-di MATTEO TARABORELLI-
Non se la prenda Hannah Arendt per l’adattamento, in chiave moderna, del titolo della sua opera, ma sembra esistere un preoccupante parallelismo tra la deresponsabilizzazione che una divisa nazista riuscì a creare più di 70 anni fa in individui perfettamente normali, e quella che un social network riesce a creare oggi. L’intenzione non è affatto quella di creare allarmismi o di paragonare quello che avviene quotidianamente sui social, a quella che forse rimane la pagina più scura della storia umana. Eppure è possibile notare che esiste una costante: gli uomini, noi. La Arendt descrisse “la banalità del male” che scatenarono i nazisti contro il popolo ebraico e non solo, e la definì appunto “banale”, perché fu qualcosa che venne commesso in modo meccanico, senza interrogarsi a fondo sulle sue conseguenze, al sicuro dietro la protezione di una divisa, di un ordine. Se un male simile fosse stato commesso dal diavolo in persona, inteso come“il male” per eccellenza, forse avremmo potuto anchesoprassedere. Forse. Invece quel male fu commesso da individui normalissimi, da padri di famiglia, da mariti, da figli e fratelli, che al fuori dall’orario lavorativo potevano anche rappresentare lo stereotipo dell’irreprensibile vicino di casa. Allo stesso modo, oggi, assistiamo ad una sorta di corsa al massacro che si scatena giornalmente sui vari social–network. Allora viene da chiedersi: che cosa sta succedendo? Che cosa ci sta succedendo? Come è possibile che individui per bene, magari profondamente religiosi, con una famiglia, con degli animali domestici che vengono trattati come figli, diventino, sui social, delle vere e proprie belve? Ci si commuove, giustamente, per l’abbandono di un cagnolino o di un gattino, e ci si indigna, sempre giustamente, se un ricco imprenditore uccide un leone per sport, ma viene tollerata l’esultanza di fronte alla morte di persone che cercano un futuro migliore. Ebbene, il fenomeno che si concretizza è il medesimo che la Arendt riscontrò: la deresponsabilizzazione. A riguardosono stati condotti vari esperimenti sociali, come “La Terza Onda” e “l’Esperimento Carcerario di Stanford”. Il primo era finalizzato a dimostrare ad un classe di studenti statunitensi l’attrattiva che poteva suscitare un fenomeno come il nazismo; il secondo intendeva studiare il comportamento umano in una società in cui gli individui erano definiti soltanto dal gruppo di appartenenza. Ed ecco che una persona “per bene” si trasforma. Posto di fronte ad un social–network, l’individuo medio perde i propri freni inibitori, perde di vista quella che Kant definirebbe “ragione morale”. Non è più in grado di distinguere ciò che è giusto, ciò che è umano, il bene dal male. Rifugiandosi dietro la battuta, la facile ironia, l’individuo scatena le proprie frustrazioni, la propria rabbia, la propria aggressività, in un modo che nella società civile non sarebbe tollerato. Così si giunge a commenti che augurano la morte, lo stupro, la malattia, la sofferenza fisica e psicologica ad un “soggetto X”. E poi anche alla sua famiglia, ai suoi cari, al suo gruppo partitico, a chi condivide la sua stessa fede, la stessa lingua, o solamente la stessa squadra di calcio. Non si attacca una persona fisica in se per se, un altro individuo conosciuto, con cui magari si è in contrasto. Ogni individuo può diventare il “soggetto X” per ragioni totalmente differenti, se ragioni possono essere definite. Basta un commento e si precipita in un vortice di rabbia.
Ovviamente le personalità pubbliche sono le più bersagliate, ma l’odio non si limita ad esse. Ciò che conta è insultare, aggredire, incalzare, dimostrare di essere i più potenti e risoluti. Quello che si viene a creare è un distaccamento dalla forma umana. In fin dei conti, chi usa i social lo fa attraverso uno schermo. Da un account si può dichiarare di tutto come se nulla fosse. È proprio qui che si concretizza la banalità. Non si considera più la persona a cui quell’account appartiene. Si cercano solamente i 15 minuti di notorietà, qualunque sia il prezzo.
Quello che ne esce davvero danneggiato, però, è il tessuto sociale del paese. Perché proprio come sui social gli uomini sono pronti ad azzannarsi a vicenda senza essere puniti, così ci si comportaanche nella società reale. Infatti, se si prendono in analisi i recenti fatti di cronaca, si può notare che i “commenti di odio” stanno uscendo dai social-network per entrare nel mondo reale.
Di conseguenza, partendo da qualche dichiarazione sopra le righe sul web, si materializzano minacce al Capo dello Stato; per contrastare le fazioni al governo, si insultano e si creano dei fantocci con le sembianze dei loro leader; pur di seguire unpensiero minoritario ed errato (anche se alcuni direbbero “elitarioe informato”), si minacciano i figli di ricercatori e uomini di scienza.
Ma questo fenomeno parte dal basso o dall’alto? Sono i privati cittadini o le personalità più importanti, i cosiddetti VIP, che danno un cattivo esempio? È irrilevante. Facciamo tutti parte della stessa società. Se è vero che le personalità, visto il ruolo che occupano, hanno il dovere di dare l’esempio, e non tutte lo stanno facendo, è vero anche che i semplici cittadini dovrebbero essere individui senzienti. Dovremmo imparare a contenerci. Dovremmo imparare ad ascoltare, e non solo per rispondere. Dovremmo ricordarci – per dirla con Camilleri – che le parole sono pietre e che, a volte, possono anche diventare pallottole.
Forse è giunto il momento di regolamentare questo dominio, il web, e sanzionare chi dichiara il falso, chi incita all’odio e alla violenza, chi insulta, chi aizza la massa in modo aggressivo, come se lo facesse nella vita reale. Ma il problema è proprio questo. Non si sanziona più. Perché nella vita reale ci stiamo abituando alle dichiarazioni al vetriolo dei nostri politici, che influenzano e rispecchiano quelle dell’elettorato. Quindi, quando una bambinadi pochi mesi viene colpita da un piombino rischiando la paralisi, qualcuno si permette di dichiarare, di fronte alle telecamere, che avrebbe sparato con un proiettile vero. Quando un sindacalista viene assassinato mentre cerca dei rottami per costruire un riparo,i vertici politici rispondono con un silenzio assordante, se non dichiarano che la “pacchia è finita”. Quando una ragazza viene stuprata ed uccisa, si spara per le strade.
Il nostro tessuto sociale si sta sfaldando, perché abbiamo smesso di considerarci, se mai lo abbiamo fatto, tutti uguali. “Noi” siamo meglio di “loro”, i “soggetti X”, chiunque essi siano. Il problema è che, prima o poi, toccherà a tutti essere “soggetti X”, e non sarà piacevole.