– di ANTONIO MAGLIE –
Sino a qualche mese fa Luigi Di Maio si era segnalato in politica estera solo per le gaffe come il “Signor Ping” rivolto al presidente cinese o la santificazione di un sedicente leader dei gilet gialli che non aveva problemi ad auspicare un sovvertimento del sistema francese tramite colpo di stato e l’ardimentosa correzione pubblica attraverso la “mitica” lettera a “Le Monde” in cui attribuiva alla Francia una tradizione democratica addirittura “millenaria”. Ma l’indignazione manifestata ora in qualità di ministro competente nei confronti dell’iniziativa bellica del presidente turco, Recep Tayyp Erdogan, non solo è da condividere ma anche da sostenere. Semmai facendo ammenda. E ponendosi anche qualche domanda in un mondo in cui gli alleati di ieri finiscono per apparire se non proprio i nemici di oggi, quantomeno soggetti di cui diffidare. In fondo è la coda avvelenata di quello che con termine ipocritamente asettico viene chiamato sovranismo e che in realtà potrebbe essere qualificato in maniera molto più diretta nazionalismo o, nel caso di Donald Trump, “isolazionismo nazionalistico”.
L’aggressione (perché di aggressione si tratta mancando di qualsiasi credibile motivazione se non la necessità di impossessarsi di un territorio in cui trasferire 3,6 milioni di immigrati che cominciano a essere considerati causa di tensioni e insoddisfazioni pubbliche con conseguenti ricadute politico-elettorali) dei curdi nasce dalla timidezza e dalla cattiva coscienza di una Europa che tradisce le ragioni stesse della sua esistenza cioè il bisogno di democrazia e la volontà di pace. È evidente che quando si “fanno affari” sia in privato che a livello istituzionale con un personaggio come il “sultano” di Ankara che ha approfittato di un “tentativo di golpe” dai contorni non particolarmente chiari (soprattutto in quanto a pericolosità e a possibilità di riuscita) per portare a termine una sorta di “pulizia politica” che nel giro di pochi mesi ha portato alla sospensione o al licenziamento di 140 mila funzionari governativi, alla cacciata di sedicimila ufficiali dell’esercito e della polizia, all’epurazione di 6.300 insegnanti, alla riduzione al silenzio di 2.500 reporter creando così, come ha scritto Madeleine Albright nel libro “Fascismo”, “la prigione per giornalisti più grande al mondo”, all’imbavagliamento di 180 testate giornalistiche e alla confisca di mille aziende, il minimo che possa accadere è di ritrovarsi con una nuova guerra, in un’area del mondo già surriscaldata e a non moltissimi chilometri da casa nostra.
Se al quadro di furbizie che ci riguarda più direttamente, aggiungiamo la presenza, dall’altra parte dell’Atlantico di quello che due docenti di scienza politica di Harvard, Steven Levitsky e Daniel Ziblatt, hanno definito nel loro libro “Come muoiono le democrazie” “il leader meno filodemocratico di qualsiasi amministrazione dai tempi di Nixon” e probabilmente anche il meno affidabile come alleato considerato che i curdi non hanno tutti i torti a definire “l’abbandono del campo” da parte delle forze americane (virtuale via libera all’offensiva turca) “una pugnalata alla schiena” dopo aver per anni combattuto per conto degli occidentali l’Isis, il quadro è chiaro e non lascia spazio a eccezionali quantitativi di ottimismo. D’altro canto, la “lievità” con la quale Donald Trump parla di grandi drammi umani derubricandone la causa a “guerre ridicole” e fornendo la sua interpretazione bottegaia della politica internazionale (la promessa tanto ipotetica da apparire irrealistica, di sanzioni nei confronti di Erdogan se dovesse esagerare nell’uso della forza in virtù di principii aritmetici noti solo all’inquilino della Casa Bianca), genera in chi ha creduto realmente nell’America come “faro di libertà” (visione non priva di aspetti fortemente retorici), uno stato emotivo caratterizzato da robusti elementi di depressione. Sarà vero, evidentemente, quello che sostiene Larry Diamond e cioè che siamo in una fase di grave recessione democratica, pertanto, meglio non farsi illusioni. Soprattutto non se ne facciano i curdi che pure all’interno di un’area caratterizzata da sistemi autocratici sognano uno Stato democratico con connotati socialisti.
