti, i cosiddetti “frugal four” capeggiati dalla Germania, favorendo un ampio consolidamento del fronte guidato da due grandi Paesi fondatori della CEE come l’Italia e la Francia, orientati ad allentare la morsa dell’austerità, a beneficio di un rilancio del principio di solidarietà. Forse, finalmente, l’Europa s’è desta, come ha lapidariamente annunciato la Presidente della Commissione Van der Layden e sembra che anche i  sostenitori dell’austerità, da sempre timorosi di dover pagare le dissolutezze di bilancio dei “PIGS”, stiano prendendo coscienza che il disegno strategico di mettere in comune alcuni grandi temi rappresenta per l’Europa la sola risposta efficace ai problemi del nostro tempo.

Lungo la nuova linea di tendenza dell’opinione pubblica europea, la Commissione ha preso atto dell’esigenza di evitare un pauroso arretramento economico dell’intero continente, proponendo al Consiglio europeo di oltrepassare in modo significativo l’attuale limite dell’1% del PIL nello stanziamento delle risorse finanziarie nel bilancio comunitario. Non è il caso di soffermarci su considerazioni relative ai dettagli del costruendo “Recovery fund” (proposti  750 Mld, di cui 2/3 come sussidi e il resto come prestiti) poiché il tutto è ancora  in discussione; ma è comunque certo che la proposta costituisce una novità assoluta per l’Unione, sia per il volume delle risorse in gioco, sia per l’inedita impostazione solidaristica.

Non pochi economisti stanno tentando di valutare l’adeguatezza dello strumento, unitamente all’impatto che potrà avere sull’evoluzione economica dei singoli Paesi e dell’Unione nel suo insieme. E’ questa una materia che, se considerata in rapporto alle prospettive europee, presenta un’articolazione abbastanza complessa, chiamando in causa, tra le altre cose, i corollari concernenti la “Governance” della moneta e della finanza in contesti particolarmente articolati; nel nostro caso un ambito plurinazionale abbastanza intricato che non si presta a sintesi di tipo intuitivo-contabile e che può disorientare non pochi economisti.

In un articolo su “ La Repubblica” del 29 maggio scorso, l’economista Roberto Perotti della Bocconi ha tentato di quantificare l’effetto netto positivo della quota sussidi che deriverebbe all’Italia nell’attuazione di un’ipotesi di ripartizione delle risorse del Fondo tra i Paesi membri, (al nostro Paese spetterebbero 173 Mld complessivi (il 23% del Fondo), di cui 82 Mld destinati a sussidi (il 16.4% della quota sussidi) e 91 Mld a prestiti rimborsabili (il 36.4% dei prestiti). Osserva Perotti che l’effetto netto a favore del nostro Paese per la quota di sussidi non sarebbe di 82 Mld, come sembra a prima vista, ma di scarsi 20 Mld. Il metodo Perotti valuta nel 3.4% dei 500 Mld l’effetto netto per il nostro Paese, basandosi sulla differenza tra il 16.4% dei sussidi attribuito all’Italia e il 13% della quota Italiana nelle istituzioni dell’Unione; la quale, in qualche modo, rappresenterebbe l’impegno di rimborso del nostro Paese quale “azionista” del Fondo. Anche Carlo Cottarelli, per un’altra via ma sulla scorta della stessa logica contabile, ipotizza la liquidazione del Fondo, quanto meno virtuale e il rimborso dei Paesi, calcolando  che l’Italia  Paese avrebbe un effetto netto per i sussidi dello stesso ordine di grandezza di quello calcolato da Perotti.

Questi risultati non hanno gran significato economico perché sono il frutto di un approccio puramente economico-contabile che considera i Paesi membri alla stregua di “azionisti” del Fondo e in quanto tali, tenuti, nel giorno della liquidazione, a corrispondere all’ente emittente (la Commissione) la propria quota (sottoscritta ma mai versata) necessaria per l’estinzione dei bond emessi e “figurativamente“ depositati presso la BCE in contropartita della liquidità messa a disposizione della Commissione stessa.

Se questo è in grandi linee lo schema formale del Fondo, nella sostanza la questione del rimborso ipotetico è nettamente fuorviante e il solo calcolo significativo sarebbe quello che si basa su questioni prettamente economiche. Al riguardo occorre tener presente che, una volta superata l’emergenza recessiva attuale, le prospettive che si aprono alla politica di sostegno alla crescita da parte dell’Unione non sono, verosimilmente, orientate alla  liquidazione del Fondo. Avrebbe senso per l’Unione, dopo la catastrofe planetaria del Covid 19, tornare all’immobilismo della politica economica istituzionale che ha caratterizzato l’ultimo decennio? Quale significato se non il rafforzamento della solidarietà comunitaria dobbiamo attribuire alla proposta di 500 Mld di sussidi a fondo perduto concessi al fine di superare la grave recessione in corso, ma anche, in prospettiva, i grandi problemi economici e ambientali che si porranno all’Europa nel prossimo futuro?

L’unica prospettiva politica positiva per il continente si fonda sulla scelta di un orientamento in grado di realizzare l’opportunità per l’Europa di inserirsi validamente nella soluzione dei grandi problemi strategici del nostro tempo. Si tratta di affrontare unitariamente e con risorse finanziarie adeguate, sia la sfida della crescita mondiale, che, verosimilmente, si protrarrà molto oltre gli effetti recessivi del Covid-19, sia i grandi temi politici di ordine mondiale suscitati dall’economia moderna, quali il riscaldamento globale, l’energia, la salvaguardia dei mari, ecc.

