Contro il grillo parlante: le figure dell’intellettuale e del critico nel cinema italiano contemporaneo

– di MAURIZIO FANTONI MINNELLA –

Vi è una destinazione certa delle figure dell’intellettuale o del critico nel cinema italiano contemporaneo, dal Fellini di 8 e 1/2, all’ultimo Maselli di Le Ombre rosse, passando attraverso talune commedie di successo di Ettore Scola. Si potrebbe perfino affermare che sia stato proprio il cinema ad anticipare l’attuale dibattito politico culminato nella presunta scomunica di questa importante figura così presente nella dialettica culturale e civile del XX° secolo, da parte di quelle forze politiche che si rifanno al sovranismo e al populismo reazionario e che considerano l’intellettuale e più specificatamente il critico, a prescindere dalla disciplina di appartenenza, un elemento sociale estraneo, ingombrante, finanche insidioso, dentro la società da essi prefigurata. Forze che, nel ritenere superate le vecchie categorie politiche di destra e sinistra, finiscono per sostituirle con quelle, assai più ambigue e demagogiche di alto e basso, ossia le élites e il popolo. Nelle loro fila vi sono anche intellettuali mediatici come Diego Fusaro, sovente autodefinitosi nemico del mondialismo, ignorando però la sua variante internazionalista, anticapitalista ed egualitaria (espressa dai Forum Sociali fin dal 1999, in diverse città del mondo) e quindi, ostile a quell’idea di spirito critico che ha segnato il nostro tempo. Inoltre, la tendenza ad assimilare la figura dell’intellettuale alle vituperate élites economiche detentrici di un potere sovranazionale, in grado di sostituirsi agli stati stessi, rende più difficile il compito di riportare tale figura nella dimensione socio culturale che gli spetta e che da sempre gli compete. Al tempo stesso è cresciuta esponenzialmente la presenza di critici di varie discipline, disposti a sposare la tesi della contaminazione tra alto e basso, ma ancor meglio, la definitiva supremazia del cosiddetto popular su quanto possa definirsi autoriale. Già perché la parola autore richiamerebbe quella che fu per lungo tempo l’egemonia delle élites culturali.  Si evidenzia così una certa consonanza tra l’agire politico e la produzione di cultura. Se il riferimento cinematografico più immediato va certamente al primo capitolo della saga fantozziana dove non solo veniva messa al rogo una copia del capolavoro ejsenstejniano La corazzata Potemkin, ma il critico della fabbrica veniva brutalmente e sonoramente malmenato con effetto decisamente caricaturale, in una sorta di orgiastico caos di forte ispirazione populistica, l’origine invece, andrebbe ricercata nella figura dell’intellettuale chiamato a sceneggiare l’annunciato e mai realizzato film di cui Mastroianni – Snaporaz è il regista, in 8 e ½, e di cui, quella fantozziana altro non è che la caricatura grottesca. Ciò che Federico Fellini intendeva esprimere con onirica cattiveria, il più modesto Luciano Salce lo sancisce con impeto beffardo, in maniera letterale, con tanto di rivolta di massa e severa punizione del colpevole di cinefilia maniacale. Tuttavia, l’ironia tutt’altro che innocente del regista prevede nel prosieguo dell’azione, la rivincita del critico-dittatore, quasi a sottolineare in sottotraccia, che il potere, alla fine, ha sempre la meglio sulle masse, trasformate in comparse, a ripetere all’infinito, la leggendaria sequenza della “scalinata di Odessa”. Se ne La dolce vita, la figura chiave di Marcello, sebbene nutra aspirazioni letterarie e quindi, intellettuali, in realtà è più verosimilmente quella di un parassita cosciente di un’élite che intimamente disprezza, ma che gli permette di vivere scrivendo articoli da rotocalco, nel successivo 8 e ½ essa diventa il puro gesto di insofferenza felliniano verso il pensiero critico, sebbene sublimemente espresso, che interferisce nell’ego e nel caos creativo del protagonista-autore, protesi di Fellini stesso più che personaggio autonomo. Nel corso degli anni settanta, due registi, Francesco “Citto” Maselli e Ettore Scola, entrambi organici al partito comunista, s’interrogano sul ruolo dell’intellettuale nella società italiana del tempo, cogliendone, accanto a debolezze e contraddizioni, tutta la fragilità implicita nella dialettica tra l’essere comunisti e il vivere da borghesi in una società capitalista.  Se il primo, per naturale vocazione, metteva in scena il dubbio che attanaglia un gruppo di intellettuali comunisti, in una sorta di psicodramma collettivo, sulla scelta o meno di partire per il Vietnam quale gesto di solidarietà con il popolo vietnamita in guerra (quando, alla fine, non partirà nessuno, per diretta volontà degli stessi vertici vietnamiti), il secondo, assecondando una vena decisamente più leggera, ricostruisce su una terrazza alto borghese, come un palcoscenico destinato a rituale perpetuo, nel film La terrazza, appunto, le storie private di quella variegata élite romana dello spettacolo, non solo parodiando comportamenti di personaggi reali, ma assolvendoli, dai loro vizi, facendoli, nell’epilogo, cantare tutti insieme, davanti a un pianoforte, canzoni romane d’osteria!…. Nel film C’eravamo tanto amati, invece, forse con meno ambizione, Scola sembra concentrarsi su una sorta di populismo gramsciano nel tratteggio del personaggio del professore cinephile innamorato di Ladri di biciclette, quasi voglia insistere su quella strana malattia che affligge gli intellettuali di sinistra italiani, il narcisismo (l’intellettuale è più sotto, più sopra, più oltre, oppure, l’amicizia è una congiura tra pochi e via dicendo, sentenzia il professore, in occasione del suo arrivo nella Città Eterna, dal paesino di Nocera Inferiore), per cui non vi è alcuna cura sicura se non il silenzio della notte romana, in cui egli rivive accanto ad una Stefania Sandrelli triste e spaesata l’inesauribile sequenza della carrozzina e della scalinata. E in questa circolarità ossessiva che pone al centro il capolavoro del cineasta sovietico, si riassume il destino dell’intellettuale in una società come la nostra che, finalmente, liberandosi di esso, in perfetta consonanza con il mercato, possa infine liberare quell’ossimoro minaccioso che prende il nome di individualismo di massa. E ancora una volta Maselli, nel lasciarci, con Le ombre rosse, il suo testamento cinematografico, ha inteso fotografare alcuni intellettuali comunisti in un presente incerto dove al posto del Vietnam, da salvare, ora, è un centro sociale romano, fragile e coraggioso. Tuttavia all’azione, presto si sostituiscono narcisismi, ipocrisie, piccoli poteri personali. Resterà solo quell’idealità comunista a liberare gli animi dal sospetto di non avere fatto nulla per cambiare le cose nel mondo, sia pure un microcosmo marginale, fino al momento in cui essi, divenuti ombre di sé stessi, ma pur sempre “ombre rosse”, restano impassibili, in un epilogo memorabile, di fronte alla propria sconfitta.

 

fondazione nenni

Via Alberto Caroncini 19, Roma www.fondazionenenni.it

Rispondi