-di POLITICO-
The Progress Report di venerdì pubblica uno studio su chi paga i costi sociali in America, che è lo specchio di fin dove la società di quel paese si sia spinta in quanto a ingiustizia sociale. Rachel West, Rebecca Vallas ed Elisa Schultz, autrici della ricerca, documentano con abbondanza di dettagli che, contrariamente ai salariati che pagano per ogni busta paga il loro contributo al sistema di sicurezza sociale, il 16 febbraio è l’ultimo giorno nel quale il millionaire marginale ha versato i contributi per l’anno in corso. Accade perché i ricchi non sono tenuti a versare ulteriori imposte quando i loro redditi superano il tetto dei contributi previsti per la sicurezza sociale, fissato per quest’anno da Trump a 128.400 dollari. La norma si traduce di fatto nel favorire i più ricchi, in quanto più salgono di reddito prima raggiungono il tetto, sottraendo di conseguenza un ancora più ampio margine di ricchezza all’imposizione a fini di sicurezza sociale collettiva.
Può scandalizzare, ma non sposta, che il presidente degli Stati Uniti raggiunga il tetto a poche decine di minuti dalla mezzanotte di fine anno, e che i ricchissimi membri del suo gabinetto siano tutti protagonisti di questo legale ma totalmente irrazionale e ingiusto sistema di prelievo.
Sulla questione imposte e redistribuzione della ricchezza va chiarito l’equivoco di fondo che impedisce ogni risolutivo ragionamento. Non si tratta necessariamente di un problema né politico né morale: buttare in politica le scelte economiche e fiscali dei governi conservatori (da Reaganomics a Thatcheromics, sino al presente guazzabuglio di misure proposte e/o assunte da Trump) serve solo a confondere le acque, che sono già di sé parecchio torbide.
In casa fondazione Nenni se ne è avuto un ottimo esempio, al recente convegno di studi costituzionali organizzato al Cnel, in occasione del settantennale della costituzione. L’autorevole voce di Roger Pilon, vice presidente di Cato Institute e direttore del Centro di studi costituzionali, organismi capofila del pensiero libertarian statunitense, ha attaccato il welfare state come misura liberticida, sulla base di principi eminentemente giuridici, figli della visione morale dei padri costituenti. Lo stato che adotta politiche sociali è lì interpretato come usurpatore di ciò che spetta al volontarismo del buon samaritano evangelico che soccorre il bisognoso, non ad un presunto e vieto ridistributore ed equilibratore di risorse nell’interesse del bene generale.
Diversamente dalla gran parte del diritto continentale, il diritto anglo-americano non ha mai costretto gli estranei ad andare ad aiutare gli altri. Non lo ha fatto perché la libertà individuale è il suo maggiore obiettivo. E ha visto che non c’è alcuna virtù nella beneficienza forzata. … Il buon samaritano è, in piccolo, il moderno stato sociale. Se non c’è nessun diritto ad essere salvato, non c’è il relativo obbligo da imporre. Il che solleva questioni importanti rispetto alla legittimità precipua dello stato sociale o welfare state.
Peraltro sul numero appena uscito di Cato Journal, il tema viene ripreso, sotto il profilo economico e sociologico, da due saggi, rispettivamente di Leszek Balcerowicz con Marek Radzikowski, e di Roger Douglas con Robert MacCulloch. Sono ben fatti e sostenuti da solida letteratura, puntando più che ad una critica di principio, ad evidenziare i difetti che nella pratica i regimi di welfare hanno mostrato. Battono, in particolare, sull’impatto negativo che lo stato sociale avrebbe sulla crescita economica di lungo periodo (peso fiscale su imprese e famiglie, riduzione dei risparmi privati, compressione dell’occupazione, cronica fragilità fiscale).
Si potrebbero opporre molti argomenti a questo modo di presentare le cose (ad esempio, perché in un paese di welfare generoso come l’Italia vi è moltissimo risparmio privato, al contrario degli Stati Uniti paese di welfare assai risicato? perché vi è altissimo indebitamento pubblico sia in Italia che Stati Uniti, nonostante i diversi regimi di welfare?), ma non è ciò che qui interessa.
