-di MAURIZIO BALLISTRERI-
Quando si parla di Ponte sullo Stretto, quasi come una sorta di riflesso condizionato, a sinistra partono le polemiche.
In parte per pregiudizi legati a vetero-ambientalismi ovvero per scarsa conoscenza della funzione civile ed economica di tale opera. E sì, perché il Ponte di Messina non può essere visto riduttivamente come un’opera funzionale a velocizzare il traffico tra le due sponde dello Stretto, ma quale infrastruttura ritenuta di rilevanza europea e transnazionale, parte fondamentale di quel Corridoio 1 per creare un asse che da Berlino arriva sino a Palermo. Si tratta di quel Corridoio che dovrebbe percorrere verticalmente l’Italia attraversando il Nord-Est, a partire dal Valico del Brennero, e proseguendo per le regioni tirreniche sino alla Sicilia, con dieci Regioni italiane interessate: Trentino Alto Adige, Veneto, Emilia-Romagna, Toscana, Umbria, Lazio, Campania, Basilicata, Calabria e Sicilia. Il Corridoio attraverserebbe l’Italia per due terzi della sua lunghezza, rappresentando un importante asse di collegamento per il trasporto merci e persone a lunga percorrenza su gomma e su rotaia. La realizzazione del Corridoio 1 costituisce un’opportunità per il Mezzogiorno e può essere fattore di avvicinamento e integrazione fra le regioni meridionali dell’Italia e quelle dell’Europa settentrionale e centro-orientale, nello spirito della politica europea di coesione economica e sociale, anche nella prospettiva euromediterranea.
E’ sbagliato, pertanto, ritenere che prima del Ponte si debbano realizzare altri interventi, come la modernizzazione ferroviaria, poiché solo l’attraversamento stabile sullo Stretto, come da atti di RFI e del Ministero delle Infrastrutture, consente di portare l’alta velocità dopo Salerno e sino in Sicilia. Né reggono contestazioni sul versante del rapporto costi-benefici, visto che l’opera è certificata sia sul piano della sostenibilità ambientale che economica, oltre alla circostanza della dichiarata disponibilità di investitori internazionali, come ad esempio la China Investement Corporation (Cic), fondo sovrano del governo di Pechino.
Senza dimenticare che storicamente per la sinistra, in particolare quella riformista e socialdemocratica, aliena da ogni pauperismo o, peggio, dalla “decrescita felice”, il modello economico è sempre stato quello keynesiano, fondato anche sugli investimenti pubblici, specie in infrastrutture, per stimolare la domanda e, quindi, crescita e occupazione.
Al netto del bieco e intollerabile elettoralismo, il Ponte sullo Stretto di Messina, a livello politico dopo anni di colpevole inerzia, rappresenta la consapevolezza che è necessario investire al Sud anche in grandi opere infrastrutturali, funzionali alla modernizzazione di sistema, precondizione fondamentale per attirare capitali privati. Se si vuole evitare l’inutile retorica meridionalistica, servono massicci investimenti in porti, autostrade, reti ferroviarie e collegamenti telematici, politiche fiscali ed energetiche di vantaggio e, in questo necessario scenario, il Ponte, per consentire al Meridione d’Italia, di divenire la piattaforma logistica ed operativa dell’incontro tra l’Europa e un Mediterraneo pacificato, mettendo in equilibrio globale e locale.
E d’altronde, proprio i socialisti hanno storicamente sostenuto il ruolo strategico dell’Area dello Stretto e della realizzazione del Ponte. Il leader del Psi Bettino Craxi, nel 1985, all’apice degli anni straordinari della sua premiership, firmò la convenzione per il Ponte, lanciando l’idea di una grande area metropolitana nello Stretto, frutto della conurbazione tra Messina e Reggio Calabria, nell’ambito di una lungimirante visione geopolitica che assegnava al Mezzogiorno d’Italia la funzione di cerniera tra la costruzione di un’Unione europea non bancocentrica e i paesi rivieraschi del Mediterraneo. E così, il sindacalismo riformista con Giorgio Benvenuto, sostenitore in quegli anni della realizzazione del Ponte in una prospettiva di New Deal per il Sud d’Italia.
Sul ponte sono sempre attuali le belle parole scritte da Francesco Merlo sul “Corriere della Sera”: “E anche con i bilanci in rosso, il Ponte sarebbe comunque ricchezza, risorse, opportunità straordinarie, nuovi posti di lavoro. Alla fine è l’opera più bella e avanzata che l’Italia possa realizzare, è un risarcimento al nostro Sud e deve essere un’opera laico-simbolica keynesiana, la fine di un handicap, la fusione di Messina e Reggio nella Città dello Stretto, come una nuova Costantinopoli”.
Il 6 agosto 2015 il Presidente Egiziano Abdel Fattah inaugurò il “raddoppio” del canale di Suez, un’impresa “faraonica” (è il caso di dirlo!) che sta consentendo l’incremento del traffico navale da e per il Mediterraneo e non solo. Per la sua realizzazione erano stati previsti tre anni di lavori, ma ne è bastato uno solo, e il costo è stato di 8,2 miliardi di dollari. E si guardi al ponte di Oresund di 15,9 km che collega la Svezia alla Danimarca, in prossimità rispettivamente delle due città di Malmö e Copenaghen, il più lungo ponte d’Europa adibito al traffico stradale e ferroviario con una campata centrale di 490 metri, inaugurato il 1° luglio 2000, esempio di integrazione ma anche di coesistenza tra rispetto per l’ambiente e opere di alta ingegneria. Per tacere di Istanbul con il terzo ponte sospeso sul Bosforo, che oltre a collegare Europa e Asia, abbracciando il Mar Nero (realizzato dall’italiana Anstaldi quale parte del progetto autostradale della North Marmara Highway, con un investimento totale di circa 3 miliardi di dollari), avrà anche la funzione di decongestionare il traffico della megalopoli turca e di creare un corridoio che faciliti i trasporti anche verso la Grecia.
A proposito del Ponte sullo Stretto è giusto affermare “Se non ora, quando?”, come il titolo del bel romanzo di Primo Levi, purtroppo abusato spesso dai sacerdoti del politically correct!