È evidente: non avranno accanto, nella loro battaglia gli Stati Uniti perché, come ha scritto nel suo libro (“Tiranni”) Waller R. Newell, la politica estera del cosiddetto “faro di libertà” da tempo oscilla fra tre posizioni: “Una forte vena isolazionista, risalente a Washington e Jefferson” che “vorrebbe preservare l’America da qualsiasi coinvolgimento in guerre all’estero” (tesi che sembra affascinare Trump); una “emersa con il presidente Woodrow Wilson” che al contrario pensa che gli Usa abbiano “la responsabilità morale di intervenire all’estero, anche militarmente, se necessario, per proteggere e promuovere la democrazia”; la terza, che ha trovato il suo miglior esegeta in Henry Kissinger (titolare di un premio Nobel per la Pace totalmente immeritato) che sostiene “un approccio moralmente neutrale agli affari internazionali” con la conseguenza che ci si può alleare “con determinati regimi a prescindere dal fatto che essi siano democratici o meno, se questo rientra negli interessi americani” e sono “di aiuto per combattere un nemico più pericoloso”. Non solo si possono fare alleanze con regimi non democratici ma anche promuoverne la creazione come insegna la storia del golpe cileno e la tragedia dei “desaparecidos”. Anche questa terza posizione sembra intrigare Trump tanto è vero che viene abbandonato l’alleato a cui si è moralmente legati attraverso la comune guerra all’estremismo islamista, per garantire copertura a un partner che in quella guerra ha manifestato più di qualche zona d’ombra.
Lo sottolineava in maniera molto prudente in un libro di qualche anno fa (“L’Europa e la rinascita dei nazionalismi”), lo storico Valerio Castronovo: “Oltretutto si sospettava che un personaggio come Erdogan […] avesse assicurato, dietro le quinte, una base logistica all’Isis, per servirsene in funzione dei suoi principali obiettivi: la defenestrazione di Assad in Siria e la sottomissione del Kurdistan iracheno”. Per quanto riguarda il primo obiettivo, anche grazie al rapporto più amichevole con Mosca (che nell’attuale vicenda si è limitata a una telefonata e a qualche protesta più formale che sostanziale), appare archiviato (con il ritiro dal campo, Trump ha consentito la sopravvivenza del dittatore siriano, al pari del padre specializzato in sanguinose repressioni; ma bisogna precisare che in quel contesto non è che Obama possa vantare molti meriti, anzi). Il secondo, invece, Erdogan punta a centrarlo e le possibilità che vi riesca non sono certo esigue (in fondo ha sempre a sua disposizione il sesto esercito del mondo e per armarlo non ha badato a spese né a vincoli di alleanza visto che avrebbe acquistato armi e codici missilistici dalla Cina ma in questo caso evidentemente Huawei non c’entra).
Pur riconoscendo i grandi meriti americani, non si può non sottolineare che dalla seconda guerra mondiale in poi, molte guerre gli Stati Uniti hanno perduto e, soprattutto, da quasi tutti i successivi processi di pace sono usciti sostanzialmente sconfitti. Trump cercava un successo fortemente simbolico in Corea. Che, però, per quante strette di mani si siano succedute, dopo oltre sessant’anni restano due mentre si sono raffreddate le aspettative di qualche anno fa lievitate in seguito al vertice fra Trump e Kim Jong-un. Il Vietnam, nonostante 55 mila morti americani sul campo (e sessantamila veterani suicidi), 2,15 milioni di soldati spediti nel sud-est asiatico e un milione di vittime vietnamite, alla fine ha prodotto solo una frettolosa ritirata, l’esodo biblico dei “boat people” e un dopoguerra avvilente che si rivelò un ulteriore smacco per Washington. Come ha scritto uno tra i maggiori storici di quella vicenda, Marilyn B. Young (“Le guerre del Vietnam. 1945-1990): “La politica di Brzezinski nei confronti del Vietnam spinse il paese nelle braccia dell’Unione Sovietica, giustificando così la guerra economica degli Usa contro il Vietnam e fornendo dure lezioni ad altri aspiranti nazionalisti. Il sostegno americano alla politica cinese in Cambogia salvò quel che rimaneva delle forze di Pol Pot sconfitte e le rimise in campo contro l’esercito di occupazione vietnamita per dissanguare il Vietnam”. Per chi lo avesse dimenticato: Pol Pot e i Khmer Rossi furono i protagonisti di uno tra i i più devastanti genocidi della storia contemporanea.
