– di FRANCO CAVALLARI –
Da qualche tempo, si sta manifestando nell’economia mondiale una nuova evoluzione che lascia presagire ulteriori peggioramenti dello sviluppo economico internazionale. In realtà, il rallentamento dell’economia mondiale attuale non è solo una questione di bassa congiuntura del ciclo economico, ma, in larga misura, è anche il frutto della politica economica dei principali Paesi.
Gli Stati Uniti, nei decenni passati locomotiva della crescita economica mondiale, pur vivendo una fase espansiva dello sviluppo economico, hanno ripiegato su una linea di politica economica isolazionista, che, secondo molti economisti, li condurrà probabilmente alla perdita del ruolo di primo attore della scena economica mondiale; tuttavia, seppur con minore autorevolezza rispetto al passato, non sembra che essi vogliano abdicare completamente dal ruolo di prima potenza mondiale, lasciando campo libero allo slancio dello sviluppo cinese.
Analizzando l’attuale robustezza della crescita degli USA, non possiamo sottacere che, secondo il parere di molti osservatori, essa è il frutto di una “crescita drogata”, sovralimentata da politiche monetarie e fiscali molto permissive, caratterizzate da un eccessivo abbassamento sia del tasso di sconto, sia del tasso di imposizione sulle imprese. Con questa impostazione politica, Trump si proporrebbe, in vista del rinnovo presidenziale, di “annegare” gli insostenibili squilibri del bilancio federale e del saldo delle partite correnti della bilancia dei pagamenti. Appare evidente che per questa via gli USA tendono a scaricare sull’esterno gli effetti perversi di una politica che produce liquidità a buon mercato, evitando di affrontare con misure appropriate i nodi strutturali dell’economia. È il caso di ricordare che anche la guerra doganale iniziata da Trump contro la Cina (e anche contro l’Europa) rappresenta uno strumento per mascherare presso il suo elettorato le distorsioni sociali e finanziarie che la crescita squilibrata dell’economia sta comportando. Ci vuole la scarsa lungimiranza di Trump per non comprendere che, danneggiando l’Europa con la sua battaglia doganale e con le sue politiche anti Unione Europea, finisce per predisporre i singoli Stati che la compongono attualmente a divenire Paesi vassalli ricadenti nella sfera di influenza russa.
La Cina, dal canto suo, pur avendo rallentato la crescita rispetto al 7-8% dei primi anni 2000, continua ad espandere la sua economia, aprendosi la prospettiva di assumere in futuro un ruolo egemonico nel gioco dell’equilibrio geopolitico mondiale. La sua alleanza con la Russia per contrastare l’aggressività della politica commerciale statunitense è solo ai primi passi e forse risponde ad esigenze tattiche; ma l’occidente ha fondati motivi per preoccuparsi di questi sviluppi, poiché la Russia, favorita dalla contiguità continentale e malgrado abbia smarrito lo slancio produttivo degli scorsi decenni, non fa mistero della sua volontà di tornare a svolgere un ruolo primario nel contesto degli equilibri politici internazionali.
A questi sintomi di involuzione del contesto economico mondiale, non corrisponde, per il momento, una strategia complessiva adeguata da parte dell’Europa nel suo insieme, mentre la stagnazione, che ha colpito anche i Paesi forti come la Germania, si coniuga con i persistenti e allarmanti squilibri dei conti pubblici dei Paesi più deboli. In ogni caso, è ormai evidente che la causa del ristagno europeo va ricercata non solo nella politica deflattiva imposta dal “fiscal compact” del 2012, ma, in questa fase, anche e soprattutto nella battaglia doganale contro il resto del mondo intrapresa dall’Amministrazione statunitense.
