-di GIULIA CLARIZIA-
Roma Capitale oggi compie 147 anni. Il 21 gennaio 1871, venne infatti approvata la legge che stabiliva lo spostamento della capitale del Regno d’Italia da Firenze a Roma. Ma perché Roma, con un passato tanto glorioso, non fu fin da subito la capitale del regno? Era forse stata considerata inadeguata? La risposta è molto semplice: perché non ne faceva parte. Così come il Trentino, il Veneto e il Friuli, il Lazio con Roma era ancora fuori dal regno d’Italia, costituendo lo Stato Pontificio retto in quegli anni da papa Pio IX.
Se da un lato il papa re rivendicava fortemente l’indipendenza dello Stato della Chiesa, dall’altro, fin dal primo discorso di Camillo Benso conte di Cavour come primo ministro dell’Italia unita, il 17 marzo 1861, Roma Capitale era vista come un obiettivo imprescindibile. Solo nella città di Roma infatti, concorrevano “tutte le circostanze storiche, intellettuali, morali che devono determinare le condizioni della capitale di un grande stato”.
L’alleanza tra Pio IX e Napoleone III rendeva però la situazione complicata. Un’eventuale invasione dello Stato della Chiesa avrebbe comportato l’intervento della Francia, potenza con cui non sarebbe stato facile competere, e che già in occasione dell’esperienza della Repubblica Romana aveva dato prova di essere pronta ad impugnare le armi in difesa della Roma del papa (circostanze non irrilevanti nella valutazione del processo unitario e anche dei vizi, effettivamente atavici, che caratterizzano il nostro Paese proprio a causa della sua tormentata nascita).
La prima capitale del regno fu dunque Torino, già capitale del Regno di Sardegna. Poi, nel 1864, per motivi strategici venne scelta Firenze. Ci si avvicinava infatti alla terza guerra di indipendenza contro l’Austria, e sarebbe stato quindi più opportuno spostare la capitale in una posizione più centrale, tenendo sempre a mente quella che doveva essere la meta finale: Roma.
Questo dimostra come non ci sia mai stato dubbio su quale dovesse essere la capitale italiana, si stava solo aspettando il momento giusto. Questo arrivò nel 1870, dopo la sconfitta di Napoleone III a Sedan nella guerra franco-prussiana. Il più temuto alleato di Pio IX era fuori dai giochi: era il momento opportuno per intervenire.
Il 20 settembre 1870, l’esercito italiano guidato dal generale Cadorna aprì la breccia a Porta Pia ed entrò a Roma (in una logica laica, quella dovrebbe essere una data santificata nel calendario del nostro Paese ma non è così). L’episodio è noto e descritto con efficacia dai canti popolari che si diffusero in quei giorni. Così recita ad esempio un colorito inno dei bersaglieri:“La battuta de Porta Pia l’hanno vinta li bersajeri, quelli boja de li stranieri li volemo fucilà. Oh vojantri bersajeri quanno entravio a Porta Pia, li zuavi scapporno via co la cacca a li carzon”.
A quel punto, non restava altro che realizzare lo spostamento degli apparati amministrativi. Il 21 gennaio, come si è già detto, lo si fece dal punto di vista legislativo. La cerimonia ufficiale si tenne qualche giorno dopo, il 3 febbraio 1871.
Restava aperta la “questione romana”, ovvero il conflitto tra lo stato italiano e la chiesa cattolica. Il papa infatti, chiudendosi in Vaticano, rifiutò di riconoscere lo stato italiano cercando di allontanare i cattolici dalla partecipazione alla vita politica ribadendo il “Non expedit”, già promulgato qualche anno prima (esaurì i suoi effetti col Patto Gentiloni, antenato dell’attuale presidente del Consiglio). La fine del potere temporale del papa era però ormai inequivocabile, sebbene il conflitto con lo stato italiano venne definitivamente sanato solo con il Concordato (maldestro e strumentale) del 1929.
147 anni dopo, troviamo una Roma Capitale in piena crisi di prestigio. Una situazione finanziaria da bancarotta, lo scandalo di Mafia Capitale, un’amministrazione quantomeno incapace di gestire una città che anche senza queste aggravanti sarebbe complicata. Si parla infatti di una città grande circa 1300 chilometri quadrati e con quasi 3 milioni di abitanti (quando divenne capitale tanto Napoli quanto Milano erano decisamente più grandi e popolose). Il problema però non è Roma in sé, ma chi l’ha gestita e dobbiamo anche aggiungere con un po’ di amarezza, chi alcuni tra coloro che vi risiedono e che la trattano come un inutile oggetto non capendo che, al contrario, siamo in presenza di un gioiello delicatissimo. A Roma scarseggia la cultura della cosa pubblica (atteggiamento in buona parte conseguenza storica, proprio di quel processo unitario che vedeva la chiesa impegnata a difendere il potere temporale provocando le calate degli “stranieri invasori” e in armi: e così la città e i suoi benefici contano per molti solo sino a quando possono essere privatizzati.
Ne risulta che la nostra Roma, se da un lato continua a strabiliare con le sue meraviglie sia turisti sia chi quotidianamente la ammira (il Colosseo è il monumento più vistato a livello mondiale, secondo solo alla Grande Muraglia cinese), dall’altro dal punto di vista dell’organizzazione e della vivibilità non fa bella figura nel confronto con le altre capitali europee, ed anche con molte altre città italiane. Il traffico, il trasporto pubblico che non funziona, le buche, il decoro. Quelle famigerate buche che stanno diventando di fama internazionale, e costituiscono per il comico Maurizio Battista, l’ostacolo da saltare nelle Olimpiadi che il romano compie ogni giorno. Sui social intanto, emerge l’idea che “Roma fa schifo”, il che non è vero anche perché in molti casi chi la giudica in questa maniera contribuisce a renderla “schifosa”.
In questo scenario, si rinvigorisce lo storico conflitto tra “Roma capitale, Milano succursale” da una parte, e “Roma provincia, Milano Capitale” dall’altra (bisogna dire che il dualismo è sempre esistito, addirittura da prima dell’Unità).
Milano, la capitale finanziaria, della moda e si è detto recentemente anche della cultura, per il proliferare di iniziative e per l’attrazione di numerosi giovani, induce alcuni ad avanzare la proposta di fare il passo successivo e prendere il ruolo oggi svolto dai sette colli.
Quello che disse Cavour quel 17 marzo 186,1 però, resta inequivocabile. Il ruolo di Roma come capitale rimane necessario per motivi storici, culturali e per quella bellezza che la rende unica al mondo.
Ricordiamo oggi che per Roma Capitale si è lottato, vinto ed espresso giubilo. Non solo i romani, ma gli italiani. Solo rispettandola possiamo aspettarci che un giorno, speriamo presto, se ne occupi qualcuno degno di questo compito (soprattutto da un punto di vista morale prima ancora che politico).
Concludiamo citando un’altra canzone popolare che, sebbene scritta diversi anni fa, risulta quanto mai attuale: “Se dice nun è Roma de ‘na vorta dicheno che so tutti forestieri lasseli chiaccherà che ce ne frega Roma tornerà quella di ieri (…) Venite tutti a Roma v’aspettamo… se dice che più semo e mejo stamo!”.