-di ANTONIO MAGLIE-
È in corso una gara affannosa e trafelata da parte degli esponenti del governo (o
ideologicamente prossimi al governo) a escludere, al di là di ogni ragionevole dubbio, la presenza nel nostro Paese del virus razzista. L’ultimo in ordine di tempo a fornire garanzie a proposito di questa totale immunità è stato il filosofo neo-illuminista dei Caruggi che ha liquidato la vicenda della giovane discobola, Daisy Osakue, colpita a un occhio mentre attraversava una strada torinese, lamentando l’eccesso di indignazione provocato da un uovo.
Comprendiamo che la cosa nel suo ambiente non è insolita e probabilmente lui stesso, semmai agli esordi della carriera, sarà stato accolto in qualche piazza della penisola con il lancio beneagurante del gustoso alimento in
questione. Ma certe analisi liquidatorie rischiano non solo di banalizzare pericolosamente un problema serissimo ma anche di contraddire una realtà storica. Perché gli italiani saranno anche
“brava gente” ma non è assolutamente vero che siano (o siano stati) totalmente immuni dal rischio del contagio razzista. Basta rileggere i grandi e i piccoli fatti della nostra vicenda unitaria per rendersene conto.
In fondo questo è sempre il Paese in cui negli anni Cinquanta e Sessanta (e anche dopo, molto dopo) in diverse città del Nord alcuni (non pochi) proprietari di appartamenti non affittavano ai meridionali semmai giustificandosi con la tesi che gli immigrati coltivavano il prezzemolo nella vasca da bagno. Nel suo ultimo ponderoso ma gustoso libro (“Patria 1967-1977”), Enrico Deaglio ci offre, in un interessante piccolo affresco, il campionario delle definizioni “popolari” con le quali in una città come Torino venivano chiamati quegli “altri italiani”: terun, sudici, terra da pipe, abissini, bedu, napuli, bassaitalia, mau mau, zulu. Nelle note Deaglio riporta anche un servizio pubblicato da “La Stampa” (autore Carlo Casalegno) così titolato: “Torino non è razzista. Sono migliori di un tempo i rapporti con gli immigrati: i matrimoni ‘misti’ sono saliti al 10 per cento”. Citando, infine “La storia di Torino” di Symcom e Cardoza, sottolinea come le condizioni di vita dei meridionali fossero “particolarmente aberranti nelle baracche improvvisate dove i giovani immigrati dividevano una stanza dormendo a turno nello stesso letto, mentre dozzine di famiglie utilizzavano bagni comuni”.
Episodi senza un substrato culturale a far da filo conduttore tra passato, presente e,
considerato l’andazzo, futuro? Mica tanto. Anzi, rileggendo le nostre vicende, non è difficile individuare quel filo che ci rimanda ad antichi pregiudizi alimentati da autorevoli rappresentanti dello Stato. Negli anni della “guerra al brigantaggio”, il quarto presidente del Consiglio dello stato unitario, Carlo Luigi Farini, si esprimeva così a proposito dei meridionali: “Che barbarie! Altro che
Italia! Questa è Africa: i beduini al riscontro di questi caffoni sono fior di virtù civiche” (Enzo Ciconte, “La grande mattanza”, pag. 135, Laterza). Non a caso per lungo tempo nessun capo del governo si “avventurò” a sud di Roma, preferendo evitare il “contagio” e abbandonando il
“governo” di quella parte d’Italia, almeno per il decennio successivo all’unità, a un esercito guidato da generali che disprezzavano apertamente anche (e forse soprattutto) per motivi sociali quei
“caffoni” che non capivano, non apprezzavano e che provvidero a sterminare.
Compiendo un salto di oltre un secolo e arrivando al 2009 (serata post-raduno leghista di Pontida) si incontra un altro capo di governo, pardon, vice-capo, Matteo Salvini, che travolto dal clima conviviale cantava (birra in mano e documentazione video facilmente rinvenibile in rete) una canzoncina ancora oggi molto diffusa tra i gruppi ultras calcistici del nord: “Senti che puzza,
scappano anche i cani, stanno arrivando i napoletani, o colerosi, terremotati con il sapone non vi siete mai lavati, Napoli merda, Napoli colera sei la vergogna dell’Italia intera”. La lirica non è propriamente leopardiana ma spiega ampiamente come il pregiudizio, attraversando gli anni e i secoli, inquini alcuni anfratti della nostra società. E delle nostre menti.
D’altro canto, non possiamo nemmeno dimenticare che quando nel 1938 vennero emanate le leggi razziali, l’Italia della brava gente non ebbe alcun sussulto visibile. Anzi, da un lato alcuni approfittarono dell’emarginazione degli ebrei per fare carriera occupando i posti improvvisamente “liberati”, dall’altro le loro timorate signore provvidero ad allontanare i propri figli dagli amichetti con i quali avevano giocato sino a qualche giorno prima, in quanto questi ultimi colpiti dall’improvviso stigma mussoliniano.
Con questa realtà abbiamo potuto evitare di fare apertamente i conti perché al contrario della Francia, della Gran Bretagna o del Belgio noi non avevamo alle spalle una storia coloniale, semmai al massimo tentativi un po’ svaccati e straccioni comunque non immuni da vergognosi esempi di crudeltà. Il pregiudizio restava, in sostanza, fra le quattro mura domestiche essendo l’Italia paese di migranti ma non di immigrati stranieri. Tutto appariva (almeno agli occhi di chi non ne era vittima) più sopportabile: all’estero la cosa non faceva notizia perché poi in fondo era una questione di casa, di famiglia e, come è noto, in famiglia si lavano pure i panni sporchi. La conoscenza con gli immigrati provenienti dall’estero l’abbiamo fatta in tempi relativamente recenti: gli inizi degli anni Novanta del secolo scorso quando nei porti di Brindisi e Bari (in questo secondo caso, per venir “accolti” in uno stadio) attraccarono le carrette del mare stracolme di albanesi nei confronti dei quali, passata una prima fase di generale ed emozionata solidarietà, emersero momenti di diffidenza e rifiuto.
Ma il colore della pelle di quei primi immigrati era simile al nostro, erano, dunque, meno identificabili, individuabili. Adesso l’immigrazione ha un colore diverso, visibile e questo rende più aperto il fastidio e meno silenziosi i pregiudizi. Si può anche convenire con Salvini che un episodio di violenza va perseguito in quanto tale, indipendentemente dal fatto che possa riguardare un nero o un bianco, a patto che tale “indifferenza” da virtuosa non si trasformi in viziosa venendo utilizzata per occultare la (mala)questione sociale e culturale, cioè l’esistenza di un pregiudizio razziale che tale resta tanto che riguardi una maggioranza quanto che coinvolga una minoranza.
Il suo collega di governo, Luigi Di Maio, sostiene che non si può mettere in relazione il riprodursi di determinate vicende con l’azione dell’esecutivo. Affermazione sacrosanta purché non si usino parole, toni, accenti che finiscono per fornire ai più predisposti una motivazione (e semmai anche un’occasione) per gesti intolleranti o estremi. Da questo punto di vista il governo attuale non è apparso particolarmente fermo e conseguente. Soprattutto non lo è quando con prudenza
estremamente pelosa affronta sostanzialmente col silenzio un tema che, come la storia del Paese ci racconta, non è totalmente fuori dai nostri confini antropologici finendo con la sua costante presenza per rivendicare spazi sempre maggiori.