Interessa smontare la logica dell’attacco che dai tempi di Reagonomics e Thatcheromics viene portato allo stato sociale, come se non si trattasse di uno dei pilastri dei regimi di democrazia liberale e sociale fondati in occidente dopo la fine della Seconda guerra e dei totalitarismi. Si tende a dimenticare che l’accoppiata di democrazia e socialità trovò i massimi interpreti proprio nel mondo anglosassone, vincitore della guerra. La Carta Atlantica e il rapporto Beveridge, sottoscritti in piena guerra, sono lì a testimoniarlo. E’ vero che furono anni (anche) di Labour e democratici al governo, ma furono anche anni di Churchill, feroce conservatore; e Beveridge era un lord liberale!
I contenuti dei trattati Ceca e Cee, figli di quella cultura, furono influenzati dagli Stati Uniti, presidente il repubblicano Dwight David Eisenhower, molto più di quanto in genere si ritenga (si vedano gli stretti rapporti fiduciari del tecnocrate visionario Jean Monnet, durante la guerra, con le democrazie americana e britannica).
Attaccare lo stato sociale, in una visione storica di lungo periodo, è quindi, lo si voglia o non, attaccare la democrazia e il consenso che essa ha sinora riscossa nei ceti popolari, con prevedibili conseguenze sul sistema internazionale e sui rapporti tra gli stati.
Se infatti è vero che il sistema internazionale trova il suo punto di equilibrio nella pacificazione, che gli stati necessitano di condizioni adatte all’esercizio del potere e delle garanzie di sicurezza, che le nazioni e gli individui ricercano il benessere e la crescita, si ammetterà che occorrano le risorse necessarie a garantire tutto ciò. Alla base di quell’equilibrio generale, che va indefessamente ricercato, può esserci solo un benessere diffuso e condizioni sufficienti a consentire al “pubblico” di fornire sanità, scuola, reddito sufficiente, assistenza ai deboli, etc.
Se i più ricchi non contribuiscono, in relazione alle loro disponibilità finanziare, all’edificazione di quell’equilibrio, che è finanziario per poter essere politico e sociale, mancheranno le risorse necessarie per realizzarlo. Ritenere che l’1% della popolazione mondiale, attualmente in possesso di più della metà della ricchezza mondiale (negli Stati Uniti la metà del reddito dello scorso anno è andata al 10% più ricco, l’altra metà al 90% della popolazione), contribuisca volontariamente a mettere in mano agli stati i mezzi per restituire razionalità ai rapporti sociali deterioratisi nell’ultimo decennio, significa rifiutare l’evidenza: che gli animal spirits of capitalism di Adam Smith e Schumpeter mal si conciliano con lo spirito del buon samaritano.
Si veda il grafico pubblicato dalla ricerca di The Progress Report: tra il 1983 e il 2016 la parte di reddito non soggetta a contributi sociali è cresciuta, negli Stati Uniti, più del 7%, superando ad oggi il 18% del totale del reddito. Nel frattempo i repubblicani chiedono a gran voce che si diminuiscano le prestazioni di programma come Social Security, Medicare e Medicaid, mentre Trump vuole che nel prossimo anno fiscale si taglino 72 miliardi di impegni dai programmi federali sulle disabilità.
Che la questione sia essenzialmente economica (ovvero che la bulimia dei miliardari non trovi limiti nell’economia finanzia rizzata), è confermato dai calcoli reperibili, per gli Stati Uniti, nella ricerca pubblicata da The Progress Report. Se dal 1983, quando coprivano il 90% del reddito, si fosse mantenuto lo stesso sistema di esenzione da contributi sociali, la somma dei fondi fiduciari di disabilità e pensione a fine 2016 sarebbe stata più elevata per quasi $1.300 miliardi di dollari. Se inoltre, nel periodo considerato, i salari medi dei lavoratori americani fossero cresciuti alla stessa velocità della produttività, i fondi fiduciari avrebbero ricevuto più di 375 miliardi di risorse addizionali.
Non sorprende leggere che nei sondaggi d’opinione di questi ultimi mesi, gli elettori si esprimano a stragrande maggioranza in favore del programma Social Security, anzi lo vogliono rafforzato e migliorato, dichiarandosi pronti a pagare più contributi se necessario. Il Center for American Progress, in sondaggi appena effettuati, afferma che, anche sul programma della sicurezza sociale dedicato ai disabili, la gente la pensa allo stesso modo, qui con una maggioranza che si ferma vicino agli 8/10. Immaginare che l’onda di opinione pubblica che sta salendo a favore dello stato sociale non chieda conto al complesso finanziario-politico delle sue azioni, significa non conoscere le tradizioni della partecipazione diretta al cambiamento che appartiene alla cultura civica e politica americana.