Con una certa sincerità, alcuni anni fa Hillary Clinton sottolineò come in Afghanistan gli Stati Uniti fossero impegnati a combattere più o meno le medesime persone che vent’anni prima, all’epoca dell’occupazione sovietica, Washington aveva sostenuto, finanziato e armato. Trump avrebbe voluto chiudere il cerchio di questo “capolavoro” firmando la pace con quei talebani contro i quali l’America ha ingaggiato la più lunga guerra della sua storia. Né vanno dimenticate le sesquipedali bugie fatte pronunciare all’Onu da quello che era considerato all’epoca un eroe nazionale, Colin Powell: Bush figlio voleva a tutti i costi terminare il lavoro che non aveva completato il padre, cioè l’invasione dell’Iraq e la destituzione di Saddam Hussein. All’Onu Powell politicamente si “suicidò”: di lui non vi sono più tracce, in compenso scarseggiano anche quelle di una solida democrazia irachena e di una stabilità dell’area.
Possiamo immaginare che ci possa essere qualcuno su questo palcoscenico effettivamente capace di dipanare l’intricata matassa di un conflitto dalla genesi centenaria? Il “compleanno tondo” potremmo anche celebrarlo il 30 gennaio del 2023: quel giorno saranno esattamente cento le primavere o gli inverni del trattato di Losanna che fece a pezzi le speranze dei curdi. Le nazioni europee (a cominciare dalla Gran Bretagna: Lloyd George fu il protagonista più negativo di un inganno che dal trattato di Sèvres del 10 agosto 1920 arriva sino a noi) hanno gravissime responsabilità per quel che accadde e avrebbero anche enormi obblighi morali per le promesse che allora non vennero mantenute: una entità nazionale autonoma per i curdi. Mustafa Kemal meglio noto come Ataturk, organizzò l’opposizione a quel trattato che toglieva alla Turchia anche l’indipendenza finanziaria oltre all’Anatolia e alla Tracia (avrebbero dovuto ospitare separatamente armeni e curdi), disarcionò il sultano e costrinse alla ritirata le forze greche che Lloyd George aveva convinto all’invasione di Smirne. A Losanna, Anatolia e Tracia vennero restituite alla Turchia insieme all’autonomia di bilancio e i curdi rimasero con un pugno di mosche in mano. Da allora nulla è cambiato nonostante le aspettative di una popolazione (dispersa in tre stati) che oscilla fra trenta e quarantacinque milioni di anime. Ma i nazionalismi (o sovranismi) sono così: affermano (anche con la violenza) i propri diritti, negano (soprattutto con la violenza) quelli altrui.
L’Europa resta a guardare. Tanti imprenditori all’inizio del secondo decennio di questo secolo sono volati in Turchia per fare affari in quel paese, contribuendo a una crescita economica che, però, si è arrestata. Per Erdogan la cosa non è stata indolore visto che nello scorso mese di giugno l’opposizione ha conquistato Istanbul. Cosa c’è di meglio di una guerra per risvegliare lo “spirito nazionale”? E cosa c’è di meglio della prospettiva di un po’ di “terra a sole” per tacitare i malumori di chi ritiene non più sopportabile il peso dell’immigrazione? L’Europa con il nuovo sultano ha fatto affari. Sempre sulla pelle delle persone. Sei miliardi di euro per fermare le ondate di migranti ai confini dell’Unione. Una diga che il sultano minaccia di abbattere (“apriremo le porte a 3,6 milioni di rifugiati e li manderemo da voi”). E che l’Europa provvederà a ricostruire con il silenzio e con i soldi. Non è fuori luogo definire tutto questo molto più che avvilente.
trovo oltraggioso che i curdi siano stati traditi sia da Trump che dai i nostri politici europei. Devono avere uno loro stato sovrano cosa che ne la Turchia che la Siria che l’Iraq intendono contemplare. Cosa bisogna fare per aiutare i curdi, popolo coraggioso ed esemplare?