 Secondo la logica di queste considerazioni, validata anche dalle prospettive internazionali come la sola via possibile per far uscire l’Europa dall’attuale irrilevanza planetaria, il “Recovery fund” troverà la sua naturale evoluzione, non nella liquidazione, bensì in una trasformazione graduale verso il ruolo di principale strumento di politica fiscale a sostegno delle politiche strategiche dell’Unione. Lungo questa linea, l’Italia e gli altri Paesi membri non dovranno rimborsare nulla ed i bond emessi dall’Unione ed “acquistati” dalla BCE diverrebbero una specie di “debito pubblico europeo”. Similmente al debito pubblico nazionale, che non è stato mai rimborsato, ma sempre rinnovato, questa massa finanziaria, ampliata entro certi limiti ed adattata alle circostanze; potrà costituire il substrato dello strumento finanziario necessario per attuare  una rigorosa, ma incisiva politica economica sovranazionale. In questo modo, lungi dal costituire un fardello per l’economia europea, esso diverrebbe in prospettiva lo snodo essenziale per rendere possibile alla BCE di svolgere a pieno titolo le funzioni di istituto “prestatore di ultima istanza. Vogliamo dire con ciò che produzione e la ricchezza si creano dal nulla solo stampando moneta in cambio di bond? Certamente no! Vogliamo solo significare che il meccanismo descritto, sulla scia di quella specie di “miracolo” keynesiano secondo cui, in determinate condizioni ed entro certi limiti, la spesa suppletiva finanziata in disavanzo di bilancio dalla Banca centrale genera un supplemento di produzione superiore all’aumento della spesa, sollecitando i complessi gangli dell’economia a generare quel “surplus” produttivo che ne rappresenta l’effetto economico. Al riguardo diciamo soltanto che dietro questa emissione di moneta c’è una delle strutture produttive più poderosa e tecnologicamente avanzata del mondo, una struttura che nel suo complesso multinazionale presenta ancora importanti opportunità operative derivanti da fattori inattivi.

Si tenga conto che la parte del Fondo dedicata ai sussidi, la quota non rimborsabile a scadenza, è di importo notevole se paragonata agli stanziamenti delle azioni precedenti dell’Unione, ma rappresenta solo il 3% del PIL complessivo dei 27 Paesi dell’Unione, laddove la media del debito pubblico dei singoli Paesi si situa intorno all’80% del rispettivo PIL. Vi sarebbero quindi ampi spazi per aumentare sensibilmente questa quota, sempre naturalmente entro certi limiti, in modo, comunque, da non incidere negativamente sulla stabilità finanziaria dell’intera area europea.

Se la trasformazione del ruolo dell’Unione cui si è accennato non dovesse avvenire e si decidesse di tornare alla situazione istituzionale antecedente, i Paesi membri finirebbero per scivolare in tanti piccoli insignificanti sistemi incentrati sui “sovranismi nazionali” e sul loro  corollario, l’autoritarismo, come avvenne già in Europa negli anni ’20/30 del secolo scorso. Le tempeste della dissoluzione dell’Unione paventate da molti diverrebbero allora una realtà ineludibile e gli effetti netti da valutare sarebbero solo quelli derivanti da una nuova devastante crisi economica europea. Come accennato in precedenza, questi non augurabili sviluppi delle prospettive sembra siano stati percepiti anche dai Paesi sostenitori dell’austerità; ne è testimone anche la grande apertura politica alla solidarietà da parte della Germania e la proposta della Commissione di stanziare un Fondo antirecessione delle dimensioni descritte.

Gli argomenti sommariamente descritti necessitano di approfondimenti di grande spessore, considerando, tra l’altro, che nel caso del citato ipotetico futuro “debito pubblico europeo”, le differenze con i meccanismi del debito pubblico nazionale non sarebbero irrilevanti. Questi approfondimenti, che implicano naturalmente un clima europeo molto diverso da quello che ha caratterizzato il decennio passato, un clima che comporta anche una straordinaria ripresa della vivacità culturale del vecchio continente in materia di ”scelte pubbliche”. Al riguardo, dobbiamo però constatare che da molto tempo, e non solo in Italia, abbondiamo di ottimi analisti economico-contabili, ma difettiamo di economisti di grande caratura, studiosi in grado di spaziare  a 360 gradi sui grandi temi del nostro tempo secondo una  “visione” più ampia delle ragioni del dare e dell’avere, approfondendo i determinanti dell’evoluzione storico-economica della realtà in rapida trasformazione.

In conclusione, per quanto si riferisce alle valutazioni dell’effetto netto relativo ai sussidi del “Recovery fund”, se proprio se ne vuole dare una stima, si deve concludere che, dal momento che il rimborso è solo un’ipotesi poco realistica, l’effetto netto contabile, per l’Italia come per tutti gli altri Paesi membri, sarà dato, paradossalmente, dall’importo di prima impressione di cui si è detto all’inizio (per l’Italia 82 Mld). Ma il vero “surplus economico”, lo slancio antirecessivo che l’intervento dell’Unione potrà realizzare nei singoli Paesi dipenderà dalle rispettive capacità di concepire e realizzare un piano di investimenti in settori in grado di aumentare la “produttività globale di sistema”; un piano capace  di accrescere non solo la cosiddetta “produttività apparente” per addetto o per ora lavorata, ma anche migliorare tutta una serie di indicatori parziali che rappresentano altrettanti elementi moltiplicativi dello sviluppo, quali il progresso tecnologico della produzione, l’aumento dell’occupazione e la qualità della stessa, l’ampliamento del benessere sociale, la lievitazione del clima di fiducia del Paese ecc. Seguendo questa falsariga, è indispensabile, non solo ottenere le ingenti risorse finanziarie messe a disposizione dall’Unione, ma anche impiegarle in modo proficuo ai fini dello sviluppo complessivo e dell’ampliamento dell’occupazione.

fondazione nenni

Via Alberto Caroncini 19, Roma www.fondazionenenni.it

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