Nella sua configurazione politica e istituzionale attuale, l’Europa non dispone di alcun margine di manovra per poter incidere positivamente sull’equilibrio nei rapporti con le aree commerciali che dettano i ritmi dell’andamento economico mondiale. Ne consegue, al netto di qualche iniziativa estemporanea francese o tedesca (il cui successo rimane altamente problematico), una posizione di sterile attesa passiva da parte dell’area commerciale più importante del mondo per volume di scambi; attesa passiva che finora non è stata in grado di produrre una sia pur ridotta reazione d’insieme. Sul piano comunitario, la gracilità politica delle istituzioni dell’Unione ha impedito di concepire un valido disegno complessivo di politica economica e commerciale, mentre il suo andamento economico complessivo è rimasto entro gli angusti termini dettati dal “patto di stabilità”. Uno strumento incentrato su stringenti regolazioni di finanza pubblica adatto a situazioni politiche e a circostanze strutturali estranee alla situazione di molti Paesi dell’Unione, che, in un quadro fortemente perturbato dalla crisi, ha rallentato la crescita dell’intero continente.; un protocollo frutto della naturale egemonia economica acquisita dai tedeschi e della loro maniacale paura dell’inflazione e delle conseguenti eventuali oscillazioni erratiche dell’Euro.
In proposito, è il caso di rilevare che il rigore fiscale previsto dall’accordo europeo è stato determinante ai fini della costituzione di un’adeguata consistenza monetaria di base dell’Euro che, per alcuni versi, ha impedito alle tensioni tra le divergenti politiche dei Paesi partecipanti di dilapidare insensatamente l’acquisito dalle politiche comunitarie. Ma, per altri versi, pretendendo di inaugurare una nuova stagione, inappropriatamente definita dai Paesi forti “rigore espansivo”, ha creato nei Paesi più deboli (e non solo) consistenti tensioni politiche e sociali atte ad alimentare il “sovranismo antieuropeo”. Ma l’Euro ha rappresentato anche per tutti i Paesi aderenti all’accordo monetario un formidabile ancoraggio alla stabilità economica, cui manca ancora una politica economica comune sottostante volta a stimolare lo sviluppo economico. E’ difficile, comunque, spiegare come l’opinione pubblica tedesca e statisti del calibro di Angela Merkel non abbiano compreso la gravità politica del populismo antieuropeo che, alimentato della stagnazione indotta dal cosiddetto “rigore espansivo”, stava stringendo l’Europa nel laccio dell’antieuropeismo.
Tornando alla situazione e alle prospettive attuali, resta il fatto che, alla stagnazione indotta dal “fiscal compact” si sta sovrapponendo, come accennato, il contesto recessivo conseguente alla guerra dei dazi che ha colpito anche e soprattutto la Germania. Nel frattempo il dollaro, come nelle fluttuazioni cicliche dei primi anni 2000, torna lentamente a salire nei confronti dell’Euro. Secondo alcuni osservatori, non è da escludere, tra le altre cose, che gli orientamenti più recenti della politica monetaria della Federal Reserve abbiano stabilito di non tirare troppo la corda con la riduzione dei tassi, ritenendo opportuno lanciare un piccolo segnale di distensione economica verso gli alleati europei. Ma anche se ciò dovesse essere vero, il meccanismo della stagnazione incentrato sulla guerra doganale resterebbe, comunque, intatto nella sostanza.
In ogni caso, se non interverranno fatti politici nuovi di una certa rilevanza, è molto improbabile che la politica monetaria americana possa concedere volutamente spazi non irrilevanti agli alleati europei prima della conclusione delle elezioni presidenziali americane. Malgrado ciò, bisogna convenire con quanti ritengono quanto mai opportuno che i governi europei, e l’Unione nel suo insieme, cerchino già in questa stagione incerta di contrattare con gli USA (che pur restano un alleato strategico dell’Europa), un leggero allentamento degli assetti attuali, attenuando fin d’ora lo stress da stagnazione dell’Europa. Ciò costituirebbe per gli Stati Uniti un vantaggio non irrilevante nei confronti della Cina, mentre per gli europei ciò potrebbe contribuire a facilitare la ripresa dopo la fase di stagnazione, ricostituendo le basi della ripresa futura del commercio internazionale tra le due sponde dell’Atlantico.