-di ANTONIO MAGLIE-
Luigi Di Maio con il trascorrere del giorni appare sempre di più un personaggio delle favole piuttosto che un super-ministro chiamato a governare due questioni fondamentali per la vita del Paese, il lavoro e la politica produttiva (non solo industriale). Pressato dall’esigenza di rincorrere Matteo Salvini e la sua nuova Lega filo-putiniana sul terreno della visibilità mediatica, non si è reso conto che inseguire il consenso con esibizioni muscolari anti-immigratorie è molto più semplice della ricerca di soluzioni razionali sul fronte dell’occupazione. Salvini, in fondo, può lisciare il pelo del suo gatto elettorale per il verso giusto fregandosene dei principii del diritto internazionale e non ponendosi il problema di cosa si muove (trafficanti di uomini a parte) dietro le sempre più massicce ondate migratorie che spingono dal Sud al Nord del mondo una marea dolente (che l’Africa sub-sahariana da cui proviene la maggior parte degli immigrati rappresenti un problema da oltre due miliardi di persone in cerca di cibo e lavoro, in fondo non è questione che possa toccare chi cerca voti immediati e non soluzioni strutturali, semmai lanciando slogan che fanno a dir poco rabbrividire la coscienza civile, almeno in quelle persone che quella coscienza ce l’hanno ancora). L’impatto del messaggio del capo della Lega è immediato e garantito (almeno sul suo elettorato); quello di Di Maio, invece, è “mediato” (dalle situazioni economiche, dal diritto del lavoro fin troppo manomesso negli anni passati per poter sopportare anche decreti più o meno dignitosi ma decisamente vacui, dagli atteggiamenti collettivi e individuali, dalle urgenze politiche di un esecutivo di coalizione) e fortemente ipotetico.
Così nascono le polemiche “artificiali”. Quella con Tito Boeri, ad esempio, presidente dell’Inps ormai in scadenza che hanno consentito soprattutto alla Lega di rivendicare più o meno indirettamente (e più o meno pubblicamente) quella poltrona. È proprio così sorprendente il fatto che il famoso decreto possa determinare la riduzione dei contratti a termine? Sino a prova contraria, il provvedimento è nato proprio per limitare un precariato a cui l’abuso dei contratti a termine fornisce un contributo evidente. Da questo punto di vista, paradossalmente le stime dell’Inps e di Boeri hanno solo certificato l’efficacia degli “strumenti” scelti dal super-ministro. Ergo, Di Maio non dovrebbe polemizzare con lui ma abbracciarlo con grande affetto.
Nel libro uscito postumo, Stefano Rodotà fa ampio uso della parola “dignità” sottolinenando come essa abbia un senso solo se sostenuta dal riconoscimento di diritti. L’obiettivo del super-ministro era impegnativo ma poi arrivano le mediazioni che possono anche essere “2.0” ma sempre mediazioni sono. Cosa c’entra la dignità con il reinserimento dei voucher che al di là degli strepiti delle organizzazioni datoriali, in un Paese come il nostro abituato più che a usare ad abusare degli strumenti legittimi, hanno prodotto nel passato conseguenze decisamente poco degne? E che senso ha la ricorsa a incentivi che alla fine si rivelano solo l’intestazione di vecchie soluzioni, già presenti in altri provvedimenti (Fornero, Letta, Gentiloni) e che dal punto di vista dell’aumento dei contratti a tempo indeterminato hanno prodotto poverissimi risultati? Certo poi può anche accadere che un partito senza né capo né coda attualmente all’opposizione proponga di ritornare alle ventiquattro mensilità (invece delle trentasei indicate nel decreto) per la definizione del limite massimo degli indennizzi per i licenziamenti ingiustificati; ma se non andiamo errati il Movimento 5 stelle prevedeva il ritorno all’articolo 18, cioè al reintegro in caso di assenza di “giusta causa”, unico strumento reale (anche qui: strepiti padronali a parte) per restituire diritti al lavoratore, tutela contro comportamenti illegittimi o addirittura illeciti, cioè diritti che diventano dignità come nella formulazione di Rodotà (ma non in quella di Di Maio).
Soluzioni deboli e polemiche inutili (o utili come semplici prolungamenti di una campagna elettorale mai finita e che mai finirà). Come quella sull’Ilva. Perché la ricostruzione della vicenda fornita dal capo dell’Autorità anti-corruzione a “la Repubblica”, ci dice che tutto è stato costruito sull’asse Palazzo Chigi-via Veneto. Attraverso il trasparente presidente del Consiglio, il super-ministro ha sollecitato una risposta di Cantone su alcuni elementi critici di una gara che ormai fa parte del passato e che poco o nulla può aggiungere ai sedicimila tarantini che trovano una fonte di reddito in una azienda ad alto rischio (di sopravvivenza) industriale e non solo ambientale. Che la gestione dell’ex ministro Carlo Calenda contenga più di un’ombra (la più pensante è quella relativa alla scarsa attenzione rivolta al rilancio dell’altro concorrente) è un dato di fatto. Ciò non toglie che bisogna decidere. Ma a questo punto il nostro piccolo Alice nel Paese delle Meraviglie si rende conto che al contrario di quel che lui dice in pubblico, gli interessi nella vita reale spesso confliggono e che l’azione di governo consiste proprio nella capacità di trovare (sulla base di una razionale scala di priorità) punti di equilibrio che, garantendo la difesa del bene comune, favoriscano l’incontro tra aspettative diverse, a volta addirittura molto lontane. A Taranto, sinceramente, delle sue inchieste ministeriali (questo sembra essere il governo che “vuole farla pagare” sempre a qualcuno) se ne strafregano. La città negli ultimi sei anni si è impoverita a un ritmo decisamente accelerato. E non siamo proprio convinti che in tanti da questa “decrescita” abbiano tratto motivi di felicità, al di là di quel che possa pensare il nostro settantenne “Latouche al pesto” che vagheggia parchi e strampalati progetti di riconversione e sviluppo.