-di PIERLUIGI PIETRICOLA-
Fin troppo facile disegnare il profilo di un artista con alle spalle una rosea carriera. Difficile, invece, è cercare di fissare i tratti essenziali di coloro che sono agli esordi, il cui talento ancora deve affinarsi nell’esperienza di anni di pratica, quando giunti in età matura si abbandonano quegli entusiasmi, quel sano brio, quel coraggio ai confini con l’eresia che hanno contraddistinto le prime opere, i lavori iniziali.
Un giovane pianista, in questi ultimi mesi, sta calamitando l’attenzione di pubblici sempre più vasti. In tanti lo hanno visto prestare volto e sentimenti a un personaggio televisivo che vagamente gli rassomiglia: Domenico ne La compagnia del cigno (fortunata serie della scorsa stagione primaverile). Il suo nome è Emanuele Misuraca.
Palermitano d’origine, Misuraca sintetizza in sé i connotati della città sicula: la riservatezza caratteriale ai limiti della chiusura, la delicatezza nel gesto, la decisione netta delle scelte adottate, il coraggio picaresco vissuto con quel giusto timore che non consente ad una superficiale spavalderia di prendere il sopravvento. Negli occhi un velo di malinconia e solitudine rabbuiano lo sguardo. Il sorriso è raggiante, ma senza abbandonarsi ad una ilarità smisurata, pantagruelica, banalmente ridanciana. In Misuraca tutto sembra passare al vaglio di un’attenzione protesa al particolare. Questo talentuoso musicista analizza qualsiasi elemento e accadimento gli passano accanto.
Caratteristiche che gli hanno permesso di sviluppare un notevole stile pianistico. Formatosi alla scuola di Balzani al Conservatorio Verdi di Milano, quando suona Misuraca cerca di combinare la razionale precisione, la stoica distanza, l’austera presenza tipiche di Maurizio Pollini con l’espressività, la passionalità, il sentimentalismo che si ravvisano nelle esecuzioni di Martha Argerich.
Man mano che il brano procede, le mani di Misuraca – minute, delicate ma rapide, forti, decise – percorrono da un’ottava all’altra i tasti del pianoforte, dando vita nota dopo nota ad una interpretazione di fronte alla quale si rimane distaccati e al contempo avvinti – sia per lo sfoggio di virtuosismo tecnico che per il lindore dell’esecuzione.
Mentre suona, Misuraca ripercorre mentalmente il brano. Raramente, se poggiato sul leggio, guarda lo spartito. Le note gli sono impresse nella memoria, e come ascoltando una voce interiore che intona la melodia che in quegli istanti sta eseguendo al piano per il pubblico, il giovane artista fischietta fra sé, dondolando simpaticamente il capo, il brano in esecuzione come se a suonarlo non fosse lui, ma qualcun altro. Probabilmente è questa una fra le migliori caratteristiche del buon musicista: non identificarsi mai esageratamente con se stesso e lo strumento suonato, estraniarsi per adottare quella distanza che le opere d’arte impongono quando sono degne di tal nome.
Se gli anni affinano la tecnica, c’è da supporre che Emanuele Misuraca nel tempo diverrà un notevole interprete capace di rinverdire il panorama musicale italiano – e perché no? forse anche internazionale. Dopo i due estremi di eccellenza: la passionalità con tinte da dandy di Arturo Benedetti Michelangeli e l’illuminismo apollineo di Maurizio Pollini, Misuraca – per come attualmente le conosciamo – potrebbe essere colui in grado di innovare l’interpretazione pianistica, mediando lo stile dei suoi due illustri predecessori.
Va da sé che strologare su un futuro così remoto è operazione troppo azzardata. Tuttavia augurarsi che Misuraca prosegua a dar prova del suo talento e di ciò che ha appreso – intorno al repertorio classico e contemporaneo –, esibendosi sia in pezzi altamente virtuosistici che più intimi e raccolti, è l’auspicio migliore per la cultura musicale e artistica del nostro sciagurato paese, in vista d’un futuro più luminoso di questo scialbo e insipido presente.