-di MAGDA LEKIASHVILI-
La commissione elettorale lunedì mattina ha confermato la vittoria di Recep Tayyip Erdogan nelle elezioni presidenziali in Turchia. Il 53% degli elettori hanno affidato nuovamente a lui la guida del paese. Vittoria scontata, per il presidente turco, e soprattutto un esempio di democrazia moderna. Per la prima volta, i turchi hanno votato anche per un nuovo parlamento lo stesso giorno e hanno consegnato la maggioranza al partito islamista guidato da Erdogan (AKP).
Quella che è democrazia per il capo del governo, è chiamata dall’opposizione “regime di un solo uomo”. Soprattutto da quando il vincitore della corsa presidenziale è destinato ad assumere straordinari nuovi poteri approvati con il referendum dell’anno scorso. Il cambiamento costituzionale è stato la fonte delle maggiori accuse contro Erdogan. A differenza dei leader precedenti Recep Tayyip Erdogan avrà un potere quasi illimitato sia esecutivo che giudiziario. Avrà il controllo completo del gabinetto e sarà incaricato di nominare 12 giudici della Corte Suprema su 15. Guiderà la politica monetaria nel tentativo di invertire “l’economia malata” della Turchia. Dopo il golpe del 2016 l’economia turca è notevolmente peggiorata. Il valore della lira turca rispetto al dollaro è sceso quasi del 30%, sono diminuiti gli investimenti stranieri, aumentati i prezzi e l’inflazione ha raggiunto il 12%. Sarà Erdogan a preparare il bilancio annuale, mentre prima il compito spettava ai rappresentanti del gabinetto.
“Il vincitore è la supremazia della volontà nazionale. Il vincitore è la Turchia, la nazione turca. Il vincitore sono tutti gli addolorati della nostra regione, tutti gli oppressi del mondo. Sembra che la nazione mi abbia affidato il compito della presidenza. La Turchia ha dato una lezione di democrazia con un’affluenza di quasi il 90 per cento. Spero che alcuni non nascondono il loro fallimento”, – dice dopo la vittoria il presidente.
Edrogan ha indetto elezioni presidenziali e parlamentari il 24 giungo 2018, un anno e mezzo prima del previsto, anche se ne è uscito vincitore, il partito al governo dell’AKP (Partito per la Giustizia e lo Sviluppo) non ha ottenuto i 300 seggi necessari per mantenere la maggioranza in parlamento. Il che significa che l’AKP deve mantenere l’alleanza con il nazionalista MHP, che porterà il loro conteggio da 293 a 343. Solo così avranno il potere assicurato. Infatti, il partito di estrema destra MHP (Partito del Movimento Nazionalista) ha raccolto oltre l’11% dei voti, il doppio di quello che la maggior parte dei sondaggi aveva previsto. Unendo le loro forze con il Partito per la Giustizia e lo Sviluppo, influenzeranno le future scelte politiche del paese.
L’opposizione ha provato a sconfiggere il partito di Erdogan con le forze riunite. Ancora prima delle elezioni la principale rivale di Erdogan sembrava essere una donna, Meral Aksener, leader del Buon Partito (IYI). Le auguravano anche un significante successo. Aksener è entrata in coalizione con altri tre partiti: il Partito Popolare Repubblicano (CHP), il più grande gruppo laico di opposizione in parlamento, il Partito Democratico e il Partito Islamico delle Felicità (SP). Secondo i risultati del 24 giugno in parlamento entreranno solamente CHP con 146 e IYI con 44 deputati.
Anche il partito filo curdo dell’HDP (Partito Democratico Popolare) sta per entrare in parlamento. Nonostante il loro leader Selahattin Demirtas sia imprigionato da quasi due anni con accuse puramente politiche, il partito è riuscito ad ottenere più del 10% del voto nazionale, necessario per assicurarsi posti nell’assemblea. Ciò significa che terranno 67 posti nella nuova sala, diventando così il secondo partito di opposizione.
Anche il gruppo socialista di sinistra ha ottenuto un piccolo successo durante le elezioni. Ha ottenuto 67 seggi. Piccolo successo perché il risultato delle elezioni nel 2015 gli avevano assegnato il 10.75% dei voti, 59 deputati. Prima del voto di domenica, si temeva che il sentimento anti-curdo nel paese, che è peggiorato durante gli scontri in corso tra soldati turchi e curdi nel nord della Siria, avesse ridimensionato le loro speranze elettorali.