– di FRANCO CAVALLARI –
Nel dibattito di politica economica italiano, il tema del rilancio della crescita, stagnante da più di un decennio su livelli prossimi inferiori a quelli dei nostri partners europei e da diversi anni prossimo allo zero, è da tempo negli obiettivi delle principali forze politiche; ma sembra che nessuna di esse, una volta al Governo, sia mai riuscita a delineare ed attuare un indirizzo preciso ed efficace in materia di crescita. Nell’impostazione del bilancio 2019, la maggioranza Lega-M5S, pur nella temperie generata dal grave squilibrio emerso nei conti pubblici, scelse un orientamento volto essenzialmente a privilegiare la spesa corrente (Reddito di cittadinanza e Quota 100). Nella vulgata governativa, ispirata ad una mal digerita politica economica keynesiana queste riforme avrebbero rilanciato lo sviluppo del reddito e dell’occupazione. Il Governo riteneva, inoltre, che alla ripresa economica del 2019 avrebbero contribuito significativamente anche i provvedimenti volti a sbloccare la spesa per investimenti già stanziati negli anni precedenti e rimasti inattuati, per un importo superiore ai 100 Mld.
Nell’attuale clima politico, sovrastato dall’impostazione del nuovo Governo, tutto ciò appare come l’eco lontana di argomenti superati, che, nella realtà, hanno, però, grande importanza ai fini degli aggiustamenti di bilancio. Anche ai fini della formulazione del bilancio 2020, non è senza importanza che l’attuazione dei provvedimenti di spesa concernenti il Reddito di cittadinanza e “Quota 100”, abbia registrato non poche criticità, smentendo, tra l’altro, la tesi della vecchia maggioranza secondo cui essi avrebbero svolto un ruolo di fattori attivi del rilancio economico. Quanto allo sblocco degli investimenti pubblici già stanziati, la possibilità che ciò svolga un ruolo attivo ai fini della crescita è, in realtà, un’ipotesi molto remota, dovendo la maggior parte di essi superare ancora consistenti difficoltà procedurali. Inoltre, non va dimenticato che, funzionando la spesa pubblica secondo il “principio di cassa”, le risorse deliberate negli anni passati e non spese non sono depositate da nessuna parte; e la loro eventuale erogazione rientrerebbe nella spesa dell’anno in corso, incrementando il disavanzo pubblico.
A parte le acrobazie dialettiche del Governo uscente in materia di spese di natura prevalentemente assistenziale, alle quali la vecchia maggioranza attribuiva una valenza di stimolo allo sviluppo dimostratasi fallace, la situazione dei conti per l’esercizio 2019 si presenta abbastanza problematica, ma tutto sommato risolvibile, benché al riguardo non va dimenticato che è rimasta ancora pendente una sospensione di giudizio dell’U.E. relativa a un’infrazione per debito eccessivo. Il problema più spinoso in materia di bilancio pubblico è rappresentato dai nodi concernenti il bilancio del 2020 la cui soluzione risulta non poco difficoltosa. Senza ripercorrere puntualmente l’analisi delle prospettive di spesa dell’anno prossimo, ricordiamo solo che il nuovo Esecutivo si troverà in autunno dinanzi ad uno squilibrio valutato intorno ai 60 Mrd.
Una manovra correttiva di queste dimensioni, in presenza di un Debito pubblico esorbitante come quello italiano, può essere affrontata senza evocare lo spettro del “default” solo a condizione di lasciar cadere la maggior parte dell’aumento della spesa corrente generato dai provvedimenti varati in precedenza. È d’altronde noto che il rinvio al 2020 delle clausole di salvaguardia relative agli aumenti dell’IVA per 23 Mrd serviva a finanziare le spese del 2020 per il Reddito di cittadinanza e “Quota 100”. Provvedimenti questi che nel primo anno di applicazione hanno dimostrato, non solo assenza totale di incisività in materia di occupazione, ma anche una scarsissima influenza migliorativa del clima sociale ed un contributo pressoché nullo alla crescita economica.
