-di FRANCO CAVALLARI-
La lotta alla povertà rappresenta per l’Italia una priorità non più rinviabile, specialmente nell’attuale fase storica in cui il Paese, oltre a consolidare il suo “status” di potenza industriale, tende ritagliarsi un ruolo propulsivo nella riproposizione dei valori fondativi dell’Unione Europea. Per altri versi, è’ stato ormai dimostrato che il conseguimento di uno “standard” di socialità adeguato all’attuale contesto occidentale avrebbe una valenza positiva anche sul piano dello sviluppo del reddito, fornendo un contributo significativo all’attenuazione degli effetti recessivi derivanti dalla grande diseguaglianza nella distribuzione del reddito, accumulata nei decenni passati.
Uno studio dell’OECD riguardante la situazione sociale nel 2015 dei Paesi aderenti, suddivide la “spesa sociale complessiva” in due parti: la “spesa sociale propriamente detta” e i “cash tranfers”, comprendenti, questi ultimi, tutti i tipi di pensione. Il confronto tra queste due serie evidenzia un’anomalia di grande rilievo consistente nell’evidente disallineamento della prima serie rispetto ai dati degli altri Paesi europei.
In effetti, l’Italia impiega nella “spesa sociale propriamente detta” soltanto l’11,9% del PIL, a fronte del 12,1% della Spagna, del 14,3% della Germania, del 15,1% del Belgio e del 16% della Francia, con una media dell’Europa a 21 Paesi intorno al 13,4%; per quanto riguarda i “cash tranfers”, al contrario, il dato italiano (16,8%) è praticamente in linea rispetto ai Paesi al vertice della classifica europea, come l’Austria (17,5%) e la Francia (17,1%).
Come si vede, i fondi dedicati dal nostro Paese alla “spesa sociale propriamente detta” accusano un sensibile ritardo, rivelando una forte la carenza di servizi sociali divenuti ormai essenziali: manchiamo di asili nido, di strutture per l’assistenza agli anziani e alla prima infanzia, di ambulatori, impieghiamo tempi troppo dilatati nell’erogazione dell’assistenza sanitaria; tutti servizi che contribuiscono efficacemente ad alleviare la condizione di povertà relativa dei ceti meno abbienti. Per quanto riguarda ii fondi dedicati ai “trasferimenti sociali” (ossia alle pensioni nel loro insieme), ancorché allineati al livello dei principali Paesi europei, essi si disperdono in un numero enorme di prestazioni (circa 21 milioni), distribuite a circa 16 milioni di aventi diritto, con una distribuzione che presenta, peraltro, una grande divaricazione tra gli importi minimi e quelli più elevati
Il Rapporto annuale dell’INPS relativo alla spesa pensionistica del 2015 conferma sostanzialmente le risultanze dello studio dell’OECD: per il nostro istituto di previdenza le “prestazioni pensionistiche previdenziali” sono circa 17 milioni, di un importo medio lordo di poco superiore ai 1000 euro mensili e la loro distribuzione accusa un’ampia dispersione intorno alla media; ad esse si aggiungono quasi 4 milioni di “prestazioni pensionistiche assistenziali”.
Le “prestazioni pensionistiche previdenziali” comprendono quasi 5 milioni di prestazioni per le “Gestioni lavoratori autonomi e parasubordinati”, il cui importo medio mensile lordo è di circa 650 euro, mentre le “prestazioni pensionistiche assistenziali” registrano una media di poco inferiore ai 400 euro mensili lordi, contribuendo ad abbassare la media complessiva delle pensioni a circa 850 euro lordi mensili. Come si vede, la nostra è una realtà molto generosa nel numero delle pensioni sia “previdenziali”, che “assistenziali”, ma molto avara negli importi per circa 9 milioni di pensionati.
Da questi pochi dati emerge un contesto molto disarticolato che contempla, oltre a una endemica carenza di servizi sociali alla famiglia, anche un’ ampia dispersione nella distribuzione dei redditi pensionistici, inseriti in una Società che accusa una forte diseguaglianza dei redditi ed un livello di “povertà assoluta” che conta 4,5 milioni di poveri.
Al prossimo Governo spetta il compito di ricomporre gradualmente un quadro sociale più equilibrato, con provvedimenti che potrebbero articolarsi lungo tre direttrici: a) sviluppare un’azione di base che, stabilendo il salario minimo garantito ed altre misure di carattere fiscale, inizi a ridurre le diseguaglianze di reddito; b) reperire un volume di risorse annuali pari a circa 1 punto di PIL (13 Mld) a copertura del finanziamento di una più ampia offerta di servizi sociali, in modo da recuperare almeno parte del nostro ritardo nei servizi sociali; c) stanziare almeno un altro punto di PIL a copertura dell’adeguamento del “reddito di inclusione” garantendo alla maggior parte dei 4,5 milioni di “poveri relativi” un’integrazione di reddito media di almeno 3-4000 euro l’anno.
Il complesso di queste azioni, da realizzare gradualmente in due o tre anni, richiederebbe la disponibilità di nuove risorse per circa 25 Mld complessivi, che potrebbero essere finanziati incidendo fiscalmente cespiti non attivi rispetto alla base produttiva, quali le rendite finanziarie, ad esempio attraverso una “mini patrimoniale finanziaria “una tantum” del 2,5% sui patrimoni finanziari superiori a 500mila euro, che, secondo le statistiche della Banca d’Italia, ammontano a 1.100 Mld.