Considerato l’insieme delle spese, occorrerà rinunciare ad alcuni progetti del Governo uscente completamente fuori linea rispetto alle possibilità di crescita del nostro Paese, come la proposta della “flat tax”. Essa comporterebbe una diminuzione delle entrate pubbliche dell’ordine di decine di miliardi, senza, peraltro, dare un impulso apprezzabile allo sviluppo economico. Sbandierato dalla destra per lungo tempo, il corollario dell’”effetto Laffer” concernente l’aumento delle entrate pubbliche e lo sviluppo del reddito al diminuire indiscriminato della pressione fiscale è stato sconfessato inequivocabilmente da diversi premi Nobel per l’economia, come ad esempio P. Krugman e J. E. Stiglitz: Quest’ultimo, in proposito della defiscalizzazione attuata da Reagan negli anni ‘80, si esprime così: “…la crescita subì un rallentamento, le entrate fiscali crollarono e a farne le spese furono i lavoratori. I grandi vincitori, in termini relativi, furono le aziende più importanti e i ricchi, che trassero beneficio da una forte riduzione delle aliquote fiscali…Tutto questo squallore non può essere edulcorato dalla trita affermazione che tasse più basse stimolano la crescita, un’affermazione semplicemente priva di qualunque fondamento teorico o empirico. … “in un Paese con così tanti problemi, soprattutto legati alla forte disuguaglianza, (come gli USA, ma anche come l’Italia. ndr) gli sgravi fiscali sul reddito delle aziende non ne risolveranno neanche uno. Questa è la lezione per i Paesi che contemplano l’ipotesi di agevolazioni fiscali per le imprese.1”
Per alimentare la ripresa economica vi sono, però, anche altri vincoli da rimuovere, come ad esempio quello delle polemiche con l’Unione Europea e le sue istituzioni. Non possiamo riprendere il cammino della crescita, che per tanti versi è legato agli sviluppi delle politiche europee e mondiali, senza uscire dal vicolo cieco dell’isolamento diplomatico in cui ci siamo cacciati. È necessaria un’incisiva strategia delle alleanze volta al perseguimento degli obiettivi di rango europeo cui è interessato il nostro Paese. In questo contesto e alle condizioni descritte, il nuovo Governo dovrà operare una rettifica dei conti inerenti la legge di bilancio per il 2020 di circa 12-15 Mld; una manovra non impossibile, indispensabile al fine di consegnare alla nuova legislatura una condizione di bilancio non troppo compromessa, base di partenza della politica economica di sviluppo nel medio periodo.
V’è, comunque, un vincolo imprescindibile da rimuovere per il risanamento della nostra economia: l’insufficienza degli investimenti pubblici che per molti anni ha penalizzato il nostro Paese. La sua rimozione è indispensabile per risollevare le aspettative del Paese e per produrre le risorse aggiuntive da destinare al risanamento complessivo del sistema economico. La ricostituzione degli equilibri dell’economia richiederà un massiccio piano di investimenti pubblici, corredato, oltre che da provvedimenti orientati a creare condizioni di sistema favorevoli allo sviluppo, anche attraverso una riduzione del costo del lavoro da realizzarsi con una parziale, ma significativa, defiscalizzazione degli oneri contributivi.
Il progetto della “flat tax”, con la quale il Governo giallo-verde intendeva eliminare la progressività dell‘imposta personale sul reddito, è un ritornello senza sostanza, utile unicamente a favorire spudoratamente i percettori di grandi redditi, a detrimento delle classi meno abbienti. Per un Paese indebitato come il nostro, affetto inoltre da enormi diseguaglianze nella distribuzione del reddito, questa ricetta non solo è sommamente iniqua ed enormemente costosa per l’Erario, ma risulta completamente inidonea a stimolare la crescita economica. Non è un caso che in nessuno dei Paesi industrialmente avanzati la “flat tax” abbia trovato applicazione, sebbene alcuni Stati, come la Germania, abbiano studiato a fondo il problema prima di scartare la relativa ipotesi.
Questa nuova impostazione fiscale, elaborata qualche decennio fa dal Prof. Alvin Rabushka, è stata realizzata, con risultati discutibili, solo da alcuni Paesi dell’ex impero sovietico (che non avevano in precedenza vero e proprio sistema fiscale), quali l’Estonia, la Lettonia e la Lituania, la Serbia, l’Ucraina, la Georgia, la Romania, la Slovacchia, l’Albania ecc.; e anche da minuscole isole paradisi fiscali, come le Seychelles, Trinidad e Tobago, Tuvalu, Jamaica, Jersey, Hong Kong. Neppure la riforma Trump, molto complessa e articolata (circa 500 pagine), che pure ha favorito le grandi imprese, ha dato applicazione al principio dell’aliquota unica. In realtà, ha reso unica l’aliquota della “corporate tax”, (come la nostra IRES), ma non ha eliminato la progressività dell’imposta personale sul reddito delle persone fisiche (la nostra IRPEF), che prevede tuttora 7 scaglioni, con aliquote dal 10 al 37%.
In definitiva, la diminuzione della pressione fiscale potrà avere nel nostro Paese un effetto determinante ai fini del rilancio sulla crescita, solo se incentrata su una significativa decontribuzione del lavoro. in modo da alleggerire i costi delle imprese e consentire, al tempo stesso, un aumento dei salari. Il rilancio di un ampio piano di investimenti pubblici, dedicato prevalentemente alle ricostruzioni antisismiche e alla sistemazione idrogeologica del territorio, contribuirà a costituire quella miscela propulsiva necessaria per rimettere il nostro Paese lungo il sentiero dello sviluppo. Un compito politicamente difficile, per il quale esistono, però, tutte le condizioni di base affinché l’Italia, liberata dalla malapianta del sovranismo antieuropeo, possa conseguire nel medio periodo una crescita equilibrata, insieme al rilancio dell’occupazione e ad un significativo aumento del benessere sociale.
1) Cfr. J.E. Stiglitz: “Why tax cuts for the rich solving nothing”, in “Projet Syndicate “27/07/2017